Una Storia come tante

La ragazzina entrò nel bar. Si guardò intorno e vide che al bancone c’era un solo cliente che si gustava lentamente il suo caffè. Era luglio e fuori faceva caldo, ma i clienti preferivano stare seduti all’esterno invece di stare dentro.  Dietro di lei fece il suo ingresso un ragazzo che portava il classico grembiule da barista e in mano un vassoio con qualche tazzina da caffè sporca. Fece il giro per passare oltre il bancone e mise le tazzine sporche dentro il lavandino. Il cliente che gli stava di fronte gli rivolse la parola: “Otto, ti devo pagare il conto.”

  • “Signor Giuseppe, 70 lire”
  • “Ma poi che nome è Otto” – gli disse mentre gli porgeva i soldi
  • “Signor Giuseppe sono l’ottavo figlio di dieci e mi hanno chiamato così”

Il cliente rise e se ne andò via

A quel punto Otto si rivolse alla ragazzina che poteva avere si e no quindici anni “Ciao, hai bisogno di qualcosa?”

“No” disse lei “Aspetto mia madre, di solito viene qui a prendere il caffè a quest’ora”

Il barista, la guardò annuendo. Per istinto guardò l’orologio alla parete, mancavano pochi minuti alle due

In quel istante dal retro uscìì un altro ragazzo che chiese.” E’ arrivata?”

Otto lo fissò e gli domandò:” di chi stai parlando Carmelo?”

“Ma si dai la signora che lavora nella profumeria, qui di fianco…”, “La Signora Anastasia”

“ Io non l’ho mai vista, il mio turno di solito inizia più tardi”

“ Non l’hai mai vista, è vero! Di solito facciamo a gara a servirla, E’ una donna bellissima… Ha un modo di muoversi che ti fa girare la testa” “ E, a proposito,  appena arriva, la servo io!”

Otto che per natura era scettico, annui distratto

Dall’esterno si sentì un leggero mormorio…piccoli bisbigli di uomini…

Un rumore di passi da donna, piccoli tacchetti,  niente di provocante…

I due baristi guardarono l’ingresso e quello che videro fu una donna, non troppo alta… sarà stata un metro e sessanta. Un corpo che ricordava a grandi linee le misure da pin up. Aveva una camicetta in viscosa color beige e una gonna tre quarti di color marrone, due scarpette con la punta arrotondata che facevano un piedino affusolato e una borsetta in tinta. Occhiali da sole color castano con le lenti affusolati da gatto. Ma non era la fluidità dell’accostamento dei colori che colpiva all’occhio, bensì la grazia di come camminava, di come si accostava al bancone. Otto rimase a guardarla e di colpo capìì che cosa intendesse il suo collega.

-“Sara, cosa ci fai qui?” – disse la donna rivolgendosi alla ragazzina

-“Ho lasciato le chiavi di casa dalla mia amica, e non volevo rifare di nuovo tutta la strada”

Anastasia aprii la borsetta e prese le chiavi dandole a Sara: “Eccole, ma domani dovrai andare a prenderle”

-“Grazie Mamma” disse Sara uscendo dal bar.

Carmelo prontamente esordì con uno sguardo languido: “Signora Anastasia il solito caffè?”

-“Si grazie”

Carmelo si girò e comincio a trafficare con la macchinetta del caffè, facendo rumore a più non posso, come se tutte questo frastuono lasciasse intendere che stava facendo il caffè più buono del mondo.

Otto nel frattempo era rimasto fermo li davanti a guardarla, non riusciva a toglierle lo sguardo da dosso.

Carmelo porse la tazzina sul bancone. Anastasia aggiunse un cucchiaino raso di zucchero. Lo mescolò con dolcezza e lo sorseggiò. Aprìì la borsetta e prese 70 lire. Le lasciò sul bancone. Ringraziò e uscì

Carmelo e Otto rimasero a fissare la porta di ingresso, quasi avessero visto un miracolo della natura…

Carmelo sospirò e rivolgendosi a Otto gli disse: “ Eh amico mio, avevo ragione, no?”. Otto non rispose ormai era assorto nei suoi pensieri… “ Anastasia…” “Che Donna…” “ Ma la ragazzina l’aveva chiamata mamma…” “ Ma quanti anni ha? Se ha una figlia di circa 15 anni….E’ poi sarà sposata…avrà un marito”

Dentro di se Otto si agitava. Quella donna l’aveva colpito. Sentiva un irrequietezza che gli prendeva lo stomaco, ma nello stesso tempo le domande che si poneva e le risposte che si dava non gli piacevano…

 

 

descrivo un oggetto : una foto

La foto che descrivo è stata scattata tanti anni fa e mi suscita molti ricordi. I personaggi siamo io, mia figlia Benedetta e mio marito. Era una festa di compleanno e ci trovavamo sulla veranda della nostra casa, casa che abbiamo lasciato circa 22 anni fa. In questa casa sono state concepite Benedetta, la ragazza della foto e Veronica, l’ultima nata.
Il ricordo più bello è il mio stato d’animo di quando aspettavo un bambino: ero contenta perché mi sentivo importante, utile.
In questa foto mi guardo e mi vedo sorridente ma già da allora “dentro” non stavo bene. Ma, mi chiedo, quando nella mia vita sono stata bene? Certamente quando mi sono sposata perché uscivo da una famiglia patologica e speravo di aver finalmente trovato un nuovo equilibrio e poi ogni volta che è nato uno dei miei figli tranne Benedetta perché sapevo, già dalla gravidanza, che era una bimba con problemi che nessun medico sapeva diagnosticare, almeno fino alla sua nascita, forse. Adesso Benedetta è preziosa, così com’è.
Vedo nella foto anche mio marito sul quale ho investito tante aspettative che in buona parte sono state deluse, non per colpa sua ma perché eravamo e siamo troppo diversi per avere quella sintonia e complicità che avrei desiderato. Lui è molto buono ma stranamente devo dire che ci sono momenti nei quali lo sento estraneo alla mia vita, come se fosse una persona che quasi non conosco. Ma tornando alla foto, mentre la descrivo mi rendo conto di quanti sentimenti mi suscita e di come la vita mi abbia riservato sorprese a volte piacevoli, alte no. Manca la descrizione di Benedetta, la festeggiata. Lei è la mia vita, la persona più importante che, anche se disabile, mi riempie il cuore di amore, tenerezza, desiderio di protezione.
Credo di aver detto anche troppo su questo oggetto, vi ho condiviso un pezzo e forse molta parte della mia vita.
Grazie care amiche per la vostra attenzione, vi abbraccio
Carla

CARE AMICHE VI SCRIVO…..

Carissime tutte, sono Carla e faccio parte di questo gruppo. Vi ho conosciute prima della pandemia e ho partecipato ad alcuni incontri. Da subito mi sono sentita a mio agio con voi, accolta, voluta bene. Poi dalla pandemia in poi “fermi tutti” e gli incontri sono stati sospesi. Ho fatto in tempo ad essere presente ad un pic-nic ai Fontanili e in questa circostanza è stato bello vivere un clima di serenità che mi è rimasto nel cuore.
In questi ultimi anni ho scritto e letto poco anche per una sorta di depressione che mi ha accompagnata, depressione dovuta allo stato della mia deambulazione, sempre più complicata. Ho subito due interventi chirurgici, nel marzo 2021 e nell’aprile 2022. Adesso cammino col deambulatore e ho molti dolori. Quando ho visto la comunicazione di Valeria relativa alla ripresa degli incontri ho subito detto che mi interessava e di fatto è così ma poi, al momento di partecipare, non me la sono sentita, vuoi per una assurda vergogna, forse pigrizia e comunque per i dolori che sempre sono presenti. Mi rendo conto di chiudermi alle relazioni, facendo eccezione per poche amicizie, e questo non mi fa bene, lo so, ma è difficile vincere i sentimenti che mi bloccano. Voglio comunque mettercela tutta e quindi spero di essere presente a novembre. Colgo l’occasione per dirvi che da sempre mi sento appartenente a questo gruppo, che vi penso e vi voglio bene. Alla prossima, Carla

Vi racconto una storia a lieto fine

Sono Carla, mamma di quattro figli: Ivan, Cristiano, Benedetta e Veronica
Quando Veronica è nata, 40 anni fa, era bellissima. Ho potuto vederla un’oretta dopo il taglio cesareo ed era già vestita con un coprifasce delizioso, tanti capelli neri: era una meraviglia, mi è piaciuta da subito!
Veronica è cresciuta senza crearci problemi e, dopo aver sperimentato la fatica di gestire Benedetta, la sorellina disabile nata solo un anno prima, la sua presenza era una bellissima realtà!
Tutto è andato bene fino a che una insegnante della scuola media mi ha convocata per dirmi che mia figlia non era serena e per chiedermi come andassero le cose in famiglia.
Il nostro contesto famigliare era questo: noi genitori, entrambi lavoratori, i nonni materni nn conviventi ma molto presenti per darci una mano, due figli di diversi anni più grandi delle sorelline, Benedetta disabile e da ultimo Veronica. Quello che si evidenziava era che Veronica era sola e le toccava fare i conti coi fratelli che non avevano gran che cura di lei e una sorella, con mille problemi, che assorbiva tutte le energie di noi genitori per i tanti bisogni che comportava la sua disabilità.
La comunicazione dell’insegnante mi rendeva ancora più consapevole della situazione, mi sentivo impotente e desideravo solo prenderla fra le braccia e darle tanti baci.
Negli anni a venire il malessere di Veronica si è manifestato in vari modi: frequentazioni che mi preoccupavano, anoressia e anche assunzione di alcool e droghe leggere. Cosa potevo fare?
Stavo male e anche lei stava male ma era chiusa nel suo guscio, serbava un rancore che non esprimeva, la situazione sembrava essere senza via d’uscita.
Inaspettatamente , quando Veronica aveva circa 20 anni, una nostra cara amica le ha fatto una proposta: andare a fare un pellegrinaggio a Medjugorie con altri giovani, gratuitamente, perché una ragazza aveva rinunciato. Dopo averci pensato mia figlia ha accettato ed è tornata dal pellegrinaggio cambiata: la Madonna aveva toccato il suo cuore.
Dopo questo evento benedetto Veronica è entrata in una Comunità di recupero per ritrovare se stessa.
Dopo tanti anni, quasi 10, si è sposata con un giovane ex tossicodipendente e dopo il matrimonio hanno lasciato la comunità. Successivamente hanno avuto due bellissime bimbe.
Purtroppo però il rapporto madre-figlia era ferito, lei inconsciamente mi accusava di preferirle Benedetta: tanti fraintendimenti, incomprensioni fino a che, anche grazie alla sofferenza che ha accompagnato in questi ultimi anni la mia salute, sofferenza che mi ha cambiata, ho deciso di scriverle a cuore aperto dicendole quanto le volevo bene e quanto non ci eravamo capite. Questo scritto è stato una benedizione. Lei lo ha accolto molto bene.
Adesso siamo ancora in cammino nel nostro rapporto ma l’ho ritrovata, ho finalmente la figlia che per anni avevo perduta. Ci dichiariamo il bene che ci vogliamo e ci sentiamo quotidianamente per condividere la nostra vita.

Grazie Signore!!! Accompagnaci, tienici per mano, non lasciarci mai.

Mamma Carla

vi racconto la mia vita

La mia vita: la bambina e la donna
Sono Carla, ho 77 anni e si può
dire che sono ormai anziana!!! Nonostante questo il mio cuore è pieno d sentimenti, di nostalgia, di tanto amore
Ma parto da quando ero bambina
La mia infanzia, già nel seno materno, è stata costellata da traumi e delusioni
Sono nata durante la seconda guerra mondiale : la mia mamma, che mi aspettava, ha vissuto il terrore delle bombe, il riparo nei rifugi e io con lei, essendo nel suo grembo Qualcuno dice che un bimbo in gestazione vive tutte le paure della propria madre e questo “mi è toccato” Ad un certo punto la mia famiglia è “sfollata” fino alla mia nascita e per alcuni mesi, i successivi al parto,  c’è stata una certa tranquillità. Siamo poi venuti a Milano, a fine guerra, con la nonna paterna che ha sempre vissuto con noi, essendo vedova d figlio unico Peccato che fosse da sempre in conflitto con mia mamma al punto che io, man mano che crescevo, ero sempre più la “sua” bambina e vivevo il rapporto con mia madre quasi fosse una trasgressione o un torto alla nonna A volte mi chiedo come ho potuto reggere ad uno stress così pesante e duraturo nel tempo.
Quindi fra liti famigliari Intervallate da momenti d serenità, quando stavo fuori casa coi miei genitori a fare delle passeggiate nei boschi, sono diventata una ragazza adolescente e ho cominciato ad avere un rapporto complicato col cibo Da 60 kg sono scesa a 45 e mi sentivo più leggera dentro, più libera da tutti i condizionamenti vissuti in famiglia, più libera dal sentimento d colpa per nn riuscire a scegliere da che parte stare (nonna o mamma?) Era un travaglio interiore pesante, nn potevo lasciarmi andare nel rapporto con la mamma perché avevo sempre addosso gli occhi  della nonna che in qualche modo controllava i miei “sentimenti”
Io nn ricordo momenti d coccole da parte d mia mamma, nn poteva farmele, era guardata a vista sempre dalla nonna
Qualcuno si starà chiedendo “dove” fosse mio papà, come presenza, in questa famiglia patologica
Lui amava tanto sia me che sua moglie ma sentiva anche il dovere d proteggere sua mamma e quindi era “fra due fuochi” e nn prendeva una posizione chiara Adesso sento per lui una grande tenerezza 🥰

In tutti gli anni a venire ho sempre convissuto con un disturbo alimentare, quello d cui parlavo più sopra, e questa “ferita” ha portato nel mio fisico gravi conseguenze
Dal punto d vista sentimentale ho avuto storie con varie persone, storie che viste oggi mi fanno capire come io nn mi apprezzassi come persona, forse cercavo qualcosa che riempisse il vuoto che avevo dentro  Poi finalmente ho trovato un uomo serio con la quale mi sono sposata Abbiamo avuto 4 figli, la terza disabile e abbiamo realizzato una bella famiglia Ma io? Io nn stavo bene, nn ho mai “ritrovato” né la pace interiore che il rapporto libero con mia mamma: lei era lontana, lo è stata sempre fino a quando il buon Dio l’ha chiamata a sé
Oggi, dopo una caduta e conseguente frattura del femore, faccio i conti con la mia disabilità e vivo con speranza sapendo che Dio Padre nn mi abbandonerà mai, che si prenderà cura d me ogni giorno e, chissà che, nei tempi che solo Lui sa, mi guarirà.
Grazie per l’attenzione amici,
Carla

Julija

Otto di sera, sola in casa e qualcuno sta suonando il campanello alla porta. Sfilo i guanti di plastica gocciolanti e ancor prima di guardare dallo spioncino domando: “Chi è?” Una breve esitazione, poi una voce che conosco “Priviét signora Elvira. Sono io, Julija.” Invito la giovane donna ad entrare, la osservo e noto sul suo volto un’espressione nuova, indecifrabile.

Purtroppo mi sorge il sospetto che sia venuta a trovarmi, come spesso accade, perché ha necessità di “telefonare a casa”, in Ukraina, da un telefono fisso. L’avaro uomo anziano a cui presta assistenza non glielo consente mai, se non a pagamento. Così, mentre ancora ci troviamo in anticamera mi sento dire: “Sai dov’è il telefono Julija, chiama tranquillamente.” Scuote più volte il capo offrendomi un risolino spensierato.

“Kak dielà, signora Elvira?” “Sto bene, grazie. Vieni un attimo in cucina che ho ancora piatti da lavare.”

“Spasiba.” Si dirige verso una  sedia posta all’angolo, accanto alla finestra. Quello è il posto prediletto anche da Helena, la signora venuta dall’Est. Julija lo sa, l’ha conosciuta e sono diventate molto amiche. Mi sorride sorniona, rimanendo in silenzio. E’ alta di statura, esile di corporatura, la pelle ambrata, occhi di un azzurro incredibile con cui mi osserva mentre titilla con le dita della mano un ricciolo ribelle dei sui lunghi vaporosi capelli, dal colore fiammeggiante da sembrare una torcia accesa.

Julija è una persona calma, affabile e affidabile, a cui non viene mai meno il sorriso; quando arriva sembra portare con sè una folata d’estate.  Possiede una laurea in Ingegneria Meccanica: titolo che qui non le viene ancora riconosciuto e pur di rimanere in Italia svolge un lavoro impegnativo. E’ una delle tante  brave badanti precarie, sfruttate e sottopagate. Quando lo scorso anno a luglio, avendo ospite Ilya, il bambino Bielorusso, mi ero rivolta a lei per “un aiutino” come traduttrice, ci incontravamo già da due anni, abitualmente nei locali della Caritas.

“Quale novità mi porti?” domando mentre ci trasferiamo in soggiorno.

Risponde: “TasKà”,  ma se ne pente istantaneamente. Mordicchiandosi il labbro inferiore si corregge: ”Niet, niet. Non è questo oggi il mio grosso problema, signora Elvira. Stasera ho bisogno di te: puoi farmi fotocopie colorate dei documenti arrivati dal Consolato?”

Sono a conoscenza del significato profondo della parola ”Toska”. Si pronuncia “taskà” proprio come si trattasse di una conchiglia. Infatti lo è: racchiude in sé uno stato emotivo pieno di sfumature di tristezza, inquietudine, afflizione e  malinconia. Tutte emozioni che spesso Julija patisce. Difficile per noi europeri tradurre e comprendere appieno la  rilevanza di questo vocabolo. Non ha alcuna attinenza con la nostalgia, di cui lei afferma di non soffrire.

“Potevi già portarmeli quei documenti.”  Mi sorride grata. Sospira a lungo. Si rilassa, quasi a voler far scivolare via una forte tensione interna. Si alza in piedi e da sotto il maglioncino rosso, con un fulmineo gesto di magia, sfila una busta color arancione formato A4. Non riesco a trattenere una risata.

“Io nascondo, signora Elvira, documenti importanti questi miei.  Università, cert cer …come dire miei personalmente?”  “Sono certificati, come quello di nascita, quello di identità?”

“Si, anche di divorzio.” L’informazione mi coglie alla sprovvista. Lei osserva la mia espressione sbigottita e arrossisce lievemente. “Niet, non ti ho detto che giovanissima sono stata sposata a Kiev, scusa.” “Scusami tu Julija se sono rimasta così sorpresa. Ma, hai divorziato a vent’anni?” Sono al corrente, infatti, che ne compirà venticinque il prossimo mese di giugno; data la giovane età potrei esserle madre.

 “No, diciannove anni. Matrimonio kaput dopo quattro mesi, lui ragazzo violento e molto ubriaco di alcol. Studiavamo insieme. In mia Nazione non prevedere periodo di separazione: divorzio arriva presto, anche entro tre mesi.”  Incapace di spiccicare parola, ancora incredula, rimango muta. Lei mi tranquillizza: “E’ la verità vera, signora Elvira. Tu puoi leggere tutti i miei documenti che ho portato. Sono stati tradotti in italiano e hanno validezza.” “Non occorre Julija, ti credo. Andiamo a fare le fotocopie a colori. A cosa ti serviranno?”

Si illumina, spalanca le braccia, mi abbraccia teneramente ma con grande entusiasmo. Caspita! Ecco scoperchiata la pentola che ribolliva: è innamorata e sprigiona la sua frizzante, contagiosa felicità. “Porto tutti i fogli al mio fidanzato che è buono, bravo e mi aiuta. E’ un uomo serio, grande di trentasei anni e vuole vedere tutta la mia storia.” “E’ qualcuno che conosco?”  la curiosità è femmina…

“No è di un altro paese, qui vicino; lavora in una Banca e si è innamorato di me.” “E tu di lui, si vede anche al buio. Sono davvero contenta, Julija.” “Kojak, per favore, non dire al vecchio signore che tu sai tutte le cose di me.” “Tranquilla, lo conosco a malapena, e poi esce pochissimo di casa, vero?”

“Da, da. Troppo vecchio e malato e non gentile con me. Lui non sa ancora che presto vado via. Vado a vivere dal mio fidanzato che si chiama Fabio.” “E’ una notizia bellissima che mi rende molto felice. Ti meriti il meglio dalla vita.”  “Signora Elvira, mi dispiace tanto per noi; tu sei buona e hai aiutato me.” “Possiamo comunque tenerci in contatto telefonico. Io ci tengo.” “Da,da, ma io avrò tanto da fare per preparare tutto bene per bebè che arriva.” “Aspetti un bambino? Ma dove lo nascondi che sei così magra?” “No, no nascondere. Lui piccolo semino appena arrivato” e, con un sorriso che riempie la stanza, conferma la gravidanza sventolando due dita della mano.

E’ arrivato il mio momento di abbracciarla con affetto materno. “Abbi cura di te, mi raccomando. E soprattutto sii felice più che puoi, cara Julija. Ma non sparire, d’accordo?” “Niet, signora Elvira. Noi ci sposeremo presto, vedrai. Poi, quando è nato, ti porto il piccolo bebè di Julija e Fabio così diventi nonna.”

Celebriamo i fortunati eventi brindando con una tazza di the e con soffocate risatine contagiose. Io corro rischio di rimanere stritolata dai suoi calorosi abbracci.

“Ciao Julija. Arrivederci.” “Ciao signora Elvira. Do svidania. Arrivederci!” è talmente raggiante che scende le scale a volo d’angelo.  Sorrido divertita mentre richiudo la porta alle sue spalle. Sfilo le chiavi dalla toppa dal momento che i “maschi” di casa, – che si trovano allo stadio Meazza ad assistere ad una partita di calcio di “vitale importanza” -, rientreranno tardissimo.

Le ombre della notte sono scese sulla giornata e sulle case.  Ancora emozionata ed intenerita dalle improvvise sorprese della vita, mi dirigo verso la finestra della cucina per abbassarne la tapparella. Lo sguardo mi cade sulla “sedia preferita” dalle mie amiche straniere e noto la presenza di un foglietto a quadretti, ripiegato alla bell’e meglio. E’ del tutto inaspettato e sono più che certa non si tratti di un uno dei miei mille appunti, scritti in tutta fretta, che distrattamente semino per le stanze di casa.

Attratta ed intrigata lo raccolgo, lo apro lentamente, quasi timidamente. Incontro subito la spigolosa calligrafia di Julija e, alla vista dell’immancabile “Signora Elvira”, provo un’intensa amorevole commozione:  “Ho voluto essere, imparare, fare, avere mille cose che  – tu sai  – mi sono mancate. Adesso vorrei anche assomigliare un poco a te. Julija”

 Marzo 2004

P. S. 11 aprile 2021

Oggi, dopo aver sentito la notizia flash: ”Venti di guerra tra Russia ed Ucraina, con escaletion di minacce e movimenti di truppe”, ho deciso di pubblicare il racconto.

 

Ho perso una cara amica

Carissimi, scrivo due parole sull’evento doloroso che ha colpito me e tutte le amiche e amici di Fede e Luce e la comunità parrocchiale di Pantigliate. Aggredita dal covid 19, nel giro di una decina di giorni, è mancata Giovanna Banchiero, una persona molto conosciuta nel nostro paese e una grande amica della comunità Fede e Luce.

Dento di me è rimasto un grande vuoto perché la conoscevo da anni e ci volevamo bene. Giovanna era una persona generosa, non si risparmiava né per la nostra parrocchia né per Fede e Luce, della quale da circa un anno era la coordinatrice. Riusciva a pensare a tutto e anche a curare la piccola Desiré, la sua nipotina nata da pochi mesi.

Quando manca una persona amica, se ne va un pezzetto di te, rimane il rimpianto, il ricordo dei momenti vissuti insieme, rimangono le sue parole di incoraggiamento quando mi vedeva preoccupata per la mia situazione di salute e mi diceva “tu sei importante, come farei senza di te”

Giovanna è entrata a far parte della mia vita e non uscirà più perché è scolpita dentro, nel profondo. So che dopo una breve ma molto intensa sofferenza, lei è arrivata e adesso è nella luce e nella pace.

Ho perso un’amica ma ho un angelo che dal Cielo mi guarda e intercede per me.

Giovanna, grazie di essere  stata con me, con noi, finché il Signore lo ha permesso. Buona vita eterna!!!

 

 

Il prigioniero n. 47497

In occasione della lettura della vivida, dolce, poesia “Il miele ereditato” di Barquero mi sentii stimolata a scrivere il racconto “Cose dell’altro secolo”: un affresco pieno di immagini famigliari, prese dal mio vissuto, che attraversavano molti anni della mia vita.

Con rammarico evidenziavo di non conoscere affatto mio padre. La mia convinzione, tra ipotesi e congetture formulate, era che a causa dell’esperienza traumatizzante della guerra la sua anima si fosse un po’ smarrita. Divenuta solitaria, lo induceva a sostenere una continua battaglia contro se stesso e a serrare sotto chiave sentimenti ed emozioni. Come scrissi, sulla sua persona disponevo di poche informazioni: il suo lavoro, il silenzio impostosi sul dolore e la sua eccessiva, ingiustificata, intransigenza.

Quindi non vi è traccia di un “nostro tempo” vissuto insieme. Incapaci entrambi di abbattere il muro della separazione, in un angosciante silenzio dei cuori, avevamo relegato la nostra parte migliore nel “Regno del non detto”. Mentre ne scrivo la tristezza mi fulmina e le lacrime insistono a pizzicarmi gli occhi. Provo pena per entrambi, ma  mi assolvo.  Avevo scelto, infatti, di allontanarmi da lui e dalle sue aspettative per privilegiare l’incontro con me stessa e abitare “la mia vita”. Certa che in tal modo avrei evitato di assomigliargli nel comportamento, nel carattere o nelle mie scelte future.

Oggi, grazie a mia sorella maggiore Livia, un insperato raggio di sole dalla potenza accecante ha fatto luce sul mistero che lo avvolgeva, confermando le mie supposizioni e la scelta di essermi rassegnata all’idea che papà ed io non avremmo potuto “conoscerci”.

Questa mia sorella, appassionata di storia, lingue straniere, e a tutt’oggi eccellente studiosa, con una telefonata mi ha anticipato l’invio di diverse e-mail, inerenti un gran numero di fatti tessuti nel tempo, descritti mantenendo un buon ordine cronologico. Talune notizie le aveva “strappate” a fatica, parola per parola, dalle labbra di papà prima che egli non fosse più tra noi.  Poi aveva potuto prendere visione di documenti personali, originali, da lui sempre gelosamente conservati, rendendoceli invisibili.

Alcuni anni orsono, sospinta da una legittima curiosità filiale, Livia – anche in nome e per conto di noi sorelle – si era posta in cammino andando alla ricerca delle radici, del passato e della storia del nostro genitore. Inizialmente, d’istinto, si era affidata ad un primo sconosciuto indizio: “Dippach”, che  risultò poi essere il nome di un luogo in Turingia.

Con ammirevole determinazione, decise di muovere i primi passi investigativi dirigendosi in quella direzione, prendendosi tutto il tempo necessario per affrontare un avventuroso viaggio a ritroso, lungo un minuzioso itinerario.

Una delicata missione “unificante”, un’ambiziosa ricerca della verità, fortemente voluta e portata a termine con la fattiva collaborazione di parecchi conoscenti, suoi cari amici di vecchia data, residenti in molteplici località europee.

Nel corso del suo viaggio, oltre a rinsaldare il legame con tutti loro, è riuscita ad instaurare nuove amicizie, a raccogliere informazioni, materiale, fotografie, notizie e curiosità. Incontrate le persone anziane, che abitavano ancora i luoghi frequentati da nostro padre, ha avuto la fortuna di intervistarne alcune.

“Apro” i testi delle e-mail e con curiosità, e turbamento, mi dedico alla loro lettura e rilettura. Non mi sarà facile riassumerne il contenuto, ma intendo provarci.

Il primo fatto che colpisce mi chiarisce la ragione per la quale papà impartiva i suoi “indiscutibili” ordini in una lingua rozza, che noi chiamavamo “ostrogoto”. Il nonno paterno, espatriato giovanissimo, aveva vissuto e lavorato in diverse case patrizie tedesche. Rientrato in Italia, si era sposato e con tutta la famiglia dedicato all’agricoltura. Nelle lunghe sere d’inverno insegnava alla numerosa prole elementi base di tedesco. All’età di ventiquattro anni, anche papà per un certo periodo aveva lavorato in Germania. Nella fattoria presso cui si guadagnava il pane imparò a fare “il gelato” manualmente con il latte eccedente il suo fabbisogno.

Scopro che per motivi diversi, tra i quali quelli legati all’evento bellico, visitò, lavorò, rimase ferito in guerra o fatto prigioniero, in molte altre località: dalla Turingia alla Sassonia, dalla Grecia all’Albania, la Prussia, zone confinanti la Francia o la ex Jougoslavia.

Mi viene meno il coraggio di domandarmi per quale bizzarra ed inspiegabile causa il ricordo che mi sono tenuta stretta fino a ieri non coincida affatto con alcuno di tali Luoghi.  Ho sempre creduto che papà, da Soldato dell’Esercito avesse partecipato dal ‘935 al ‘941, esclusivamente, all’occupazione italiana dell’Abissinia (ora Ethiopia). Mistero….

Negli anni devastanti della Guerra aveva patito l’inferno sotto ogni sua forma: fame, sete,  gelo, febbri malariche, torti, umiliazioni, insulti, infortuni, manganellate, ferite ed un’inconsolabile disperazione. Un triste destino si mise di traverso proprio nel giorno dell’Armistizio, l’8 settembre del 1943! La Wehermacht lo catturò facendolo prigioniero, assegnandolo ad una miniera, divenuta stabilimento militare dedicato alla produzione di “granate per Hitler”. Qui, fruendo di un unico pasto, lavorava sedici ore al giorno a trecento metri di profondità.

Nel 1945, all’arrivo della forze armate di Liberazione fu trovato ancora in vita, fortemente minato nel fisico. La sua miracolosa sopravvivenza venne attribuita alla capacità di compiere spontanee rinunce a favore di altri commilitoni e di sapersi adattare a inenarrabili situazioni disumane. Prima di poter rimpatriare rimase ricoverato per molti mesi e ricevette adeguate cure sanitarie ed una umanissima assistenza infermieristica.

Sono venuta a sapere molti altri episodi della sua vita. Dopo le scuole elementari fu costretto a faticare lavorando sempre “nei campi”, anche all’estero. In fanteria gli venne riconosciuto il grado di “tiratore scelto”. In prigionia gli furono insegnate importanti nozioni infermieristiche. Inoltre, per via della sua conoscenza della lingua alemanna, spesso gli furono assegnate funzioni di interprete!

Ancora malconcio, una volta rientrato in Italia, nel 1947 sposò la sorella della moglie di uno dei suoi fratelli. Poi, pedalando in sella ad una bicicletta decise di raggiungere la Lombardia. Insieme ad un gruppo amici, si mise fiduciosamente alla ricerca di un “buon lavoro” che gli consentisse di farsi raggiungere, entro breve tempo, dalla giovane sposa.

Dalla Fabbrica del Veleno, inizialmente venne assunto come muratore; anni dopo, ne divenne uno dei Poliziotti Privati. Un’occupazione dignitosa, impegnativa e mal retribuita. Papà alto di statura, con il portamento ed il passo militare, con la sua divisa di ordinanza mi metteva in soggezione, incutendomi ulteriore timore ed un battito rapido del cuore. Ricordo bene il completo grigio antracite, la camicia blu, la cravatta nera, il berretto con visiera, il cinturone corredato dal fodero per la sua personale “rivoltella.”

Dulcis in fundo.

La telefonata di Livia mi informa che – alla memoria di nostro padre – la Presidenza della Repubblica Italiana ha disposto la consegna della “Medaglia d’onore,” riservata agli Internati Militari Italiani nei lager nazisti dal 1943 al 1945.  In occasione del Giorno dedicato alla Memoria, il 27 di questo mese –  a causa del persistere della pandemia – lei sarà la sola congiunta presente all’evento. Il preziosissimo riconoscimento le verrà consegnato dalle mani del Prefetto di Sondrio durante una cerimonia ufficiale, che coinvolgerà i parenti di altri I.M.I., alla presenza di Sindaci, giornalisti, fotografi ed emittenti televisive.

Provo una sincera, immensa, gratitudine per Livia, per la sua determinazione e tenacia nell’aver voluto intraprendere il viaggio alla ricerca della storia che “ci appartiene e ci accomuna”. La ringrazio di cuore per essersi attivata affinchè nostro padre, “lavoratore coatto” per l’economia di guerra, avesse titolo per ricevere la Medaglia d’Onore.

A mio padre che anche da dove si trova mi starà ancora “tenendo d’occhio”, vorrei dire: “Quando il Sonno Eterno, reclamandoti, ti ha liberato da ogni memoria autobiografica che appesantendoti anima e mente non ti abbandonava mai, mi sono unita a te. Ho così accettato che la tua parte migliore dovesse comunque rimanermi dentro e appartenermi.”

21.01.2021

Dedicato all’8 marzo

Mi chiamo Lucilla, la dottoressa Lucilla Torregiani, e oggi posso affermare di avere conquistato il lavoro dei miei sogni.
Il mio percorso non è stato semplice e ho dovuto combattere per ogni piccolo passo in avanti. Ho iniziato a lavorare con un diploma di segretaria d’azienda, seguendo il consiglio dei miei genitori. “Come donna – dicevano – scegli una professione che non ti impegni troppo tempo. Metti da parte qualche soldo per la dote e poi, quando ti sposerai, potrai stare a casa e badare alla tua famiglia a tempo pieno.
Così, da brava figlia, appena finite le superiori trovai un impiego come segretaria presso un’importante agenzia di comunicazioni. Com’era diversa la vita in quegli uffici da come l’avevo sempre immaginata! Con l’esperienza maturavo sempre più idee e soluzioni da proporre, ma chi voleva ascoltare un’umile segretaria?
Eppure non mi sentivo inferiore a loro, ero sempre più consapevole della qualità delle mie idee e della ricchezza delle mie esperienze. Così mi sono iscritta a Scienze della comunicazione. Lavorare e frequentare l’Università è stata dura ma ce l’ho fatta.
Con l’accrescere delle mie potenzialità quell’ambiente lavorativo mi stava sempre più stretto, così ho fatto il grande salto ed ho aperto una mia agenzia.
Che fossi brava lo sapevo già, velocemente lo hanno capito anche all’esterno e il lavoro ha cominciato a girare bene. Così ho espanso l’attività ed ho assunto nuovo personale. Tutte donne naturalmente, tranne il nostro segretario che si chiama Mario ed è davvero un bel ragazzo, perché in fondo anche l’occhio vuole la sua parte.
Oggi entrando in ufficio sono stata fermata da un cliente che mi ha chiesto: “Signorina, posso parlare con il titolare?”
Con che soddisfazione gli ho risposto: “Sono la dottoressa Torregiani, la titolare. Fissi un appuntamento con Mario, il mio segretario”.
Dovrò per la mia carriera rinunciare a farmi una famiglia? Assolutamente no: se gli uomini non devono scegliere, perché dovrei farlo io?
Per la mia vita ho scelto il pacchetto completo.

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