Archivia 15 Settembre 2025

World War F

“Eccoti qua! Ti ho cercata dappertutto, da quanto tempo sei qui chiusa nel bagno? Ma che cosa stai facendo? Stai piangendo?”

“Hey! Non è niente, non ti preoccupare, questo mese ho avuto dei dolori più forti del solito ma adesso è passato tutto, sto uscendo.”

“A me non la racconti, quelle sono lacrime!”

“Forse, ma non è niente davvero. Avevo bisogno di stare da sola per un po’.”

“Dimmelo, che cosa c’è che non va?”

“Ho paura, non dirlo a nessuna però! Che cosa ci stiamo facendo qui? Come siamo arrivate a tanto? Sento che stiamo commettendo un’enorme sciocchezza, quelli ci schiacceranno; la guerra è sempre stata una cosa da maschi, noi non ce la faremo e prima o poi soccomberemo.”

“Lo so… ma guardami, bene, negli occhi. Ne abbiamo parlato per tanto tempo, non avevamo altra scelta. È vero, la guerra l’hanno sempre fatta loro, il risultato è che è l’unico modo per combatterli, utilizzando le loro stesse armi.”

“Lo so, eravamo tutte d’accordo quando abbiamo sferrato l’attacco, ma ci doveva essere un’alternativa, forse non ci abbiamo pensato abbastanza!”

“Coraggio, dai! Non perderti d’animo, qui al Comando Generale sei al sicuro, l’abbiamo costruito in Svezia perché il governo ha firmato immediatamente un patto di non aggressione ed è sceso a patti. Lo sai che stanno arrivando buone notizie da tanti fronti? Le combattenti stanno avanzando in Afghanistan, in Nigeria, in Russia, in India… abbiamo cancellato matrimoni combinati, fermato mutilazioni, chiuso scuole religiose e centri di propaganda! Le combattenti francesi – è stato impossibile impedir loro di aprire un fronte in Francia – si sono messe in contatto con noi questa mattina: hanno preso d’assalto il Ministero delle Forze Armate. Nei prossimi giorni metteremo le mani sulla bomba atomica!”

“E se tutto andasse male? E se tutto andasse male? E se tutto andasse male?”

“Calmati, e pensa a che cosa stiamo combattendo: quando è cominciato tutto? Non lo sa nessuno, fin da quando si ha memoria una parte dell’umanità ha dominato sull’altra. Hanno fatto uso di tutti i mezzi a loro disposizione: sono superiori fisicamente e ciò ha dato loro un indubbio vantaggio, e si muovono in gruppo, sanno agire in squadra, coordinare manovre mentali che ci hanno rese schiave – se non addirittura complici del nostro stesso sfruttamento. Quando la guerra sarà finita cambierà tutto, studieremo segregazione e sopraffazione solo nei libri di Storia!”

“Hai saputo qualcosa anche di lui? Sai se sta bene? È vero che non è al fronte?”

“Tuo figlio è stato cresciuto bene, sono certa che sappia qual è la parte giusta e che sia sano e salvo nei territori liberati.”

“E le altre madri… quelle meno fortunate di me, quelle che non sono riuscite a guidare il cuore dei loro figli, io penso a loro. Come faranno a combattere questa guerra?”

“Le aiuteremo, ci penseremo noi a sparare contro i loro figli, se esse non potranno. Poi, negli anni a venire, ne faremo altri, di migliori. Insegneremo loro il rispetto, la giustizia e la benevolenza, ne faremo uomini veri, umani, che finalmente saremo libere amare.”

“Ce la faremo secondo te? Ad essere donne migliori. Ci sono cose che nemmeno lanciando bombe potremo mai cambiare, siamo fatte per generare figli e figlie!”

“Asciugati le lacrime e concentrati, pensaci bene… se davvero fossimo nate soltanto per procreare, perché mai Dio ci avrebbe dato un cervello così meraviglioso? Quando la guerra sarà finita, potremo scegliere come dare la vita, come fare l’amore e con chi fare l’amore, secondo la nostra natura e non saremo additate, né nascoste, né messe da parte.”

“La guerra… ci permetterà di conquistare tutto questo?”

“No, niente affatto, la guerra distrugge. Il mondo nuovo sorgerà dalla nostra capacità di fare la pace. Su dai, adesso alzati e usciamo di qui. In battaglia non bisogna mai dimenticare di guardare dritto verso le linee nemiche, e di pregare per la pace.”

Sorellanza

Era ormai notte e fuori pioveva. La condizione ideale per riposare profondamente facendosi cullare dal ticchettio della pioggia sui vetri, eppure Sara stentava a prendere sonno. Un senso di oppressione che non sapeva spiegarsi le attanagliava il petto, come un oscuro presentimento di cui volle tener conto. Si alzò dal letto e si accoccolò comodamente sul divano, una tazza di tisana calda in mano, in attesa che qualcosa accadesse.
E qualcosa accadde: il campanello di casa squillò. Un suono breve, quasi timido di chi teme di recare disturbo.
Elena! Pensò correndo ad aprire la porta.
Elena le si parò davanti. Stringeva una piccola valigia con entrambe le mani, come se fosse un’ancora di salvezza. Odorava di pioggia e paura.
«È successo di nuovo?» le chiese, anche se conosceva già la risposta.
Elena annuì. Gli occhi rossi, ma nessuna lacrima. «Non posso più tornare lì».
Sara le prese la valigia e la fece entrare. «Non ci tornerai. Te lo prometto», le disse con voce ferma, cercando di trattenere la rabbia che provava che, in quel momento, Elena non sarebbe stata in grado di sopportare.
Da mesi Sara osservava i segni sulla pelle bianca dell’amica, lividi che cambiavano colore come foglie d’autunno, giustificazioni frettolose, silenzi che pesavano come pietre.
Aveva cercato più volte di aiutarla ma Elena era stata irremovibile. Temeva il giudizio della piccola comunità di cui faceva parte, dei parenti e degli amici che forse si sarebbero schierati dalla parte di lui.
«Io non sono una buona moglie – cercava sempre di giustificarlo – perché non voglio figli e voglio sempre fare di testa mia. Ecco perché lui perde sempre la pazienza».
A nulla erano valse le argomentazioni di Sara e i suoi tentativi di coinvolgere Elena nel suo gruppo di supporto per donne maltrattate: lei non ne aveva mai voluto sapere.
Almeno fino a ora.
Senza una parola, Sara la aiutò a togliersi i vestiti bagnati e a sostituirli con un pigiama caldo e accogliente come una carezza amica, le preparò un giaciglio sul divano e la fece accomodare accanto a sé. Non serviva parlare: la cura migliore era un silenzio colmo di comprensione. Elena si addormentò esausta e dormì profondamente, come non le capitava da troppo tempo.
La mattina dopo, Sara chiamò le altre: Anna, che una volta era scappata di notte con i figli; Lucia, che sapeva come muoversi nei labirinti delle denunce; Fatima, che aveva imparato a riconoscere il pericolo prima ancora che bussasse alla porta.
Si trovarono in cucina, intorno a un tavolo, il profumo di caffè e biscotti a mescolarsi con la tensione.
«Non sei sola, Elena» disse Anna, stringendole la mano. «Ci siamo noi con te, ti seguiremo a ogni passo».
Lucia tirò fuori un foglio: «Questo è il numero di un’avvocata. Ti guiderà nel percorso».
Fatima le porse un foulard. «Per coprire i lividi. Non di vergogna, ma di forza».
Elena guardava quelle donne, tutte diverse, eppure unite. Non era più un corpo isolato nel buio: era parte di un cerchio di luce.
I giorni successivi furono una corsa tra pratiche, incontri, stanze sicure. Ma ogni sera tornavano insieme, a casa di Sara, e ridevano un po’ di più. L’angoscia cedeva spazio alla fiducia, la paura alla consapevolezza.
Un mese dopo, quando firmò i documenti che la liberavano legalmente da quell’uomo, Elena uscì dal tribunale con le mani che tremavano. Le amiche la aspettavano fuori.
«E adesso?» chiese lei.
Sara sorrise: «Adesso ricominciamo. Insieme».
Era sorellanza, quella vera: una rete invisibile che nessun pugno poteva spezzare, un patto silenzioso fra donne che scelgono di non abbandonarsi mai, l’unica catena a cui vale la pena ancorarsi.