Squilla il telefono. Lo ignoro.
È il mio weekend di libertà e i bambini sono dal padre.
Di certo è lui che ha bisogno di aiuto perché li convinca ad obbedirgli.
Il telefono insiste più volte, rispondo: sono i Carabinieri.
Mio figlio è rimasto coinvolto in un incidente stradale.
Sentirsi gelare il sangue. Ora capisco la sensazione! Per un attimo sembra rimanere bloccato nelle vene.
È in viaggio in elicottero verso l’ospedale di Brescia, quello più vicino per i casi gravi.
Condizioni del ferito: non comunicate.
Posso farcela ad arrivare fino là senza morire di paura!
Mi metto in viaggio, in apnea, ancora non ho notizie ma tengo duro.
Qualunque emozione deve essermi estranea.
Il mio secondo cervello non la pensa allo stesso modo, mi costringe a fare tappa in ogni bagno disponibile.
Finalmente arrivo all’ospedale, lo vedo per meno di un minuto, il tempo per spostarlo dal pronto soccorso alla rianimazione.
Il piccolo volto tumefatto, non può accorgersi di me. Coma.
Anche in questo momento il mio bambino è il più bello del mondo.
Per quattro giorni resto fuori dalla rianimazione, sono pochi i momenti in cui posso vederlo. Continua a non vedermi, a non sentirmi.
Resisto distaccata altrimenti potrei morire.
In attesa la mia mente cerca costantemente un contatto con la sua.
Non mollare piccolo mio, puoi farcela.
Ce la faremo.
Sono passati ormai vent’anni, mio figlio si è appena laureato.
Non penso più a quei giorni, sembra quasi che nulla sia mai accaduto, ma se il telefono squilla…corro subito a vedere chi mi chiama.
Il fuoco della passione
Florence sentiva un sacro fuoco ardere dentro di sé. Non un fuoco qualunque, ma una di quelle fiamme che ti fanno sentire invincibile, destinato a grandi cose. Peccato che il fuoco di Florence fosse alimentato dal carburante sbagliato: l’assoluta convinzione di essere una grande cantante.
Fin da piccola aveva deciso che avrebbe coltivato questo suo talento innato. Durante una recita scolastica, mentre tutti gli altri bambini cantavano “Jingle Bells”, lei, senza alcun preavviso, aveva trasformato la melodia in una specie di assolo metal. L’insegnante aveva pianto, ma non per commozione.
L’anno successivo pensò a una crudele beffa del destino quando, alla nuova recita, le assegnarono la parte della sirenetta che, a causa di un sortilegio, era diventata muta. «É un delitto sprecare una voce come la mia!» aveva protestato invano.
Crescendo, iniziò a esibirsi ovunque: compleanni, matrimoni, persino funerali. Una volta cantò Amazing Grace durante la commemorazione funebre di uno zio, e il prete si dovette fermare per spiegare ai presenti che l’ululato che era risuonato per tutta la chiesa non era un segno apocalittico.
Lei, sorda a ogni critica o consiglio, tirava dritto per la sua strada. «Ho il fuoco della passione!», diceva, e chi lo ascoltava pensava che fosse piuttosto un incendio fuori controllo.
Decise di iscriversi a un talent show locale chiamato “Falling Stars”. Lì, di fronte a una giuria composta da un macellaio, un’insegnante in pensione e un DJ che sembrava allergico alla vita, Florence diede il meglio di sé. O il peggio, dipende dai punti di vista.
Scelse di cantare “My Heart Will Go On”. Ora, immaginate un cinghiale innamorato che grugnisce alla luna dopo una sbronza epica: quello era il livello. I giudici non sapevano se ridere o chiamare un veterinario. Quando finì di cantare, ci fu un silenzio surreale, poi la gente cominciò a fischiare e a lanciare pomodori.
Nonostante il fallimento, Florence non si arrese: «La passione vincerà su tutto!» insisteva, mentre la sua famiglia disperata si barricava in casa ogni volta che lei tirava fuori il karaoke.
Un giorno, però, accadde qualcosa di straordinario. Durante una sagra di paese, il sistema audio si guastò. La gente iniziò a rumoreggiare e il presentatore, disperato, chiese a Florence di cantare a cappella per intrattenere il pubblico. «Almeno tireranno i pomodori a lei e non a me!» pensava.
Lei salì sul palco con la stessa sicurezza di un elefante, ignaro della sua stazza, che entra in un negozio di porcellane. Cominciò a cantare una versione improbabile di “My Sharona” e qualcosa di magico accadde: il pubblico scoppiò a ridere. Ma non una risata cattiva, bensì una risata contagiosa, sincera. Florence, senza saperlo, aveva trovato il suo vero talento: far divertire le persone.
Da quel giorno, abbandonò i sogni di essere una cantante famosa e divenne l’attrazione comica più richiesta delle sagre di tutta la provincia. Il fuoco della passione bruciava ancora ma, finalmente, aveva trovato la sua vera vocazione: portare gioia, stonature e un po’ di follia ovunque andasse.
E così visse felice, storta e (quasi) contenta.
Il respiro del Cosmo
In principio, non vi era nulla. Solo un silenzio infinito, un vuoto senza tempo, privo di luce e di ombra, di emozioni e materia. Poi, il respiro di Dio scosse quel nulla, una lenta e profonda espirazione che fece vibrare il vuoto come una corda tesa. Da quel respiro, arcaico e potente, nacque il primo suono, un’onda che si espanse e plasmò la luce e le stelle.
L’universo si aprì come un fiore nel vento, e l’aria, il respiro stesso del Cosmo, riempì ogni spazio, invisibile e onnipresente. Non vi erano ancora confini tra il tutto e il nulla: l’aria era il tessuto sottile che teneva insieme ciò che era e ciò che sarebbe stato. Era il battito di ali del creatore, l’impulso vitale che aveva dato inizio alla danza cosmica.
Tra le correnti di questo respiro primordiale nacque Etere, una creatura fatta di pura essenza. Non era carne né luce, ma il riflesso vivo del soffio divino. Etere si destò al deflagrare del primo respiro, tra le nebulose nascenti e i vortici delle galassie in formazione, sentendo dentro di sé il ritmo del cosmo, il suo perpetuo alternarsi di inspirazione ed espirazione.
E fu sera e fu mattino: il primo giorno. Ogni alba che si accendeva era un nuovo respiro che infondeva forza ai mondi appena nati. Ogni tramonto era un esalare, una carezza di pace sul volto dell’universo in divenire. Etere ascoltava l’aria e ne percepiva la melodia: canti di nebulose lontane, sospiri di stelle morenti, il mormorio delle onde su pianeti sconosciuti, la vita che si affacciava prepotente a popolare i pianeti.
Si muoveva tra le correnti del vento, ascoltando le storie che l’aria portava con sé: il canto dei mari lontani, i bisbigli delle foreste, le grida degli uomini e il silenzio delle montagne.
Accarezzava con un soffio ogni nascita e ogni morte, danzando allo stesso ritmo del respiro cosmico che tutto aveva originato.
Ma col passare degli eoni, il respiro del cosmo si fece più irregolare. Etere udì un lamento, un’ombra di dolore nell’aria. «Cosa accade?» chiese, alzandosi sopra le galassie come un soffio invisibile.
«Il mio respiro si spezza», rispose una voce antica e vasta. «I miei figli dimenticano il dono dell’aria. Dimenticano che ogni respiro li unisce a me. Chiudono le loro menti e i loro cuori, costruiscono muri, soffocano i venti, e il mio soffio si appesantisce».
Etere sentì la pena del Creatore e decise di riportare l’armonia. Viaggiò attraverso i mondi, guidata dal ritmo del respiro divino, per ricordare agli esseri viventi la sacralità dell’aria. Sul pianeta della Terra, si insinuò sotto un cielo grigio nei sogni dei neonati, insegnando loro a inspirare profondamente per trovare forza e calma, sussurrò ai morenti, mentre esalavano il loro ultimo respiro, mostrando che ogni soffio è parte di un cerchio eterno.
Col tempo, gli esseri viventi iniziarono a ricordare. Alcuni si fermarono a respirare consapevolmente, sentendo in quell’atto semplice il legame con il Cosmo. L’aria si fece più leggera, la danza del respiro riprese il suo ritmo.
Etere, leggera come il primo soffio, tornò a dissolversi nell’aria, lasciando dietro di sé solo un sussurro: ogni respiro è il respiro del Cosmo.
Da quel giorno, ogni volta che qualcuno si ferma per respirare profondamente, l’aria sembra cantare, come a ricordare che siamo tutti parte dello stesso respiro infinito. E il Cosmo, grato, sospira dolcemente.
La notte in cui il fuoco sciolse la neve
Ciao topolino, guarda un po’ dove siamo stasera.
Un’ora fa stavamo mangiando uno yogurth e dipingendo un cassettino, guardando fuori dalla finestra la neve che cadeva.
E ora siamo qui. Sai che sto facendo ora? Sono qui a piedi nudi, e sto guardando le piastrelle di un pavimento.
Le solite lastre di linoleum degli ospedali, queste sono verdine sai? un po’ strisciate qui e là.
Guardo i miei piedi, il verdino sporco, una pozzetta di sangue li’ a terra che, a quanto dicono, pare sia il mio, o il tuo, non ho ancora capito ma non importa molto.
Urlano un po’ tutti, ci sballottano. Infilano flebo e cateteri. Mi stanno letteralmente strappando vestiti, collane e orecchini. Qualcuno telefona “codice rosso, arriviamo”.
Sai topolino, si dice che esista una qualche forza nascosta e misteriosa. Lei arriva quando la tragedia sembra si stia per abbattere sulla nostra testa, ci abbraccia e per qualche attimo ci trascina via da lì.
In un luogo quieto dove ciò che ci sta accadendo è un problema altrui.
E mentre lo tsunami si gonfia e si prepara a travolgerci, noi pensiamo alla serie tv preferita, a quella ricetta di biscotti che ancora non abbiamo provato, alle tende etniche arancioni che vorremmo ma che non troviamo in nessun negozio.
Non so se è per questo…
Ma io ora, in mezzo a tutto questo fracasso, sto solo pensando con un sorriso che dovevi nascere sotto il segno dei Pesci, ma a quanto pare sarai un Acquario, e a noi Bilance gli Acquari piacciono un sacco.
Ora c’è questo medico grande e grosso che ci si pianta davanti.
Forse è irritato dal fatto che il suo smonto turno, evidentemente per colpa nostra, finirà ben più tardi del previsto.
Forse è basito dal fatto che in quella stanza, dove tutti corrono e strillano, io sembro una drogata che si guarda i piedi, tenendo una mano su quel pancione che è più piccolo di quello che dovrebbe essere. Forse ha solo paura, perché ora è tutto nelle sue mani, e se finisce male, sono grane grosse anche per lui. Mi prende le spalle, mi scuote leggermente: «Signora, non credo che il bambino ce la faccia. Signora ha capito? Ha capito che il bambino difficilmente glielo tiro fuori vivo?»
Alzo il viso dal pavimento verdastro e dai miei piedi, lo guardo negli occhi.
Che dice questo dottore? Ma che ne sa lui, topolino, di me e di te? Che ne sa che sei il mio ennesimo figlio, che i figli si amano tutti, ma ce ne sono alcuni che cascano nella vita, quando tutto sembra piatto e immutabile, per scrollarti e farti ripartire.
Che ne sa che sei piombato in un matrimonio ormai finito, in un grembo stanco che ormai pensava che di ‘ste cose non doveva più occuparsi. Dentro una donna che non sapeva più né chi era né dove andare.
Il dottore non lo sa, topolino, che da che sei qui dentro di me, mi hai fatto scoprire una forza che non pensavo di avere. E un amore che mi scalda come un fuoco quieto e scoppiettante, che sa di buono e di frasi piene di speranza e coraggio.
Questo dottore non può venirci a dire che tu forse muori topolino. Mica lo sa quanta forza ci siamo dati e quanti progetti abbiamo per noi.
E mentre ci addormentano con un ago, noi siamo sereni, vero?
Perché il dottore non sa niente di questo amore rosso e caldo, dell’abbraccio in cui ci teniamo da che sei apparso nella mia vita, come avvolti in una coperta di pelliccia a guardare le fiamme di un camino grande e allegro.
È passata, alla fine, questa incredibile notte di neve. E ora, nella mattina bianca e gelida che l’ha seguita, arrancando appesa alla flebo, busso alla porta della nursery.
Mi apre un’infermiera gentile, le sorrido: «Posso vedere il mio bambino per favore?»
Sei pieno di tubicini e piccolo come un coniglietto, e non mi stupisco affatto di vederti gia’ con gli occhi spalancati a cercare di capire da che parte iniziare a gustarti la vita.
Appoggio la mani sul vetro della tua incubatrice, c’e’ li’ attaccato un biglietto con su scritto il nome che ho scelto per te, quello che sarebbe stato il mio, se fossi stata un maschio.
«Ciao topolino, vedi che il dottore si sbagliava? Noi lo sapevamo vero?»
Giri un poco la testa verso la mia voce, spalanchi un po’ di più gli occhi.
Mi hai sentita e mi hai capita.
Io lo so e tu lo sai.
Benvenuto a te, amore mio.
La terra di Ines
Ines è vecchia. Ha ancora il 6 davanti… Ma lei sa di essere vecchia.
Non sa che peso ha nell’anima e nel corpo per farla muovere così lenta, per farla rintanare sempre di più nel suo salotto, l’eterno centrino da finire tra le dita gonfie. A volte ci pensa, alzando lo sguardo dall’uncinetto che dondola, sul perchè è così vecchia.
Forse è stato tutto il lavoro nei campi di quando ero ragazzina, le gravidanze, i sacrifici. I figli sotto le braccia nei rifugi, coi bombardamenti sulla testa, che sa mai quando sarebbe toccato a loro. Le pentole vuote, i ragazzini affamati, le dita spaccate dal gelo, che a lavar panni di ricchi lungo il Naviglio, qualche soldo in più entrava in casa.
Forse ecco… è stata un poco giovane quando, ormai in pensione, coi soldi risparmiati e i figli sistemati, lei e suo marito Primo hanno deciso di realizzare l’unico sogno che si erano permessi.. lì custodito da così tanti anni. Lasciare Milano e tornare alla loro Emilia, così impressa nelle carni dell’anima da farli sentire forestieri ovunque, e costruire la loro casa.
Aveva, l’orto, il frutteto, il pollaio e la conigliera… lo scantinato per le sementi e gli attrezzi. È stato il Primo a costruire tutto, mattone per mattone, ripiano per ripiano.
Il Primo, che in un giorno qualsiasi, lui che mai si era ammalato, ha perso la luce negli occhi, si è messo a letto e mai più si è alzato. Ecco, quel giorno che è rimasta in piedi di fianco a quella fossa al camposanto, Ines è tornata vecchia.
Ha messo nei bauli tutti i vestiti del Primo, ha preso due ragazzoni che si occupano di tutto, e lei fa centrini tutto il giorno, nel salotto buono degli ospiti, dove ormai non ci entra più nessuno.
Si alza con fatica solo per metter su una pastina, un uovo sodo, e poi rimette l’uncinetto tra le dita, tanto prima o poi il Primo la viene a prendere. Ma un giorno è accaduto che una delle sue figlie, in eta’ in cui di gravidanze non se ne dovrebbero far più, ha messo al mondo questa nuova bambina.
E questa cosa proprio l’ha messa in subbuglio, turbando quella lentezza immutabile che lei ha deciso essere l’unico spazio in cui sopravvivere. Vengono tutti i fine settimana, la figlia, il genero e questa piccina che, Dio la perdoni, proprio la Ines non sopporta. Le vuole bene, certo, si deve voler bene ai nipoti, per forza è così.
E lei ci prova, ci prova veramente, ma appena la vede dalla finestra, che inizia a saltare dall’orto al granaio, e poi nel frutteto, e mette quelle manine dappertutto, il respiro le si fa corto, piena di fastidio nel petto per tutta quest’aria bizzarra che questa bimba sparge in giro.
Arriva poi un giorno in cui gliela lascian lì una domenica mattina: «Mamma andiamo ad una sagra di paese lontana, la bimba si annoia, la lasciamo con te va bene»?
Vorrebbe urlare Ines… che no, non va bene e proprio non vuole… Ma come sempre nella vita, sorride e annuisce. E inizia questa domenica terribile. Ines la chiama dalla finestra: «Bimba non andar lì, bimba lascia stare le galline che le spaventi, bimba esci dal granaio, che se se si rovescia un sacco ti schiaccia».
Ferma alla finestra, con il respiro veloce che appanna il vetro, Ines pensa che se poi la bimba si fa male, la figlia e il genero avranno da ridire.. Sospira esausta, posa il centrino e inizia a scendere le scale che portano all’orto.
«Bimba, bimba dove sei?»
Esce da dietro un muro, sudata, con la magliettina sporca di terra e questi occhietti da furetto che scoppiettano.
«Nonna nonna… Ho scoperto dei tesori bellissimi, te li faccio vedere, vieni vieni vieni..»
La tira per un dito, e lei vorrebbe scrollar via quelle manine sporche, e dirle che lo sa bene cosa c’è nella sua terra, che il suo Primo ha costruito pezzo per pezzo. Ma sorride di sforzo, e si fa trascinare nel granaio.
«Nonna prova, se infili la mano nei sacchi, i chicchi le si mettono tutti attorno e la accarezzano.. E poi nonna, se metti dentro la faccia e respiri, senti che profumo di pane e biscotti».
Sospira Ines: “Va bene lo faccio, magari poi la bimba si mette tranquilla”.
Non si ricordava cosa fosse infilare una mano nei sacchi… Il miglio, il mais, il grano, la crusca… Quel profumo di forno e di pastone. Segue la bimba ad ogni sacco, finché questa le prende ancora il dito e lo tira: «Ora nonna vieni a conoscere le galline, sono diventata amica di tutte».
E lentamente Ines arranca al pollaio, il dito stretto non da’ più così fastidio.
Ed ecco la Nerina, la Parlante, la Fosca, la Lulù… Perchè Primo dava a ciascuna un nome, anche se poi finivano tutte nella pentola. E le vengono attorno chiocciando, e riesce ad abbassarsi quel tanto che basta per sfiorare le loro piume.
Che non ricordava fossero così morbide.
La bimba ride e le tira il dito, perché a quella piccola età, c’è troppo da scoprire per soffermarsi su qualcosa… «Nonna l’orto, l’orto, vieni a vedere cosa ho trovato».
Cammina piano Ines, con le gambe gonfie… ed ecco i pomodori, le carote, le insalate. Gli alberi di susine, di pesche, di ciliegie.
La bimba davanti che saltella, e che poi le si pianta davanti con aria seria: «Ora nonna, la cosa più meravigliosa… Non si vede ma si sente… Inginocchiati di fianco a me». Mai avrebbe pensato la Ines di riuscirci, anche solo di provarci. Ma scricchiolando e gemendo, si ritrova accucciata di fianco alla bimba.
«Nonna, fai come me, infila le mani nella terra… È calda nonna, vuol dire che è viva». Infila le sue dita nella terra smossa e sì: è calda, è viva. La terra, la sua terra.
Che in una qualsiasi domenica d’estate, le ha ricordato di riprendere a vivere.
Scricchiolando e gemendo, Ines si tira in piedi.
«Bimba, andiamo, ti faccio la cioccolata». Non le tira più il dito, sorride e infila la manina nella sua.
E, pian piano, rientrano in casa.
Il giardino dei ricordi
Stamattina Giuditta è più mesta del solito. Non è andata, come ogni giovedì, al bar per la colazione con le sue amiche. È triste e malinconica, guarda il giardino della sua casa avvolto da una nebbiolina umida e i ricordi arrivano cattivissimi e implacabili a marcare la differenza tra ieri e oggi.
Si rivede giovane sposa, attraversare la porta d’ingresso di casa tra le braccia del suo Guglielmo, come tradizione vuole, e suggellare il passaggio con un bacio appassionato.
Quella casa così tanto desiderata ma fonte di molti pensieri, preoccupazioni e con un mutuo trentennale da pagare.
Lei e il suo Elmo, così lo chiamava, si sentivano invincibili insieme e pronti ad affrontare qualsiasi imprevisto.
Rivede il loro giardino, oggi verde, colmo di ortensie rose e gelsomini, incolto e secco e il loro orto, allora pieno di sterpaglie, dissodati, seminati e coltivati con tanto amore per la gioia dei loro figli.
Ricorda ancora le voci dei piccoletti: «Papà, possiamo assaggiare i pisellini?»
«Posso strappare le carote?»
«Ma quando possiamo mangiare le more?»
Le stagioni si susseguono e l’orto e il giardino ne scandiscono il tempo.
È Pasqua! Lei ha preparato gli ovetti di cioccolato avvolti nella carta crespa e li ha nascosti tra le siepi delle azalee, sull’albicocco, in mezzo alle ortensie e tra i rami del gelsomino.
«Si parte per la caccia al tesoro. Siete pronti? Via!»
Otto bambini tra figli e nipoti corrono per il giardino alla ricerca degli ovetti.
«Acqua… acqua… acqua… fuochino… fuochino… fuoco!»
Ecco il primo è stato trovato e via via si continua fino a trovarli tutti.
Lei ha voluto ripristinare la caccia al tesoro degli ovetti perché era una tradizione della sua famiglia di origine.
Il nonno materno nascondeva nell’orto le uova sode e poi invitava i piccoli di casa a trovarle. Un nonno avanti, moolto più avanti della Ferrero che decenni dopo ha portato la caccia agli ovetti in televisione.
«Mamma, ci hanno copiato!» dicono i figli ormai divenuti adulti.
Adesso il giardino nasconderà gli ovetti per i nipotini.
Li vede correre coi piedini nudi sull’erba tagliata dal suo Guglielmo e pensa che é stata molto felice con lui anche se il giorno del matrimonio lei è arrivata prima di lui in chiesa.
Ebbene sì! Si è fatto aspettare: già da allora avrebbe dovuto capire come sarebbero andate le cose . Anche stavolta è arrivata prima, ma oggi non è impaziente, lo aspetterà con trepidazione e quando arriverà si abbracceranno nuovamente, vestiti di luce.
C’era una Volta, nello stesso Tempo
Tutte le ragazze di qualsiasi tempo sognano di sposare il Principe. Avevo questo sogno anch’io, ne parlavo per interminabili notti con il mio diario, l’amico più intimo che abbia mai avuto. Ahimé, chissà che fine avrà fatto. Sarà rimasto nella vecchia casa, dove nessuno l’ha mai più cercato, nemmeno quei due fratelli che avevano battuto ogni contrada della regione a caccia di storie.
Di uomini ce ne sono tanti, ma di Principe ce n’è uno solo. Sposarsi, è tutta qui la chiave del successo. Conquista un uomo onesto e sarai rispettabile, sposa un uomo incostante e sarai una disgraziata, vivendo nel riflesso dei suoi vizi. Puoi sperare in un colpo di fortuna oppure prendere parte alla corsa per colpirli, interessarli, convincerli ad investire.
Da sola non arrivi da nessuna parte, e se ci arrivi ti ritrovi a pezzi, irriconoscibile, sfigurata dai compromessi e con l’anima martoriata dai ricatti.
Nostra madre restò vedova quando ancora eravamo fanciulle. Fu in quei duri mesi che ci forzò a studiare canto e pianoforte, per quanto non fossimo particolarmente portate per la musica. Mentre affinavamo i nostri talenti, il volto di nostra madre si riempì di rughe d’apprensione e, consumandosi lentamente d’angoscia per il futuro di tutte noi, diventò inflessibile, severa, e spietata.
Grazie alla Provvidenza, di lì a poco si risposò con un uomo per bene, agiato e frequentemente lontano per affari. Era chiaro, a me e a mia sorella, che nostra madre aveva giocato bene le sue carte, anche quelle che non aveva. Ci trasferimmo a vivere nella grande casa del nostro patrigno, un palazzo vecchio ma decoroso, con una bella tenuta.
Un semplice sguardo di nostra madre spazzò via la nostra timidezza e varcammo quella soglia col mento alto, forse sentendoci già un poco regine ma, disgraziatamente, non eravamo sole.
Il nostro patrigno aveva una figlia, una ninfa dei boschi dagli occhi sognanti, terribilmente innocenti. Il suo sorriso, un incantesimo potente, ogni suo boccolo dorato era un’opportunità in più rispetto a quelle che la sorte aveva riservato a me. Da lì a pochi anni il salotto sarebbe stato frequentato da file di pretendenti, tutti interessati alla bella e ricca figlia del mercante. Ad asta terminata saremmo rimaste noi fondi di magazzino.
Allora ci detergemmo la coscienza con la perfidia di nostra madre e demmo inizio a quel gioco strano, che ci divertiva e ci teneva occupate durante le lunghe giornate in casa. Le imbrattavamo il viso, i capelli e i vestiti con la cenere, la obbligavamo poi ad umiliarsi, facendole mangiare la terra impastata con le sue stesse lacrime. Ci consolavamo così, giocando alle padrone.
Una mattina sentimmo bussare alla porta. Ricevendo poche visite ci vestimmo in fretta e ci precipitammo ad accogliere le notizie in arrivo. Un messaggero reale lasciò nelle mani di mia madre un invito rivolto alla nostra famiglia, a prendere parte al gran ballo di Palazzo. Con l’occasione il Principe avrebbe scelto la sua sposa.
Non vedevo il Principe da tempo, da quando eravamo stati ufficialmente presentati al mio primo ballo, chissà se si ricordava di me. Lui era giovane e prestante, dai modi inappuntabili. Non so se fossero gli occhi celesti o la corona, portata con uno stile quasi personale, ma per quei pochi attimi passati insieme mi era piaciuto.
Giorni interi di preparativi, mia madre, mia sorella e io ci presentammo al gran ballo nella nostra forma migliore. Gioielli lucidati fino a far sanguinare le dita, stoffe di prima scelta, capelli intrecciati con la minuzia di una ricamatrice. Mi sentivo come se tutti gli occhi del regno mi guardassero, conducendomi lungo il tappeto rosso più importante della mia vita.
Sporgevo lo sguardo oltre la folla e lo vedevo volteggiare a tempo di musica, non riuscendo mai a capire con chi avesse dato inizio alle danze. La gente si accalcava muta attorno al centro della sala, con gli occhi incantati puntati su quella coppia come se stesse assistendo a un prodigio. Quando finalmente riuscii a distinguere bene il Principe e la sua incantevole dama rimasi paralizzata, un brivido gelido si propagò per tutto il mio corpo, dai piedi alle braccia, fino alle lacrime.
Non riuscivo a spiegarmi come fosse arrivata fino a quella sala, con un vestito intessuto di fili d’argento e lievi scarpette di cristallo ai piedi, ma avrei riconosciuto quei capelli biondi in meno di un secondo fra tutte le teste presenti quella sera. Finii lo champagne che avevo nel bicchiere, ne chiesi un altro, assaporai anche quell’ultimo sorso di magia e con mia madre e mia sorella ritornai a casa.
La mattina seguente il messaggero reale bussò nuovamente alla nostra porta, con un’insistenza maggiore rispetto alla prima volta. Entrò e si accomodò, reggeva un cuscino di raso tinto di porpora, su cui mostrava una piccola e perfetta scarpetta di cristallo. Qualsiasi cosa fosse andata storta dopo che avevamo lasciato la sala, il Principe voleva ritrovare l’incantevole dama con cui aveva danzato tutta la sera, avrebbe sposato senza indugiare la fanciulla il cui piede avrebbe calzato quel minuscolo tesoro.
La nostra bionda sorella doveva aver lasciato il Palazzo con una certa fretta, peggio per lei. Andai in cucina e con un coltello affilato mi tagliai di netto le dita del piede. Indossai con facilità la scarpetta, ma fui tradita da un filo di sangue che colava silenzioso lungo il tacco.
Mi sedetti in un angolo piangendo dal dolore, in quel medesimo momento lei si faceva avanti, indossava la scarpetta con leggerezza e in uno schiocco di dita raggiungeva il Principe che la aspettava trepidante all’altare.
All’uscita della chiesa due colombe bianche si posarono sulla sua spalla. Come però il suo sguardo si incontrò con il mio, sussurrò una parola e i due uccelli si alzarono in volo. Raggiunsero me e mia sorella e ci cavarono gli occhi.
Ci ritrovammo così, al centro di una folla festante, noi punite con la cecità, e lei con la sua innocenza avvelenata dalla vendetta, costrette a guardare in faccia il futuro senza nessuna gloria, forse avrebbe potuto finire diversamente. Se fossimo state unite.
Fiume
Sono a letto, fuori piove, e piove forte.
Stasera è stata una bella serata, mamma ha fatto la torta di mele, la mia preferita. Mio fratello però non lo sopporto più, con quel suo modo di prendermi sempre in giro. Ora voglio dormire, chiudere gli occhi e sognare Matteo. Quanto è bello!
Domani voglio indossare il vestitino a fiori che mi ha fatto la nonna, magari mi noterà.
Fuori continua a piovere, non so se riuscirò a prendere sonno. Piove così forte che sembra di avere la pioggia in casa.
Ma cos’è questo rumore, sembra che qualcuno abbia spalancato la porta di casa.
Scendo dal letto. Oh mio Dio! Ho l’acqua fino alle ginocchia.
Sento papà che urla: “Venite qui che moriamo tutti insieme!” Cosa sta succedendo?! Urlo: “Papà?! mamma?! Antonio?!”
Riesco faticosamente ad arrivare fino in cucina mentre l’acqua continua a salire.
No! Non mi lascerò trascinare via.
Mi aggrappo a qualcosa, non so cosa sia ma presto anche questa comincia a fluttuare nell’acqua che ormai mi arriva quasi alla gola, è sporca e ha un cattivo odore. Ho paura!
Non trovo più mamma, neanche papà. Vorrei urlare ma l’acqua mi inghiottisce. Forse è solo un brutto sogno o forse ora smetterò di sognare per sempre…
Per sempre.
Uomini pipistrello – Parte tre
Tempo
Miro non si era aspettato che a guardia del deposito ci fossero umani. Aveva raccolto molti dati, era certo di non trovarne. Eppure…
Quel giorno era prevista una grossa consegna, così oltre ai Bite e ai Cop, c’erano poliziotti armati. La differenza tra Cop e poliziotti saltava subito all’occhio. I primi non avevano cannule né bombole d’ossigeno: erano androidi. I secondi avevano la testa protetta da grandi caschi tondi che ricordavano quelli degli astronauti.
Per fortuna, Miro li aveva visti da lontano. Non aveva avuto scelta. Era stato costretto a ordinare al Notabile di fermarsi e invertire la rotta verso l’ingresso delle fognature.
Era rientrato tanto illeso quanto sconfitto. Ma non era quello il problema.
Il Notabile lo aveva lasciato scendere con un ghigno in faccia: «Vaff, Bat», aveva sibilato.
«Anche a te, carogna», aveva risposto Miro scandendo bene le parole, come se il fatto di non badare all’ossigeno sprecato fosse un’ulteriore offesa nei confronti dell’uomo grasso e roseo.
Quando Miro raggiunse il luogo dove viveva con sua madre Gala e la moglie Leda, non vide né l’una, né l’altra.
Era pieno giorno, ma le tre loro amache pendevano dal soffitto come sacchi vuoti.
Si girò verso il loro rifugio, il Rif. Un tenue bagliore proiettava sulle pareti di plastica due sagome accucciate. Si precipitò con il cuore in gola verso di loro.
Quando scostò la tenda d’ingresso, quattro occhi lo guardarono spaventati. Miro si bloccò per un istante, scrollò la testa e alzò le mani vuote. Gala e Leda compresero.
La madre di Miro gli fece cenno di avvicinarsi. In quel momento, Leda chiuse gli occhi e sul suo viso si disegnò una smorfia di dolore. Miro girò intorno alle due donne e si accucciò dietro Leda. Le cinse le braccia mettendo le sue mani su quelle della moglie. Si sedette per sostenerne il corpo.
Gala era intenta a misurare il tempo delle contrazioni. Tempo tra una e l’altra. Tempo tra la nascita di Hope e i suoi primi respiri. Gala aveva preparato una piccola bombola. L’aveva riempita giorno dopo giorno, rinunciando a qualche minuto di respiro.
Leda doveva soffrire in silenzio. Meno gente si accorgeva della nascita, meglio era.
Qualcuno avrebbe potuto denunciarli, segnalare la presenza del neonato ai droni di controllo che ogni giorno attraversavano le fogne per la conta delle teste.
Nei mesi precedenti, Gala e Leda avevano preparato stoffe pulite e fatto sobbollire il fango per raccogliere il vapore, goccia dopo goccia, tanto da riempire un piccolo mastello.
Leda si era rilassata tra le braccia di Miro. Piangevano entrambi, per l’emozione e per il loro bambino: non era ora di metterlo al mondo. Non ancora. Ma la natura se n’era fregata. La natura era diventata ostile all’umanità tanto quanto l’umanità lo era stata con lei nel corso dei millenni.
Di nuovo, una contrazione fece irrigidire Leda. A Miro parve di sentirne le scosse in petto. Gala fece cenno che erano passati quattro minuti dalla precedente. Fece un sospiro e si preparò a gestire la parte finale del travaglio della nuora.
Prese le mani di Miro e le mise sotto le ascelle di Leda perché la sostenesse, poi s’inginocchiò tra le gambe aperte e prese a massaggiare la zona pelvica, controllando la dilatazione.
Le contrazioni si fecero sempre più ravvicinate. Leda aveva afferrato una mano di Miro e la mordeva ogni qualvolta gliene arrivava una. Miro era grato per quel dolore che gli puliva la testa, lo rendeva più lucido e concentrato.
Hope nacque dopo un paio d’ore. Era una bambina bellissima.
Gala la prese, ne pulì il corpo e liberò le vie respiratorie, poi le attaccò la piccola bombola.
La bambina era piccola ma piangeva a squarciagola, sana e forte come non si aspettavano, data la nascita prematura.
Intorno al Rif si formò un capannello di Bats. Leda aveva preso in braccio la sua bambina e guardava le ombre fuori in segno di sfida. Miro le accarezzava entrambe, protettivo.
Gala si sedette vicino a Leda, riprese in braccio la piccola Hope e iniziò ad annusarle la testolina, a baciare le manine. Piangeva di gioia e d’amore. Era nonna, il suo sogno.
Riconsegnò Hope ai genitori e uscì dal Rif. Leda attaccò la bimba al seno gonfio del primo latte. Colostro.
Gala si fermò qualche istante per parlottare brevemente con gli altri Bats che si dileguarono.
Poco dopo, Leda, Miro e la piccola Hope si addormentarono profondamente.
Anche Gala, nella sua amaca, si addormentò profondamente, ma il suo sonno era indotto.
Fu Miro a svegliarsi per primo, angosciato dal fatto che presto sarebbe terminato l’ossigeno della piccola.
Uscì dal Rif un po’ intontito. A terra, vide una bombola. Era quella di Gala.
Istintivamente alzò gli occhi verso l’amaca di sua madre e vide un braccio sporgere, una mano pendere verso il tetto del Rif, chiusa quasi a pugno. Solo due dita erano rimaste aperte, come a benedire quella piccola capanna sottostante. Tutto, in quell’amaca, sembrava aver abbandonato la vita ed essere in un altro dove, in un altro tempo. Miro capì.
Gala si era sacrificata per la piccola Hope, la sua nipotina.
L’aveva presa in braccio e si era riempita gli occhi di quel visino perfetto. L’aveva stretta, ne aveva respirati l’odore e il pianto.
Poi, con un senso di compiutezza, aveva fatto senza esitare il suo più grande gesto d’amore.
Uomini pipistrello – Parte due
Terra
Miro mostrava a Leda e Gala, sua madre, il disegno che aveva fatto con un carboncino. Sembrava quasi una mappa del tesoro.
Una croce indicava un punto, altri simboli segnalavano i terribili Bite, droni di terra pronti a eliminare qualsiasi presenza non riconosciuta, alcuni numeri mostravano i Cop, androidi a scorta dei vagoni di bombole e cibo che ogni mattina, all’alba, erano depositati all’ingresso delle fogne, luogo dove i Bat vivevano. Meglio, sopravvivevano.
Due rette parallele contrassegnavano il percorso che faceva la motrice con al seguito i vagoni. Per la maggior parte, il percorso era sotterraneo. Nessun umano si occupava della distribuzione. Il primo lo s’incontrava nella stazione di ricarica: esattamente sulla croce, luogo da dove il treno partiva e tornava.
Lì si prelevava elettricità. I Notabili potevano farlo, avevano autoblindo generatori. Loro, i Bats, no.
Un notabile alla volta, dopo il riconoscimento, conduceva il proprio mezzo al tappeto di ricarica: qualche istante e poteva ripartire con il pieno. Tutto nella massima sicurezza, protetto dai feroci Bite e dagli altrettanto spietati Cop. Nessuno si sarebbe mai sognato di fare un colpo in quel luogo. Miro sì.
L’intento era di arrivare alla stazione nascosto in un vagone. Sotto la giacca avrebbe custodito il Kill. Ne aveva sperimentato più e più volte l’efficacia: emetteva ultrasuoni che inducevano qualche secondo di confusione ai Cop così come ai Bite. Poco tempo, ma poteva bastare per saltare dentro un autoblindo, puntare un bastone al naso di un Notabile e ripartire verso il nuovo deposito di ossigeno. Lì doveva rubare cento bombole per Hope, e tornare nelle fogne. Cento bombole per il suo bambino che sarebbe nato tra poche settimane. Forse prima: Leda aveva avuto contrazioni e perso il tappo.
Per fortuna, gl autoblindo erano protetti da uno scudo di sorveglianza. Una volta dentro, si era al sicuro.
Gala e Leda osservavano la mappa. Tutto sembrava semplice. Tutto era ragionevolmente impossibile. Tutto sarebbe avvenuto il giorno dopo.
La luce dell’alba illuminava a stento l’ingresso della fogna. Miro poteva vederne i contorni perché un buco mai chiuso lasciava penetrare raggi di luce giallastra. Non era per dimenticanza che quella breccia nel terreno era stata lasciata. No. Semplicemente serviva a ferire gli occhi dei Bats durante la consegna. Loro potevano muoversi solo di notte. Il giorno non doveva appartenergli.
Miro aveva gli occhi protetti dalle bende velate che sua madre aveva preparato. Stava nascosto in un anfratto della roccia, schiacciato contro la parete. La terra sudava gocce nere che gli penetravano nel collo della giacca. Le sentiva scivolare giù per la collottola. Alcune avevano raggiunto le sue mani. Era fango. Fango e terra, terra e fango. Dal fango, i Bats recuperavano l’acqua. Dalla terra nulla. Era completamente sterile. Miro, a testa bassa, ne guardava l’aspetto. Era come sabbia nera coagulata dal grasso acido caduto dal cielo.
Tempo addietro, una pioggia mefitica aveva causato l’apocalisse e l’atmosfera ne era ancora pregna. Perciò l’ossigeno scarseggiava. Attribuivano la causa al fato, in realtà tutti sapevano che era il frutto di diverse esplosioni: gli stati erano corsi al riarmo e qualche pazzo aveva innescato il primo ordigno. In risposta, era partita una seconda bomba, una terza, altre, tante, troppe. Nuvole nere continuavano a levarsi e correre sospinte da venti atomici. La terra aveva sporcato il cielo, il cielo aveva poi restituito alla terra deiezioni vischiose.
Miro sentì il sibilo della cabina muovere l’aria nel condotto.
All’arrivo, i vagoni si ribaltarono velocemente per scaricare e ripartire. Miro accese il suo Kill. Con soddisfazione, vide quei maledetti Bite girare su se stessi come scarafaggi capovolti. Saltò dentro un vagone.
Nel frattempo, si erano ammassati molti Bats, ma nessuno fece caso, presi com’erano a distribuire bombole e cibo. C’era anche Gala tra loro. Seguì il figlio con lo sguardo, la bocca le tremava in una preghiera.
Miro avvertì una piccola spinta: il treno era ripartito. Per fortuna, le pareti dei convogli erano spesse e alte. Supino, espirava in un panno umido per evitare che il calore del fiato fosse rilevato dagli infrarossi. Aveva un buon lasso di tempo prima che le emanazioni del suo corpo saturassero il vagone.
Passarono un paio di minuti, poi il treno iniziò a frenare e si fermò. Una scarica di adrenalina pervase Miro. Si sistemò la benda sugli occhi prima di azionare il Kill. Ancora una volta iniziò a fremere. Senza guardarsi intorno, Miro era saltato fuori ed era corso verso il tappeto di ricarica. Una cinquantina di metri, non di più. Cercò di rimettere il suo Kill nella giacca, ma le mani scivolose lo fecero cadere. Miro non poteva fermarsi per raccoglierlo.
Piombò dentro l’autoblindo di un Notabile che, grasso e roseo, sorrideva al nulla mentre ricaricava il suo mezzo.
La faccia dell’uomo si trasformò in una maschera di terrore quando vide il bastone appuntito vicino alla cannula. Come d’istinto alzò le mani, ma Miro fu più veloce, gliene prese una e gli girò il braccio dietro la schiena. Poi intimò: «Input coordinate». Aveva indicato il simbolo da mostrare al lettore ottico. Il Notabile aveva obbedito e autorizzato la scansione. Il mezzo partì veloce.
Miro aveva lanciato un’occhiata in direzione del suo Kill. Stava ancora fremendo, così come parevano tremare i Bite e i Cop tutt’attorno. Si chiese come avrebbe fatto senza di lui al deposito. Sperava che il Notabile, sotto minaccia, avrebbe collaborato.
«Se aiuti, no mal», gli aveva sibilato nell’orecchio. L’uomo aveva annuito terrorizzato. I suoi vestiti candidi avevano vistose macchie di terra.
Non era quello il problema.
Segue parte 3 in ‘Tempo’