Villa Biscossi, PV – 1848

Rosa venne chiamata da suo padre, che le comunicò che lui e la moglie avevano scelto il suo futuro sposo. Rosa era in età da marito già da due anni, aiutava la madre e i fratelli nelle faccende domestiche, badava alle galline e l’anno prima aveva lavorato per la prima volta insieme alle altre mondine al servizio della famiglia Pallestrini.
La sorella più grande, Teresa, figlia della prima moglie di suo padre, Veronica, prestava servizio in casa Pallestrini come domestica già da dieci anni e si trovava bene. Il padrone, che di professione era cerusico, era esigente e di poche parole, ma giusto con lei, raccontava.

Tutte le mogli dei suoi fratelli e i mariti delle sue sorelle erano stati scelti dai genitori tra i figli delle famiglie contadine del piccolo borgo agricolo lomellino dove la famiglia si era stabilita due generazioni prima, ai tempi del nonno Carlo, capostipite del clan al serivizio dei Pallestrini di Mede.

Vivevano in cinquecento a Villa Biscossi, la famiglia Pallestrini gestiva un’importante azienda agricola che comprendeva diverse cascine. <span class=”relative -mx-px my-[-0.2rem] rounded px-px py-[0.2rem] transition-colors duration-100 ease-in-out”>La proprietà agricola dei Pallestrini si estendeva su un ampio territorio, comprendente terreni irrigui e coltivazioni di riso, cereali e foraggi, oltre all’allevamento di bovini.</span> <span class=”relative -mx-px my-[-0.2rem] rounded px-px py-[0.2rem] transition-colors duration-100 ease-in-out”>Questa azienda agricola era nota per l’adozione di pratiche agricole moderne e per l’attenzione alle condizioni di vita e di istruzione dei lavoratori.</span> <span class=”relative -mx-px my-[-0.2rem] rounded px-px py-[0.2rem] transition-colors duration-100 ease-in-out”>I Pallestrini partecipavano a importanti esposizioni internazionali, come l’Esposizione Universale di Parigi del 1856, per presentare i prodotti agricoli di Villa Biscossi.</span>

La maggior parte dei lavoratori erano mezzadri per i Pallestrini, ma i parenti di Rosa erano bifolchi, si occupavano dei buoi.

Rosa era nata in casa come tutti, era la decima dei figli di suo padre, di cui ne sopravvivevano sette. Sua madre si era risposata dopo essere rimasta vedova e aveva dato alla luce Siro, Maria e Maria Teresa. Francesco era nato da una relazione extra-coniugale del padre Ambrogio.

Rosa era una bambina equilibrata e vivace, dotata di grande sensibilità. Dalla madre e dalla zia materna aveva ereditato la propensione per i sogni ad occhi aperti, ma aveva anche imparato a ricamare e si divertiva a comporre intricati disegni per la sua futura dote.

Sognava di sposare, come una sorella più grande, un uomo agiato, o per lo meno un artigiano o un commerciante, che la trattasse gentilmente e guadagnasse abbastanza da farle mangiare qualche volta la carne. A casa loro la carne si vedeva raramente, al massimo qualche rana o qualche pesce catturato dai fratelli nei fossi.

Alla sera si sedevano tutti attorno al fuoco sull’aia e, mentre arrostivano pannocchie di mais e pescato, Rosa intonava canzoni per l’intera famiglia. Aveva un animo gentile e non mancava mai di portare l’acqua per dissetare i genitori e i fratelli nei campi, era il suo compito.

Dunque il padre le comunicò il nome del suo futuro sposo. Rosa lo conosceva fin da bambina, avevano giocato insieme a rotolarsi nel fieno, si erano arrampicati insieme sugli alberi e insieme si erano lanciati nei fossi nelle assolate giornate d’agosto per acchiappare rane e pesci.

Il futuro sposo voleva diventare commerciante e Rosa sapeva che aveva in progetto di lasciare Villa Biscossi appena possibile e trovare il modo di imparare a leggere e scrivere. Lì da loro erano tutti illetterati, anche i genitori di Rosa firmavano i contratti con una croce. Era appena passato il giorno di San Giorgio, patrono dei lattai, e Rosa aveva visto come suo padre aveva siglato la vendita del latte di dieci vacche al lattaio del paese: una stretta di mano e una pacca sulla spalla, poi una croce su un grosso foglio.

Cominciò a sognare anche lei: come sarebbe stata la sua vita se avesse imparato, non dico a scrivere, ma almeno a leggere? Avrebbe potuto leggere delle storie ai figli che avrebbero avuto, avrebbe potuto cercare delle poesie e filastrocche, ché le piaceva tanto quando le raccontava il cantastorie girovago che una volta all’anno arrivava in cascina.

Recupero all’oralità (29/11/2019)

Prima del consueto scambio di baci e abbracci per augurarci la buonanotte, anche stasera racconto ai miei due amati nipotini “storie” della mia infanzia. Soddisfo la loro curiosità rendendo i ricordi a misura di bambino/bambina. Sotto il piumino del lettone, ancor prima che inizi, si preoccupano di strapparmi la promessa che domani faremo la stessa cosa. In cambio mi donano ampi sorrisi d’intesa, applausi sinceri e molti grazieee. Devo a questa forma di trasmissione culturale, a me cara, il sentirmi aperta alla sincerità. Avvolta da un’intima sensazione di pura gioia, godo dell’affetto che regala essere nonna.

“”” Alla fine di ogni anno scolastico delle scuole elementari, i miei genitori decidevano di portarmi insieme alle mie due sorelle maggiori in un piccolo paese collinare, dai parenti materni. Qui avremmo trascorso l’intero periodo delle vacanze estive.

Portare”, però, non è la parola esatta. A quei tempi, infatti, l’unico mezzo di cui disponevamo era una bicicletta da donna, un po’ arrugginita, forse di colore marrone. In quegli anni, dopo la guerra, circolavano davvero pochissime automobili. Quindi, occorreva prendere i mezzi di trasporto. Per percorrere una distanza di duecentottanta chilometri impiegavamo quasi l’intera giornata. Oggi in macchina basterebbero tre orette.

Partivamo sempre con mamma. Vivevamo in periferia e, per salire sul primo tram del mattino, uscivamo di casa all’alba. Il tram era vecchio e ci dava tremendi scossoni soprattutto quando il conducente frenava. Dopo cinquanta minuti traballanti finalmente si arrivava al capolinea, alle porte di Milano. Qui prendevamo un mezzo chiamato filobus diretto alla Stazione Ferroviaria. Il “nostro” treno era antiquato, tutto di ferro e legno. Oltre a puzzare un po’, era scomodo, rumoroso, lentissimo e si fermava in tutte le stazioni. Sferragliando sui binari produceva un acuto stridore che ci faceva fischiare le orecchie, ma ci portava solo a metà del nostro viaggio.

Per proseguire dovevamo scendere ed attendere l’arrivo di un secondo treno chiamato “Littorina”. Questo nome derivava dalla città di Littoria che oggi è chiamata Latina e si trova nella regione del Lazio. Durante quella sosta, mamma apriva il cestino del pranzo, toglieva i nostri panini e ci sollecitava ad andare a bere dalle fontanelle pubbliche. Non so se le conoscete. Erano a spruzzo e fornivano acqua pulita lungo tutti i marciapiedi delle stazioni. Ricordo benissimo che, dovendo chinare la testa per bere dallo zampillo che saliva dal basso verso l’alto, tagliente come una lama l’acqua mi entrava nelle narici. Dal secondo treno scendevamo nel pomeriggio. Prima di intravedere il casolare dei nonni ci attendeva una camminata di diversi chilometri.

Fuori dalla stazione, paziente e puntuale, ecco il fratello di mamma che, al termine dei festosi saluti, posizionava sul telaio diagonale della bicicletta della zia, la nostra unica valigia. Per mantenerla in equilibrio camminava adagio chiacchierando accanto a noi. Era compito di mamma scrivergli una lettera un mese prima, per confermargli l’orario del nostro arrivo. Con un’altra figlia piccola da accudire a casa, lei sarebbe ripartita quanto prima, o addirittura il giorno dopo.

Noi sorelle, felicissime di essere finalmente in vacanza, non accusavamo alcuna stanchezza. Ogni istante di quel viaggio era pura magia, un’avvincente avventura da gustare. Dai nonni ci saremmo riempite gli occhi e il cuore di nuovi colori e odori e, grazie a Dio, lo stomaco di nuovi sapori. Io, curiosissima non riuscivo quasi mai a stare ferma, come fossi caricata a molla, e fremevo, e correvo, saltellando dalla gioia.

Le vacanze non erano “a gratis” come direste voi. Dovevamo guadagnarcele aiutando gli adulti. Tutti i giorni – compresa la domenica – ci venivano assegnati alcuni lavoretti: faccende domestiche, pulizia del cortile o del pollaio, accudire le chiocce e le loro covate, innaffiare l’orto dello zio e, perfino, armarci di forche e rastrelli per collaborare alla raccolta del fieno. Naturalmente, essendo tutte noi otto cuginette piuttosto piccole d’età, e anche di statura, pur dimostrandoci instancabili, non sempre eravamo in grado di fare le cose per bene. Però imparavamo in fretta, andavamo d’accordo, condividevamo tutto e ci divertivano tanto, soprattutto la sera.

Adoravo, adoro tutt’ora, l’odore dell’erba appena tagliata che profumava di terra, di fiori, – principalmente ciclamini – e insetti. Spesso mi tuffavo sopra un cumulo di fieno, mi rotolavo, fingevo di nuotare e non smettevo di annusarlo. Era inebriante e irresistibile, ma voi non avete idea della difficoltà per togliere i fili d’erba dai capelli prima di ripresentarmi a casa!

Spesso alcuni contadini del paese raggiungevano gli adulti della famiglia sui prati, portando i loro attrezzi a spalla. Ci aiutavano spontaneamente nel lavoro dei campi. Sotto un sole estivo sempre infuocato, accompagnavano il sudore della fronte con canti, racconti e mille risate contagiose. Ad allietare quelle giornate di fatica avevamo il cibo della “banca alimentare del nonno”: fette di polenta dorate e croccanti, salumi e formaggi, pomodori e tutta la frutta che volevamo. I grandi svuotavano velocemente i fiaschi di vino per bere “un bicchiere di quello buono”. Noi correvamo a dissetarci direttamente ad una fonte di acqua limpida e piuttosto gelida, che scaturiva abbastanza vicino.

Ricordo che una volta durante la raccolta dell’uva, la “vendemmia”, a furia di mangiare un piccolo graspo qui e uno là, una delle mie sorelle si ubriacò. Barcollava pericolosamente e non smetteva di ridere a crepapelle tenendosi l’addome con le braccia incrociate. Le risate ci contagiarono mentre lei supplicava: “Qualcuno mi aiuti mi scoppia la pancia!!!”

Il meritato premio per aver raccolto i grappoli dell’uva a bacca nera, consisteva poi nell’affidarci il compito di provvedere alla loro “pigiatura”: So che sapete, avendolo sperimentato a scuola, che veniva fatta con i piedi. Dentro ad un enorme mastello di ferro, disobbedendo ai consigli dei grandi, senza calzare gli stivali, schiacciavamo migliaia di acini da cui far uscire il succo e la polpa. A me piaceva inzupparmi fino a sembrare uno spaventoso zombie. Infatti, come tutte, ero di colore blu, rosso e viola. Riuscite ad immaginare il divertimento? Tra spinte, risate, parolacce, scivoloni, urla di protesta ci gettavamo addosso a piene mani quel miscuglio dall’odore sgradevole. Anch’io, incapace di reggermi in equilibrio, scivolavo andando a sbattere da ogni parte. Ignoravamo volutamente il dolore del corpo. Il giorno successivo le vesciche alla pianta dei piedi ci costringevano a camminare lentamente, rinunciando a correre o saltare.

In quel delizioso paesino, che contava meno di cento abitanti, in compagnia di parenti generosi, persone sane di buon carattere, e fruendo di cibo ottimo e abbondante, so di aver trascorso le più scanzonate, le più felici e le più istruttive vacanze della mia giovane vita.”””

Si è fatto tardi. Osservo i volti angelici dei miei silenziosi nipotini. Si stanno assopendo. Sorrido e rifletto su quanto ho raccontato. Repentinamente davanti agli occhi mi balena l’immagine di nonna Lisetta, la mamma di mia madre. Per colpa del suo adorato gatto Toni, poco si era fatta benvolere da me. Oggi che sono nonna e che, almeno per ora, i ricordi non sbiadiscono in un grigio tramonto, amerei poterle stare accanto su quella “sua” panchina. Felino permettendo, con tenerezza la vorrei stringere al cuore in un lungo silenzioso affettuosissimo abbraccio.

N.B.13 aprile 2025 A distanza di sei anni oggi rileggo questo racconto. I miei nipoti, studenti liceali, ormai sono entrambi assai più alti di me. E la ragnatela delle mie rughe nel frattempo si è infittita.

SONO RIUSCITA

Alla fine, me ne sono andata come volevo. Nel posto in cui sono ora, il tempo non scorre e l’aria profuma di glicine, come sul patio della nostra casa, dove usavamo mangiare tutti insieme nelle belle giornate di sole. Qui tuttavia i giorni non hanno peso.

Da qui posso vedere tutto, ma non posso toccare nulla, se non i cuori. Ho tutto quello che posso desiderare, ma mi mancano moltissimo le mie figlie.

Certo, ho provveduto ad aiutare ciascuna di loro: alla più grande ho procurato il lavoro fisso che tanto agognava. Non è cattiva, poverina, ma non ha troppa voglia di impegnarsi. Si sacrifica fino ad annullarsi, per la famiglia: per la nonna, per la sorella, per me… Ma la mattina, se deve alzarsi presto, è una battaglia. Comunque, ce l’ha fatta. Ora lavora in uno stabilimento farmaceutico, ha delle brave colleghe, si trova bene, ha uno stipendio fisso, fa una vita regolare.

Alla più piccola, invece, ho fatto incontrare l’amore della sua vita. È cubano, un bel ragazzone alto e con una bella parlantina, che l’ha fatta innamorare. È quello che ci voleva per una sanguigna come lei. Professionalmente è una donna capace, non avrà problemi.

Loro non sanno che sono stata io, anche se l’amica della mia figlia più grande, quella che scrive, l’ha capito subito che c’era il mio zampino. Del resto, con lei avevo un rapporto speciale: mi sentivo più sua amica io delle mie figlie. Quando ci trovavamo a parlare, ci intendevamo subito perché condividevamo gli stessi valori un po’ fuori moda: vestirsi in modo femminile, ma non volgare, le camicie da notte della nonna coi pizzi, le gonne a fiorellini, lo stile gitano, le stoffe provenzali, l’amore per la conoscenza, il parlare colorito ma non sguaiato, la pacatezza, la dignità, il femminismo.

Del resto, è a lei che ho chiesto aiuto quando mi sono resa conto che in quel modo non potevo più andare avanti.

Un giorno mi disse: «Sai, la parola giusta può cambiare tutto.» Ridevamo delle frasi a effetto che scriveva nei suoi racconti, di quella sua idea che il mondo si potesse risolvere con la bellezza della scrittura.

«Io non so scrivere» le risposi, «ma so leggere. E capisco quando qualcuno dice la verità.»

Lei sorrise, quasi sollevata. Ero la sua lettrice ideale, diceva. Io non lo sapevo ancora, ma era lei che avrebbe scritto la mia storia.

Quando le ho detto che non ce la facevo più, mi ha guardata con occhi intensi. Ho aspettato che dicesse qualcosa, che trovasse una soluzione, che facesse la magia delle parole che sapeva usare così bene.

Ha solo scosso la testa.

«Non posso aiutarti» ha sussurrato.

In quel momento, qualcosa dentro di me si è spezzato. Se nemmeno lei poteva salvarmi, allora non c’era davvero più niente da fare.

Forse avrei dovuto combattere di più? Pensavo che ci fosse una strada. Invece non c’era.

Quella sera, quando anche lei mi disse che non poteva aiutarmi, capii di stare urlando in un pozzo vuoto.

Mi accasciai nel mio letto sanitario, in silenzio.

Spensi l’interruttore.

Smisi di lottare.

La mia truppa se la cava, anche senza di me. Il padre delle mie figlie sta lentamente andando in declino, la vita fa il suo corso. Mia mamma tra un po’ mi raggiungerà. Ci stiamo già preparando ad accoglierla.

L’amica di mia figlia non lo sa, ma a volte le sussurro all’orecchio. L’altra sera, mentre correggeva un suo racconto, ha trovato una frase che non ricordava di aver scritto.

L’ha letta più volte, si è passata le dita sulle tempie, ha controllato i vecchi appunti.

Ma no, quella frase non era sua.

Eppure era lì, impressa in inchiostro nero.

Sono sicura che ha capito.

Sono sempre stata più brava a leggere che a scrivere, ma questa volta ho fatto un’eccezione.

Mi guardo intorno.

Qui ho tutto.

Tranne il mio cuore, che è rimasto laggiù.

Un condominio democratico

Nel condominio De Verbis, in via Paradigmi, abitavano molti tempi e modi.
Era un condominio democratico dove ognuno diceva la sua e si teneva conto delle opinioni di tutti.
Sempre in primo piano c’era il presente che, ogni tre per due, batteva i tacchi e ripeteva ad alta voce: «Presente», al secondo piano viveva l’imperfetto che, non sentendosi perfetto, stava sempre nascosto e non parlava con nessuno.
Al terzo piano si trovava il passato che, siccome guardava sempre indietro, soffriva di cervicale e ripeteva continuamente che: «Una volta si stava meglio», al quarto c’era il trapassato che, poverino, non comunicava più perché era morto.
Al quinto piano abitava il futuro che, essendo un po’ indolente, procrastinava ogni azione ripetendo: «Farò, dirò, studierò…» ma non concludeva niente.
Il sesto piano era di proprietà del congiuntivo che, con un po’ di puzza sotto il naso, si lamentava terribilmente perché molte persone non lo conoscevano o ne sbagliavano l’uso.
Al settimo piano, con la testa fra le nuvole, viveva il condizionale, modo dei sogni, che ripeteva a se stesso: «Vorrei, vivrei, andrei…» e infine all’ottavo, nell’attico, si trovava l’infinito perché, essendo infinito, dal terrazzo voleva vedere l’orizzonte.
Un giorno, i tempi e i modi decisero di indire una riunione condominiale perché qualcuno nel palazzo non pagava le spese.
L’amministratore Participio Deciso si accorse subito di chi era la colpa: era del trapassato che, non essendoci più, non poteva onorare le spese.
L’assemblea, democraticamente, votò di offrire ospitalità a un altro modo, ma non all’imperativo perché voleva comandare solo lui.
Era rimasto il gerundio il quale arrivò nel condominio cantando, ballando e rallegrando la giornata di tutti.
Il problema si presentò la sera quando, addormentatosi, passò la notte russando, russando e russando così forte che tenne tutti svegli.
L’assemblea si riunì nuovamente per risolvere il problema. Modi e tempi votarono all’unanimità per insonorizzare il quarto piano, dove si trovava il gerundio, così, sia i piani sotto che quelli sopra, non sarebbero più stati disturbati dal russamento: di notte tutti avrebbero dormito e di giorno si sarebbero divertiti.
Ma chi avrebbe pagato l’opera?
Il gerundio, naturalmente, decise l’assemblea. Il loro era o non era un condominio democratico?

La bambina e la baby sitter

Roxana piangeva lacrime amare, chiusa nell’armadio per non farsi trovare dalla baby sitter. Era buio lì dentro e aveva paura che la vecchia serratura difettosa si inceppasse. Ripensava a quando la maestra, alla fine dell’anno, aveva premiato la classe con la lettura de “Il leone, la strega e l’armadio”. Erano in seconda, allora. Magari avesse potuto fuggire in un altro mondo attraverso l’armadio! Tastò il pannello di legno, ma era solido e inchiodato.
Il groppo che aveva in gola le aveva impedito di difendersi e spiegare perché non era colpa sua per ciò che era successo a Billy, così la baby sitter l’aveva ritenuta colpevole. Avrebbe riferito tutto ai genitori.
Roxana non aveva pianificato nulla. Era stata una specie di vocina dentro la sua testa che le aveva suggerito di prendere il coltello più grosso dal ceppo in cucina, prima di rifugiarsi nell’armadio. Quando la baby sitter, cercandola a gran voce, aprì l’anta dell’armadio, le si scagliò contro con un grido e affondò il coltello senza guardare. Giustizia era fatta!
La vista del sangue la fece barcollare. Sgorgò fuori con un ‘blob’, come nei fumetti, poi la sua mano fu investita da un liquido caldo e appiccicoso.  Puzzava.
Si ritrasse istintivamente,  gettò il coltello e scappò giù dalle scale senza sapere bene dove andare. La nonna! La nonna sicuramente le avrebbe offerto rifugio e protezione. In fondo, era l’unica parente vera che le fosse rimasta, dopo la morte dei genitori per un’overdose quando Roxana era piccola. I servizi sociali l’avevano sballottata da una famiglia all’altra, ma la nonna c’era sempre durante le vacanze estive e qualche volta anche nei fine settimana. Però era vecchia e malata, non poteva occuparsi di lei sempre, così le aveva spiegato l’assistente sociale.
Era stato facile scappare dalla prima famiglia quando l’avevano rinchiusa in casa da sola mentre andavano a fare compere. Con una forcina per capelli, in venti minuti Roxana era riuscita ad avere la meglio sulla serratura e se l’era svignata. Sfortunatamente l’avevano trovata subito dalla nonna e l’avevano rispedita a casa.
Nella seconda famiglia erano più guardinghi, forse li avevano avvisati. Le porte avevano dei catenacci che si potevano aprire solo dall’esterno. Scappare era impossibile. Lei però aveva escogitato un modo per  avvelenarli pian piano, mettendo una mezza pastiglia di sonnifero sbriciolata nella minestra ogni sera. Ogni settimana aumentava la dose. Quando era arrivata a tre pastiglie e mezza, la madre aveva avuto un incidente d’auto mentre era alla guida ed erano morti sia lei che il marito. Nessuno aveva sospettato nulla.
Così era finita nella terza famiglia, dov’era ora. All’inizio le cose sembravano andare bene, poi il fratello aveva cominciato a prendersi delle libertà. La picchiava quando i genitori non c’erano e aveva anche provato a spogliarla per “farle vedere come si fa”. Lei si era ribellata e lo aveva morso. Così era cominciata la guerra fredda tra di loro, a colpi di agguati.
La sera in cui i genitori erano andati al cinema avevano chiamato la baby sitter per curare entrambi. Roxana stava giocando nella sua stanza quando Billy era entrato senza far rumore. Le aveva fatto cenno con un dito sulla bocca di tacere. La schiena di Roxana si era irrigidita subito, tutti i suoi campanelli interni di allarme suonavano. Urlare subito o saltargli addosso prima che avesse modo di preparare una difesa? Optò per la seconda e gli si avvinghiò a una gamba. Gli arrivava fino al petto, in fondo Billy aveva solo quindici anni ed era pure in ritardo con lo sviluppo. Lo graffiò in viso e sulle braccia con tutte le sue forze, come un gatto, come una tigre. Il ragazzo non poté trattenere un urlo e cercò di scalciarla via. Lei ritornò alla carica con una gragnola di pugni che lui non si aspettava, cercò di restituirli, ma Roxana fu più veloce e lui non si muoveva più.
Fu a quel punto che arrivò la baby sitter, allertata dal fracasso che avevano fatto cadendo e rotolando in mezzo alla stanza.
Roxana scappò per i campi fino a una fermata dell’autobus, che aveva visto arrivare. Saltò su e scese al capolinea, prese la metropolitana e si avviò a casa della nonna, attenta a nascondere la mano insanguinata dentro il maglione. Qualche adulto la guardava un po’ più a lungo del solito, ma poi prevaleva il disinteresse e la paura di cacciarsi in qualche bega. Arrivò dalla nonna che era già buio. Sgattaiolò nel capanno degli attrezzi e aspettò che la nonna accendesse la luce della camera da letto. Solo allora si arrischiò a bussare tre volte contro il vetro. Era il loro segnale. La nonna sapeva che in quel modo bussava solo Roxana al vetro della finestra. Infatti si precipitò ad aprire la porta sul retro. Roxana entrò. Da principio la nonna non si accorse del sangue, non ci vedeva molto bene e la luce dell’abat jour era fioca. Era anche un po’ sorda, così Roxana dovette urlare per farsi comprendere.
Un vicino che era ancora in giardino a tagliare le piante nonostante il buio sentì tutto. Sentì come la bambina raccontò dell’attacco col coltello alla baby sitter e come chiese alla nonna di nasconderla.
Fu la sua testimonianza in tribunale che la inchiodò. Per l’omicidio della baby sitter fu condannata a sette anni di carcere. La nonna morì di crepacuore poco dopo la sentenza.
“Ti puoi rifare una vita” le dicevano le suore che venivano a trovarla in cella una volta alla settimana.
Quando riuscirono a spegnere l’incendio della villa di Sean Diddy Combs a Los Angeles fu trovato un cadavere carbonizzato. Sulla base dell’esame del DNA, gli esperti forensi determinarono che il corpo corrispondeva a un individuo di razza caucasica, di sesso femminile, di circa quindici anni, in stato avanzato di gravidanza.

L’uomo dei cavoli

In un paese del Sudeuropa dove gli abitanti vivevano ancora del lavoro dei campi e l’olio scorreva a fiumi abitava una giovane coppia di sposi.
Il marito aveva mani grandi con cui manovrava sapientemente sia l’aratro che la cazzuola. Nel corso degli anni, tra la nascita dei figli e l’acquisto degli armenti, riuscì a edificare una casa per sé e per la sua famiglia.

La moglie era dedita alla casa e all’educazione dei figli, si occupava di preparare pasti nutrienti con i prodotti che dava la terra, curava che le figlie imparassero a ricamare per preparare la propria dote e che il ragazzo andasse bene a scuola. Nei giorni di festa madre e figlie indossavano l’abito tradizionale, costituito da una camicetta e da una gonna scura che si raccoglieva a pieghe. Tutti insieme si recavano allora in piazza, dove si svolgeva la vita della comunità: i suonatori intonavano le canzoni antiche con i tamburelli, le note incalzanti spingevano i piedi dei ballerini, le mani si alzavano al pari delle fiamme, gli sguardi tra i giovani si incrociavano furtivi.
Entrambi i coniugi si dedicavano all’educazione dei figli dando il buon esempio. Le scelte generose cementavano la vita della comunità, il tempo intrecciava una fitta tela di favori tra gli abitanti; al pari di un arazzo in via di tessitura, la tela mostrava il suo disegno generazione dopo generazione.

Le tre figlie avevano ereditato dalla nonna materna delle abilità particolari. Alla nascita del fratellino, ognuna gli aveva fatto dono di una qualità speciale: la più grande gli aveva donato occhi belli, la mediana un’energia inesauribile, la più piccola un cuore buono.

Una a una le figlie si sposarono e andarono a vivere in altre case, dove fondarono le rispettive famiglie. Durante le feste si ritrovavano tutti nella casa dei genitori in cui si celebrava in pompa magna: le figlie aiutavano a preparare i dolci tradizionali, attorno al desco ci si scambiavano le notizie sugli ultimi avvenimenti, nel pomeriggio si giocava a tombola, dopo cena si suonava e si ballavano le danze popolari con grande diletto di adulti e bambini.

Il figlio maschio però tardava ad accasarsi. Nonostante ne avesse grande desiderio, il suo sogno segreto di avere una famiglia tutta sua non si era realizzato. Il suo cuore si gonfiava di tenerezza alla vista dei nipoti, per i quali d’inverno aveva sempre un posto speciale sulla slitta che trascinava nella neve, carica del raccolto del suo orto. L’uomo aveva una predilezione per i cavoli. Aveva trovato, infatti, che i cavoli erano l’ortaggio che più si addiceva al suo appezzamento di terreno, dove crescevano, rinvigoriti da buon letame maturo, come per magia. Ogni mattina, prima di nutrire le galline e recarsi al lavoro, l’uomo ispezionava il suo orto e ne constatava il buono stato di accrescimento. Un giorno, controllando alcune foglie secche da rimuovere da sotto alcune piante di cavolo, ne trovò una grande di una forma inusuale che non si staccava: tirò allora un po’ più forte e ne uscì un vagito. Stupito, scostò le foglie vicine fino a scoprire un piccolo fagotto che si muoveva leggermente: una bambina. Grande fu la sua meraviglia e ancora più grande il suo sollievo nel constatare che la piccola era sana e vigorosa. La portò svelto in casa e la adagiò in una scatola di cartone foderata di lana morbida. Di lì a poco informò la famiglia, che fece festa grande e organizzò una cerimonia in cui la piccola venne battezzata Cavolina.

Da quel momento la vita dell’uomo dei cavoli fu dedicata alla figlia. Cavolina crebbe lieta e leggiadra, aiutando il padre nei lavori dell’orto e imparando da lui i segreti delle erbe selvatiche commestibili e medicamentose, oltre a studiare diligentemente a scuola. Quando arrivò alla pubertà scoprì di possedere anch’ella dei poteri particolari. Per l’amore che portava al padre, Cavolina desiderava ardentemente donargli ciò che nella loro casa mancava di più. Fu così che, una notte, dopo molte preghiere, Cavolina si addormentò sognando la madre mai conosciuta. La madre era una fata e nel sogno le indicò un bosco dove mandare l’uomo a fare legna. Il giorno dopo, su indicazione di Cavolina, il padre andò nel bosco e incontrò una giovane donna; i due si piacquero, si innamorarono e poco tempo dopo si sposarono. La loro gioia fu allora completa e vissero insieme felici e contenti per molti anni a venire.

Basta terra!

Ho nove anni, i miei genitori hanno bisogno di me, del mio contributo.
Mi mandano in campagna a lavorare da un proprietario terriero.
Sono troppo giovane per riuscire ad immaginare cosa mi aspetta.
Appena arrivato mi mostrano la mia sistemazione per dormire: un lercio materasso nella stalla.
Al mio risveglio conosco il primogenito del mio padrone, ha un’aria crudele e nessun riguardo per i bambini. È un tempo in cui i bambini come me sono solo manodopera.
Le giornate di lavoro mi lasciano esausto.
La terra è bassa e il sole picchia, anche il figlio del padrone. Quando torno nella mia nauseabonda dimora non dimentica mai di venire a tormentare la sua vittima. Non c’è nessuno a difendermi, non mi resta che subire.
Sono troppo piccolo per reagire e devo portare i soldi a casa. Mi sento un prigioniero.
Non credo che resisterò a lungo, mi manca la mia famiglia, mi manca mia madre.
Provo a rassegnarmi ma è troppo da sopportare.
Trovo il coraggio, scappo!
Decido di farlo di notte così nessuno se ne accorgerà. Mi immergo nel buio pesto nella campagna, e la vista non è il mio senso più efficiente, solo un tenue bagliore della luna ad indicarmi la direzione. Ogni minimo fruscìo mi terrorizza, forse un serpente o peggio un orso. Corro più veloce che posso verso casa che mi sembra più lontana che mai. Finalmente giungo in paese e realizzo che non posso presentarmi dai miei, le botte potrebbero moltiplicarsi. Vago per due giorni nascondendomi come posso finché un paesano mi trova e scopro che i miei genitori mi stanno disperatamente cercando.
Mi porta a casa. Mia madre corre verso di me e mi abbraccia, incrocia lo sguardo di mio padre, lui non osa dire niente.
Da quel momento basta terra.

Ordine

Sapevo che sarebbe arrivato questo momento e ora che sono qui temo di non essere pronto.
È la mia prima volta, ho il fiato corto, mi tremano le gambe.
Non ho avuto scelta ma adesso questo è il mio dovere, non posso tirarmi indietro. Chissà se Dio potrà perdonami.
Devo concentrarmi, frenare l’ ansia,
è solo un piccolo movimento ma che cambierà anche la mia vita, per sempre.
Mi dicono di non incrociare gli sguardi, sarà più facile.
Un colpo preciso senza esitazione.
Fuoco!

C’è vento

Ogni giorno ho la mia ora quieta, incastonata con cura tra una corsa e l’altra.
La passo con un guinzaglio in mano e un cane che mi trotterella a fianco.
Ce ne andiamo sempre lungo gli stessi sentieri, che sono alla fine due o tre.
Li abbiamo percorsi centinaia di volte, in qualsiasi stagione, ma mi sembrano sempre un incanto.
Oggi mentre cammino c’è vento, mi passa addosso e mi riempie le orecchie col fruscio delle foglie
Quando arriva il vento, arrivi sempre anche tu.
Penso che sei da qualche parte a sbirciarmi sorridendo, giocando a farmi una carezza senza essere vista.
Cammino, c’è vento.
Ti prendo tra le braccia la prima volta che sei un fagotto che pesa come un pollo, e io una ragazzina che pensa che essere diventata zia è una botta d’orgoglio da sfanfarare ovunque.
Le pappe rovesciate, i pannolini di cotone, il profumo di latte e caramelle di gomma, i carillon da far partire per guardarti incantata.
I tappetoni imbottiti dove rotolarti, la maniglie a cui aggrapparti per imparare a stare in piedi.
Ti racconto storie, ti invento giochi, faccio la pagliaccia mille volte per strapparti una risata.
Sei una bimba quieta e silenziosa, sempre in un angolo per non essere vista, col tuo faccino smorto, gli occhi enormi e le dita lunghe come ali.
Mi guardi come se io fossi una maga spara incantesimi, taci, sorridi.
Senza averlo imparato, ci amiamo forte con gli sguardi e nessuna parola è mai necessaria.
Cammino, c’è vento.
Sei una ragazza ora, e sono arrivate le feste, le discoteche.
Le guerre con i tuoi, le dichiarazioni di indipendenza, il voler essere te stessa con i tuoi sogni e i tuoi ideali, nonostante tutto e tutti.
Arrivano i primi amori, poi quello grande.
Il lavoro nei centri sociali, tra gli umili e i disperati, che tu a lavorare in banca come gli altri volevano, ci saresti soffocata.
Cammino, c’è vento, prendo un respiro grosso.
Mi telefoni un pomeriggio qualunque con la voce un po’ strana… “Zia stavo facendo la doccia e nel seno ho sentito qualcosa di strano”.
In un giorno qualsiasi, arriva una clava di piombo, che ti si abbatte sul petto senza neanche avvertire.
Non sai ammettere né concepire che possa essere accaduto.
Non a chi ami con ogni respiro.
Infili la paura e la disperazione in un pentolone, lo sigilli con un coperchio e ti ci siedi sopra.
Perché devi trasformarti in colonna, essere forte per chi ami, dare coraggio, infondere speranza, e in cuor tuo non sai neanche dove trovarli.
Cammino, c’è vento.
Arrivano i giorni della paura e del dolore.
Dell’attesa e della speranza.
Arrivano i giorni della gioia per essere sbucati fuori da un tunnel.
E quelli dello sgomento, scoprendo che un altro tunnel ci aspettava dietro la curva.
Cammino, c’è vento.
Ecco oggi sei una sposa, diafana e bellissima, noi ben vestiti a battere le mani, tutti che credono al lieto fine.
Siamo verso la fine di una giornata perfetta di gioia e speranza, e mentre vago di stanza in stanza, ti trovo nella sala dei confetti.
Ti guardo senza parlare, stai lì in piedi, sola e con lo sguardo perso.
Mi accorgo solo ora di quanto sei magra, di quanto sei stanca.
Ci guardiamo negli occhi, ci sorridiamo con tristezza e amore, ci facciamo coraggio in silenzio, perché forse il lieto fine non è di questa storia, e lo sappiamo entrambe.
Cammino, c’è vento.
Arrivano i giorni in cui la speranza scivola piano tra le dita, e c’è solo da amarti più di ogni cosa.
Ti passo le matite ad una ad una, stai cercando di disegnare il progetto della cucina nuova, che sdraiati in quei letti d’ospedale non è facile per niente.
Pezzetti piccoli di pane e marmellata, te li metto in bocca e ci facciamo segno che zitti zitti, è un segreto tra noi, perché i medici han detto che lo zucchero è vietato, ma noi delle regole ce ne sbattiamo.
Ti imbocco, metto il dito sulle labbra “sscchhh bambina, non ci devono scoprire”.
Tu mastichi piano, alzi gli occhi, sorridi lenta “sscchhh zia, non lo scoprirà nessuno”.
Cammino, c’è vento.
Dormi tutto il giorno ora.
Dormi di giorno, dormi di notte, mi chiedo se sai che sono li’ seduta tutti i giorni.
Ti accarezzo le dita lunghe come ali, ti racconto delle piccole cose banali.
Poi pian piano mi faccio coraggio e ti racconto del viaggio che stai per fare, che sicuramente sarà bello e pieno di cose buone.
Chissà cosa andrai a scoprire, dove andrai a volare, o dove e quando atterrerai da qualche parte.
Chissà se troverai il modo di venirmi a trovare.
Che non dobbiamo avere paura, neanche un po’.
Perché i cuori buoni e le anime belle, possono partire solo per viaggi meravigliosi.
Cammino, c’è vento.
Dei tuoi ultimi fiori, bambina, ne ho fatto un mazzetto.
L’ho preparato per farlo seccare e tenerlo come una sacra reliquia.
Ma ho appena adottato un micino neonato, che fa più guai di Attila.
E tornata stanca dal lavoro, ho trovato i tuoi fiori sparsi ovunque.
Petali bianchi, foglie, rametti dappertutto.
Il micio mi guarda come un pupo, ha un rametto incastrato tra le orecchie
Mi sei venuta a trovare dunque, hai usato le zampe del micino per dirmi che è questo che avresti voluto fare dei tuoi fiori.
Non una composizione morta, fissa in un vaso elegante.
Ma una festa smargiassa, con tutto sparso ovunque senza regole, per festeggiare la vita.
Cammino, c’è vento.
Mi piace arrivare alle curve del sentiero.
Mi immagino che sbuchi da lì, i capelli sparsi, uno dei tuoi sciarponi svolazzanti, le dita lunghe come ali.
Ci sorridiamo e basta.
Ed è già tutto.
Cammino, c’è vento.
Mi fermo, accarezzo la testa al cane.. “Tata dai, torniamo a casa adesso”.
Giro la schiena alla curva, probabilmente l’hai girata anche tu e te ne vai per i tuoi sentieri.
Giro un poco la testa e mi concedo di fare la matta e parlarti ad alta voce.
“Ora la zia va a casa, bambina.
Ci vediamo la prossima volta che c’è vento”.

Quello che sappiamo dell’Amore

Quante volte diciamo “ti amo” nella vita?
Non contano i “ti amo” buttati in mezzo ad una frase tanto per dire, ma quelli detti sul serio, con il cuore che batte a mille, le pupille dilatate e le farfalle nello stomaco.
La tesi di Amy consiste nel fatto che i bambini lo dimostrano più frequentemente, attraverso l’affetto e la sincerità, gli adolescenti lo sussurrano sotto voce, ancora increduli di ciò che provano e un po’ timorosi nel dare il loro cuore in mano a qualcun altro, mentre gli adulti sono un genere a sé. Alcuni pretendono di basarsi sulle esperienze, più o meno negative, che si portano alle spalle facendo in modo, molto spesso, che quelle tre paroline non vengano mai più pronunciate e finiscano nascoste sotto pile di scuse e menzogne, a prendere polvere in un angolo remoto di sé.
Qualche giorno prima, mentre Amy stava parlando con una sua amica, si era decisa a chiederle di punto in bianco: «Secondo te cos’è l’amore?»
L’amica l’aveva osservata come si guarda un pazzo o qualcuno che non sa bene ciò che sta dicendo e le aveva sussurrato: «A me lo chiedi? Dovresti essere tu a dirmelo».
Amy l’aveva guardata con fare assente e poi si era girata verso la finestra aperta, come faceva sempre quando pensava ad una risposta sensata da dire.
Con fare deciso aveva risposto: «L’amore è un uomo che sta seduto in un bar la mattina prima di andare al lavoro, pensa alla carriera e alla Gazzetta sportiva che tiene tra le mani mentre sorseggia il suo caffè. Sente di essere soddisfatto, non ha bisogno di nulla. Ad un tratto, però, la porta del bar si spalanca e lei entra. In quel momento lui sa che nulla sarà mai più come prima». L’amica l’aveva guardata dubbiosa: «Beh allora non resta che scoprirlo», le aveva detto con un sospiro.
Quel pomeriggio Amy tornò al bar. Lo trovò al solito posto, con in mano un caffè e la Gazzetta sportiva aperta alla pagina dei risultati del campionato.
Mark teneva gli occhi fissi sulla Gazzetta anche se non la stava leggendo realmente.  Mentre sorseggiava il suo caffè ripensava alla ragazza che aveva intravisto il giorno prima e di cui aveva incrociato lo sguardo. Gli aveva sorriso e lui era rimasto colpito dai suoi occhi sereni e remoti.
La sentì entrare nel bar con un brivido, come se improvvisamente stesse respirando aria fresca, e si voltò a guardarla.
Lei indossava un vestitino azzurro, con una gonna lunga. I capelli a caschetto le mettevano in risalto il viso, mentre gli occhi verdi brillavano.
«Indossa i colori del cielo e delle foglie scosse al vento», pensò, e sentì abbattersi tutte le barriere.
«Tu sei una creatura eterea, non puoi stare nel chiuso di un bar, – riuscì a dirle quasi con timidezza – perché non usciamo a fare una passeggiata all’aria aperta?»
Lei accettò con un sorriso.
Mentre camminavano, Amy lo prese sotto braccio, con una confidenza che lo stupì piacevolmente, e cominciò a raccontargli della sua passione per il pianoforte che suonava fin da piccola. Le piaceva moltissimo ascoltare i suoni che le sue dita creavano solo sfiorando i tasti di quello strumento. Potevano essere brividi o lacrime le sensazioni che trasmetteva ogni volta che le note entravano nella sua anima.
Improvvisamente, Mark scoprì in sè il desiderio di aprirsi. Negli anni si era costruito attorno così tanti muri da non riuscire più a fidarsi: preferiva non entrare troppo in sintonia con il mondo esterno.
In quel momento, tuttavia, le cose avevano cominciato a cambiare e le sue nubi interiori a diradarsi, spazzate vie dalla brezza degli occhi di lei.
Come leggendogli nella mente, lei gli chiese: «Cosa c’è che ti turba dietro tutta questa imperturbabilità di cui ti travesti? Continui a dire che sei felice, che non hai bisogno di nulla, ma sento in te una malinconia e un dolore profondi. Confidati».
La voce gli uscì come un fiume in piena: «Sono stato ingannato e ferito molte volte, soprattutto da una donna con cui pensavo sarebbe stato per sempre.  Così mi sono creato una nuova routine e sto molto bene, sono felice».
«Ma ti manca qualcosa – Amy lo riprese subito prima che lui lasciasse cadere il discorso – sogni una famiglia».
Mark sussultò, si chiese come lei avesse fatto a intuire il suo più grande rammarico.
«Puoi farcela, Mark. Puoi trovare qualcuna che ti restituirà amore e fiducia. Devi solo crederci», lei sussurrò.
Mark chiuse gli occhi per un istante, sentendo che si stavano riempiendo di lacrime.
Quando li riaprì, lei era sparita, come rapita da un turbinio di vento.
Non la rivide mai più.
Amy entrò in ufficio e la sua amica, Malinconia, l’accolse con un sorriso languido: «Alla fine il tuo assegnato ce l’ha fatta, ha trovato una persona che lo ama e lo rende felice. Il capo apprezzerà l’esito positivo di questa tua missione».
Per la prima volta Amy sentì il peso del suo lavoro: interagire con gli umani salvandoli dalle loro stesse emozioni.
Alzò le mani verso l’alto e creò un vortice d’aria. Ci guardò dentro e vide Mark sorridente accanto a una donna. Questa volta c’era mancato poco che si affezionasse sul serio, o forse quel confine lo aveva superato e le faceva male sapere che la sua corsa verso la felicità non aveva mai pace, ogni missione andata a buon fine rendeva felice sempre qualcun altro e lei si ritrovava di nuovo al punto di partenza.
Il capo la richiamò all’ordine: «Ti sei meritata una pausa, ma non dimenticarti di chi tu sei, mi raccomando Amore, o Amy come hai deciso di farti chiamare tra gli umani».
Amore pensò che, forse, l’amore per gli umani è un’emozione temporanea, che li fa sentire vivi anche solo per un momento e che poi, con il tempo, si trasforma in qualche altro suo collega: Affetto, Stima, Fiducia.
«Chissà se il mondo degli umani differisce così tanto dal mio», si chiese mentre camminava verso casa. Una figura le si mise di fianco, la guardò con fare disinvolto e le si presentò: «Mi chiamo Disillusione, ti andrebbe di prendere un caffè?»
Amore esitò ma poi, sentendosi a suo agio, lasciò da parte il suo lato più romantico e innocente e accettò la proposta. Era arrivato il tempo di crescere.

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