Archivia 28 Aprile 2024

Diego il Gatto

Sono una signora di mezza età con le sue abitudini.

E mi alzo all’alba per aver mezz’ora di pacioso silenzio, col caffè e la sigaretta.

Vado al lavandino della cucina, giro la testa verso la finestra e aspetto Diego il Gatto.

Che terminati i bagordi notturni, in giro per i giardini altrui, scavalca il cancelletto e salta sul davanzale.

Gli apro la finestra, ma c’è da aspettare che si contorca il suo numero di volte, prima di degnarmi del suo ingresso.

Gnaula, aspetta alla ciotola, si fa la sua bustina, si stiracchia, va sul divano e si infogna nella sua copertona rossa.

Prima di addormentarsi, mi fissa per un po’…

Sarebbe bello pensare che mi guardi con amore e gratitudine… Ma felinamente parlando, è assai più probabile che faccia considerazioni sulla vita di merda che conduco io, mentre lui sta a pastellarsi la coperta tutta mattina.

Questa è l’abitudine mia e di Diego.

Ogni mattina che Dio mette in terra.

Stamattina ero al lavandino, con le occhiaie di una mignotta a fine turno e con gli occhi talmente gonfi da far fatica a tenerli aperti.

Ho girato la testa verso la finestra, e mi sono concessa un piccolo lusso.

Ho fatto finta di vedere Diego saltare il cancelletto un’altra volta.

Ho aperto la finestra, e ho fatto finta di guardare il grassone contorcersi un’altra volta.

Ho aperto la bustina.

Ho preparato la coperta.

Per un’altra mattina.

Come tutte le mattine che Dio mette in terra.

Cosa vuoi che ti dica, Diego?

Va’ e corri nel cielo?

Va’ e vola nel cielo?

Ma va la’…dove cavolo vuoi volare e correre, gatto mio adorato?

Sei partito con uno zaino sul groppone, te lo abbiamo messo addosso noialtri quattro, la tua famiglia con le gambe.

Uno zaino che pesa un quintale, né corse e né voli, quindi..

Potrai solo camminare pian piano, con quel borsone sulla schiena.

Ma è pieno di tutto il nostro amore, e so che non ti dispiacera’ portarlo

La carezza dell’acqua

Seduta sulla barca.

Guardo il più incredibile mare che io abbia mai avuto sotto gli occhi.

Tutti si buttano… Chi si tuffa, chi si cala dalla scaletta.

Nessuno fa caso a me, tutti presi a nuotare e starnazzare.

Neanche l’acqua fa caso a me, né alle mie dita aggrappate al bordo della barca.

Mi canto le solite filastrocche.

Non importa.

Non e’ necessario.

Non è fondamentale.

Anzi, il bagnato, il sale sono sempre vagamente fastidiosi.

Ma non so che giorno è oggi, però le mie bugie hanno il suono stridulo di una campana rotta.

E il mio corpo senza permesso, si alza, mette le mani sul bordo della scaletta e inizia a scendere… L’acqua che gli accarezza il ventre e le cosce.

Ora gli urlo qualcosa.

Cosa fai, come osi.

L’acqua è pericolosa.

Non respirerai.

Soffocherai.

Annegherai.

Morirai.

Sarai inghiottito e annientato.

Ma davvero non so che giorno è oggi, questo corpo non mi ascolta.

E mi sporgo per recuperarlo, per tirarlo in salvo, sciagurato senza senno.

Ma scivolo piano anch’io, l’acqua che avvolge, e confonde, e lava la paura.

L’acqua che per la prima volta fa caso a me…

Mi sorride, mi abbraccia, mi accoglie, mi sostiene.

Apro le braccia, mi lascio andare e riprendo a respirare.

E me ne sto li’ stupefatta come fosse il primo giorno di una vita nuova.

L’acqua ci tiene.

Me e la mia paura.

E mi sfascio la bocca in un sorriso, il viso bagnato, il sale dell’acqua e delle mie lacrime.

Attimo

Il cielo si apre

in uno dei suoi

orizzonti più azzurri

raggi pennellano cirri scarmigliati

che s’involano verso oriente,

questo basta a perdonare la pioggia

che mi ritorna il sentore di terra bagnata

e del suo seme.

 

 

 

Scaramanzia

Dentro al tondo

di un catino ci sciacquavi

le verdure

con le mani

e le brutture

alla luce

del mattino

ci leggevi

anche il destino

galleggiava la buona sorte

giù in fondo resta la morte!

Rigirata l’acqua poi

la versavi

nel giardino

per nutrire frutti e fiori

e buttare via i dolori.

 

Acqua benecta

L’acqua si rispettava.

Il nonno la raccoglieva piovana dentro grandi botti collocate in cortile.

Con lei si veniva a patti sempre: le verdure lavate nell’orto e l’acqua ritornava alla terra.

Al mattino la faccia lavata con l’acqua pulita nella bacinella in ceramica bianca, poi si

versava in giardino per i fiori. L’ acqua calda della pasta per lavare i piatti, mani e piedini

risciacquati prima di rincasare con la canna sopra i cetrioli che hanno sempre sete.

Santa in un ampolla e conservata in un luogo segreto che solo la nonna sapeva: con quest’acqua

benediva segnando una piccola croce sulle fronti mentre pregava. Noi bambine capivamo così

che accadeva qualcosa di straordinario e avevamo bisogno dell’aiuto divino.

Ho lavorato per un periodo presso un rinomato magazzino tessile a Milano e mi sono scontrata

con responsabile e colleghe perché facevano scorrere l’acqua durante tutta la giornata per averla

fresca, chiudevo il rubinetto, ma loro mi prendevano in giro: ” Sei proprio una paesanella” dicevano.

Io soffrivo nel vederla scorrere nel lavandino così invano, inerme.

.

 

Chiarezza

Ce l’ ha fatta il fiume

quest’oggi in ardore d’0nda

a spazzar via

la crosta di fronde

e cose morte

che da giorni sostava

tra esili mani di salice.

La punta di un piede nell’acque

allontana le ultime foglie

che mulinellano sparse

morde la corrente tanto ha fretta.

Squarcio improvviso

brividi di cielo versato in terra.

Si libera nell’aria

il profumo di mughetti

ricamato sulle lenzuola

stese al sole.

 

 

Estate 1960

La scuola è finita da più di un mese,le giornate sono lunghe e il tempo interminabile.
Dopo un torneo di carte,giocato sotto il porticato della cascina,Beppe,Giancarlo,Piergiorgio e Fausto decidono di andare a fare il bagno.

Al mare ? Nooo
Le vacanze in riviera sono un miraggio,le loro famiglie non se le possono permettere.
I quattro ragazzi si preparano: oggi andranno all’Addetta a fare il bagno.
Niente costumi,solo un paio di mutande di riserva per ognuno di loro. In più a Beppe e Giancarlo le madri impongono di portare le sorelline.

Sparpagliati procedono verso la Cerca,strada battutissima da automobili e camion.
“Uno,due,tre… non arriva nessuno,attraversiamo!” dice Giancarlo.
La strada, al di là della Cerca, diventa un sentiero,piante di sambuco e rovi a destra e a sinistra. Le bambine raccolgono denti di leone e si divertono, soffiando ,a farli volare nell’aria.

Pochi passi ancora ed ecco,la loro spiaggia. Quattro gradoni di cemento da cui a cascatelle scende l’Addetta, fiume secondario figlio della più importante Adda.
I ragazzi di corsa raggiungono l’acqua e iniziano a spruzzarsi a vicenda.Gioia pura, pomeriggio di felicità.
Inzuppati e felici si tuffano vestiti nelle acque del fiume, non interessa se quando torneranno a casa li aspetterà una bella strigliata per essere completamente zuppi.

A loro non importa, alla fine è solo acqua.

Il ponte delle sirene

La stradina costeggiata da rogge si snoda in una serie di curve strette, fiancheggia la campagna coltivata e lentamente unisce Mediglia a San Giuliano.
Poco trafficata è la strada che ho frequentato più di tutte perché da bambina si andava dalla nonna a bordo della Cinquecento azzurra guidata da mio padre e da adulta per raggiungere il centro commerciale in cui ho lavorato dieci anni come ottica e vetrinista.
Circa a metà del suo percorso la stradina sovrasta con un ponte il fiume che mi affascina da sempre. Specialmente in inverno quando i campi freddi biancheggiano per la neve o la brina, il Lambro sembra trascinare più cupo che mai il suo carico d’acqua e di segreti mentre avvolto da una bruma opalescente scorre imperturbabile verso il suo mare.
Occasionali gabbiani o cormorani ne sorvolano le onde, non ho mai visto pescatori lungo le sue rive solitarie. Da piccola ogni volta che passavo sul ponte in auto abbassavo il finestrino e guardavo giù per vedere meglio che potevo, ma niente traspariva dal fondo nero e denso.
Una volta vidi una spessa coltre di schiuma bianca serpeggiare sul Lambro, rimasi incantata:  «Papà guarda che bello il fiume stamattina».
«A volte le Sirene arrivano anche qui per fare il bagno e lasciano la loro scia insaponata».
«E come si fa a vedere le Sirene papà, sai quando faranno il bagno la prossima volta?» gli chiesi.
174Le Sirene si bagnano alle prime luci dell’alba per tingere le loro code nell’ acque argentate», mi rispose sorridente.
Da allora quando passo sul ponte delle Sirene penso sia un luogo magico e chissà… di incontrarne una prima o poi.

Il pescatore errante dell’Asia

Me lo racconti ancora, papà? Mi racconti di quando ad Aral c’era il mare?

La testa si riempie di sogni se si vive di un sussidio statale e poco altro, il tempo scorre tumultuoso come acqua nelle fogne e la puzza sale al cervello, i pensieri muoiono e marciscono diventando incubi terribili. Levent è troppo giovane per essere vaccinato contro il vaiolo, per aver visto uomini e cani partire per lo spazio, per aver assistito alla caduta dello Stato, per aver sperato nella democrazia e per aver visto il mare. Sebbene nato dopo tutto, ignorante di un passato troppo lungo, non gli serve certo un’illuminazione per accorgersi che lì intorno è tutto uno schifo. Basta guardare i volti dei più grandi, che tengono dentro agli occhi una nostalgia schiacciante, come il sole a picco che opprime il deserto intorno alla città.

È vero papà? È vero che le ragazze si vestivano bene e passeggiavano la sera sul lungomare?

Si va via quando non se ne può più. Se il lavoro non c’è non si può mai cominciare, e se mai si inizia mai si finisce. Chi lo dice che da un’altra parte le cose vadano meglio? Lo si sente dire dai camion che grugniscono tra la polvere, operai di una mattina scaricano grandi casse che contengono frutta, verdura, carne, pesce, oggetti e vestiti che sono poi venduti nei negozi. Da qualche parte devono pur arrivare.

È vero che alla stazione di Aral arrivavano le famiglie importanti dalla capitale per trascorrere le vacanze? Che la sera i teatri erano aperti e la gente usciva per assistere ai concerti? Che la mamma andava dal parrucchiere e ne usciva pettinata alla moda?

I suoi genitori gli hanno raccontato tutto questo, di come anno dopo anno la città è morta in preda ad un’agonia lenta, e secca. Levent si è fatto l’ultimo selfie quella mattina, l’ha caricato come stato su Telegram, ha ricevuto alcune reazioni dai suoi amici, poi è calato il silenzio. Più si allontana dalle ultime case più il segnale si indebolisce, ha collegato il cellulare ad una batteria che si ricarica con la luce solare, che nel deserto non mancherà. Per la traversata ha chiesto alla sua famiglia di potersi portare un asino, che è resistente, porta in groppa sia il ragazzo sia il suo essenziale bagaglio e non si cura se ad un certo punto i suoi zoccoli cominciano a scricchiolare su una distesa di sale.

Levent ha detto ai suoi genitori di voler andare nella valle dell’Amu Darya, cercare un impiego in una piantagione di cotone e mandare qualche soldo a casa, solo così li ha convinti a cedergli l’asino. Per raggiungere la fertile valle deve attraversare il mare di Aral, a piedi, perché di tutta quella grande acqua non rimane più niente. Scende lungo un lieve pendio e si ferma un poco a riposare, all’ombra dello scafo di un grande peschereccio arrugginito, appoggiato a una duna di sale. Quello appartenuto alla sua famiglia era più piccolo, si è arenato non molto lontano. C’è passato davanti poco prima e vi ha potuto leggere alcune lettere del nome della mamma.

Lo sfortunato mare di Aral era la casa di tanti pescatori che dividevano le sue fragili onde con gli uccelli acquatici, e con la vecchia flotta militare dello Zar che presidiava l’Asia centrale. La sua grande debolezza, essere un mare interno, se l’acqua non arriva più il sole e il vento lo spazzano via.

L’asino di Levent cammina lento verso una catasta di bastoni bianchi, liquidi all’orizzonte come un miraggio. Il suo sguardo confuso da quel malsano viaggiare incrocia enormi orbite vuote e inespressive, appartenute ad un pesce smisurato. Occorrono decine di passi per arrivare fino alla fine dello scheletro di quell’antico mostro acquatico. Anche suo papà avrebbe potuto vendere pregiato caviale, se avesse però comprato un peschereccio più grande.

Fra pochi giorni Levent raggiungerà finalmente l’acqua. la troverà imbrigliata da una catena di dighe e di chiuse, che cingono l’Amu Darya e lo addomesticano, ne raddrizzano le anse serpentine per convogliarlo verso distese sterminate di batuffoli bianchi.

Ha in testa una tale confusione. Dà la colpa al sole a picco, ma si accorge che nemmeno riposando all’ombra di una grande roccia i suoi pensieri riescono a trovare un senso. La storia che si è raccontato è buona, all’inizio sollevare sacchi di cotone non sarà una passeggiata, ma gli metterà in tasca qualche soldo, abbastanza da chiedere a una ragazza di uscire. Anche nella valle dell’Amu Darya le ragazze credono in Dio, quindi non dovrebbero esserci problemi. Se si lavora e si rispettano le regole le cose andranno lisce come devono andare.

Tuttavia Levent non riesce a togliersi dalla testa quegli enormi occhi fantasma del deserto, quel muso appuntito rivolto all’insù, come se cercasse disperatamente di respirare. Si risveglia ma quel sogno rimane lì: se in quelle dighe lungo il fiume si aprisse uno spiraglio, e l’acqua libera riuscisse a fluire via… il grande storione potrebbe riprendere a nuotare.

 

Pioggia

Mino si guardò intorno sconsolato, scacciando infastidito un moscone che si ostinava a girargli intorno. Ormai erano mesi che non pioveva, il suo campo coltivato a granturco aveva da tempo perso il colore verde delle tenere foglioline e le pannocchie stentavano a crescere, secche e protese verso l’alto come in uno strenuo tentativo di ricevere qualche goccia consolatrice.
«Per annaffiarle mi rimane solo il mio sudore», pensò disperato. Tocco le pianticelle rinsecchite con le dita callose di chi la terra l’ha lavorata per tutta la vita e la conosce bene, fin troppo bene per sperare in un capovolgimento della sorte.
«Quest’anno il raccolto rischia di essere compromesso», si disse quasi con rassegnazione. Pensò a sua moglie che contava sempre meno su di lui per il vivere quotidiano, a suo figlio che aveva perso ogni fiducia e alla terra non voleva più pensare, ai progetti per il futuro che anno dopo anno andavano in fumo, bruciati dalla stessa arsura che stava prosciugando la vitalità dai suoi campi.
Eppure quella era la vita che da generazioni aveva sostenuto la sua famiglia, quelli erano i terreni che si erano tramandati di padre in figlio.
Un tempo, i campi maturavano rigogliosi e gli anni sterili erano pochi, catastrofi naturali come grandinate o siccità venivano raccontate dai vecchi ai bambini a cui la sera, raccolti nel granaio per scaldarsi a vicenda, raccontavano le storie di messi perdute, disperazione e ripresa fra difficoltà superate e nuove sfide all’orizzonte.
Una vita difficile ma a cui nessuno avrebbe mai pensato di poter rinunciare: la terra era il loro destino, la loro ragione di vita.
Ora però tutto era cambiato. Ogni anno era più caldo, meno piovoso, e i raccolti si facevano sempre più striminziti.
«Acqua, serve acqua! Dio del cielo, se mi ascolti, fai piovere, fai bere i miei campi e restituiscimi la mia vita!».
Uno sguardo al cielo e uno alla terra secca, rimase fermo ancora un po’, come in attesa.