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Uomini pipistrello – Parte tre

Tempo

 

Miro non si era aspettato che a guardia del deposito ci fossero umani. Aveva raccolto molti dati, era certo di non trovarne. Eppure…
Quel giorno era prevista una grossa consegna, così oltre ai Bite e ai Cop, c’erano poliziotti armati. La differenza tra Cop e poliziotti saltava subito all’occhio. I primi non avevano cannule né bombole d’ossigeno: erano androidi. I secondi avevano la testa protetta da grandi caschi tondi che ricordavano quelli degli astronauti.
Per fortuna, Miro li aveva visti da lontano. Non aveva avuto scelta. Era stato costretto a ordinare al Notabile di fermarsi e invertire la rotta verso l’ingresso delle fognature.
Era rientrato tanto illeso quanto sconfitto. Ma non era quello il problema.
Il Notabile lo aveva lasciato scendere con un ghigno in faccia: «Vaff, Bat», aveva sibilato.
«Anche a te, carogna», aveva risposto Miro scandendo bene le parole, come se il fatto di non badare all’ossigeno sprecato fosse un’ulteriore offesa nei confronti dell’uomo grasso e roseo.
Quando Miro raggiunse il luogo dove viveva con sua madre Gala e la moglie Leda, non vide né l’una, né l’altra.
Era pieno giorno, ma le tre loro amache pendevano dal soffitto come sacchi vuoti.
Si girò verso il loro rifugio, il Rif. Un tenue bagliore proiettava sulle pareti di plastica due sagome accucciate. Si precipitò con il cuore in gola verso di loro.
Quando scostò la tenda d’ingresso, quattro occhi lo guardarono spaventati. Miro si bloccò per un istante, scrollò la testa e alzò le mani vuote. Gala e Leda compresero.
La madre di Miro gli fece cenno di avvicinarsi. In quel momento, Leda chiuse gli occhi e sul suo viso si disegnò una smorfia di dolore. Miro girò intorno alle due donne e si accucciò dietro Leda. Le cinse le braccia mettendo le sue mani su quelle della moglie. Si sedette per sostenerne il corpo.
Gala era intenta a misurare il tempo delle contrazioni. Tempo tra una e l’altra. Tempo tra la nascita di Hope e i suoi primi respiri. Gala aveva preparato una piccola bombola. L’aveva riempita giorno dopo giorno, rinunciando a qualche minuto di respiro.
Leda doveva soffrire in silenzio. Meno gente si accorgeva della nascita, meglio era.
Qualcuno avrebbe potuto denunciarli, segnalare la presenza del neonato ai droni di controllo che ogni giorno attraversavano le fogne per la conta delle teste.
Nei mesi precedenti, Gala e Leda avevano preparato stoffe pulite e fatto sobbollire il fango per raccogliere il vapore, goccia dopo goccia, tanto da riempire un piccolo mastello.
Leda si era rilassata tra le braccia di Miro. Piangevano entrambi, per l’emozione e per il loro bambino: non era ora di metterlo al mondo. Non ancora. Ma la natura se n’era fregata. La natura era diventata ostile all’umanità tanto quanto l’umanità lo era stata con lei nel corso dei millenni.
Di nuovo, una contrazione fece irrigidire Leda. A Miro parve di sentirne le scosse in petto. Gala fece cenno che erano passati quattro minuti dalla precedente. Fece un sospiro e si preparò a gestire la parte finale del travaglio della nuora.
Prese le mani di Miro e le mise sotto le ascelle di Leda perché la sostenesse, poi s’inginocchiò tra le gambe aperte e prese a massaggiare la zona pelvica, controllando la dilatazione.
Le contrazioni si fecero sempre più ravvicinate. Leda aveva afferrato una mano di Miro e la mordeva ogni qualvolta gliene arrivava una. Miro era grato per quel dolore che gli puliva la testa, lo rendeva più lucido e concentrato.
Hope nacque dopo un paio d’ore. Era una bambina bellissima.
Gala la prese, ne pulì il corpo e liberò le vie respiratorie, poi le attaccò la piccola bombola.
La bambina era piccola ma piangeva a squarciagola, sana e forte come non si aspettavano, data la nascita prematura.
Intorno al Rif si formò un capannello di Bats. Leda aveva preso in braccio la sua bambina e guardava le ombre fuori in segno di sfida. Miro le accarezzava entrambe, protettivo.
Gala si sedette vicino a Leda, riprese in braccio la piccola Hope e iniziò ad annusarle la testolina, a baciare le manine. Piangeva di gioia e d’amore. Era nonna, il suo sogno.
Riconsegnò Hope ai genitori e uscì dal Rif. Leda attaccò la bimba al seno gonfio del primo latte. Colostro.
Gala si fermò qualche istante per parlottare brevemente con gli altri Bats che si dileguarono.
Poco dopo, Leda, Miro e la piccola Hope si addormentarono profondamente.
Anche Gala, nella sua amaca, si addormentò profondamente, ma il suo sonno era indotto.
Fu Miro a svegliarsi per primo, angosciato dal fatto che presto sarebbe terminato l’ossigeno della piccola.
Uscì dal Rif un po’ intontito. A terra, vide una bombola. Era quella di Gala.
Istintivamente alzò gli occhi verso l’amaca di sua madre e vide un braccio sporgere, una mano pendere verso il tetto del Rif, chiusa quasi a pugno. Solo due dita erano rimaste aperte, come a benedire quella piccola capanna sottostante. Tutto, in quell’amaca, sembrava aver abbandonato la vita ed essere in un altro dove, in un altro tempo. Miro capì.
Gala si era sacrificata per la piccola Hope, la sua nipotina.
L’aveva presa in braccio e si era riempita gli occhi di quel visino perfetto. L’aveva stretta, ne aveva respirati l’odore e il pianto.
Poi, con un senso di compiutezza, aveva fatto senza esitare il suo più grande gesto d’amore.

Uomini pipistrello – Parte due

Terra

Miro mostrava a Leda e Gala, sua madre, il disegno che aveva fatto con un carboncino. Sembrava quasi una mappa del tesoro.
Una croce indicava un punto, altri simboli segnalavano i terribili Bite, droni di terra pronti a eliminare qualsiasi presenza non riconosciuta, alcuni numeri mostravano i Cop, androidi a scorta dei vagoni di bombole e cibo che ogni mattina, all’alba, erano depositati all’ingresso delle fogne, luogo dove i Bat vivevano. Meglio, sopravvivevano.
Due rette parallele contrassegnavano il percorso che faceva la motrice con al seguito i vagoni. Per la maggior parte, il percorso era sotterraneo. Nessun umano si occupava della distribuzione. Il primo lo s’incontrava nella stazione di ricarica: esattamente sulla croce, luogo da dove il treno partiva e tornava.
Lì si prelevava elettricità. I Notabili potevano farlo, avevano autoblindo generatori. Loro, i Bats, no.
Un notabile alla volta, dopo il riconoscimento, conduceva il proprio mezzo al tappeto di ricarica: qualche istante e poteva ripartire con il pieno. Tutto nella massima sicurezza, protetto dai feroci Bite e dagli altrettanto spietati Cop. Nessuno si sarebbe mai sognato di fare un colpo in quel luogo. Miro sì.
L’intento era di arrivare alla stazione nascosto in un vagone. Sotto la giacca avrebbe custodito il Kill. Ne aveva sperimentato più e più volte l’efficacia: emetteva ultrasuoni che inducevano qualche secondo di confusione ai Cop così come ai Bite. Poco tempo, ma poteva bastare per saltare dentro un autoblindo, puntare un bastone al naso di un Notabile e ripartire verso il nuovo deposito di ossigeno. Lì doveva rubare cento bombole per Hope, e tornare nelle fogne. Cento bombole per il suo bambino che sarebbe nato tra poche settimane. Forse prima: Leda aveva avuto contrazioni e perso il tappo.
Per fortuna, gl autoblindo erano protetti da uno scudo di sorveglianza. Una volta dentro, si era al sicuro.
Gala e Leda osservavano la mappa. Tutto sembrava semplice. Tutto era ragionevolmente impossibile. Tutto sarebbe avvenuto il giorno dopo.

La luce dell’alba illuminava a stento l’ingresso della fogna. Miro poteva vederne i contorni perché un buco mai chiuso lasciava penetrare raggi di luce giallastra. Non era per dimenticanza che quella breccia nel terreno era stata lasciata. No. Semplicemente serviva a ferire gli occhi dei Bats durante la consegna. Loro potevano muoversi solo di notte. Il giorno non doveva appartenergli.
Miro aveva gli occhi protetti dalle bende velate che sua madre aveva preparato. Stava nascosto in un anfratto della roccia, schiacciato contro la parete. La terra sudava gocce nere che gli penetravano nel collo della giacca. Le sentiva scivolare giù per la collottola. Alcune avevano raggiunto le sue mani. Era fango. Fango e terra, terra e fango. Dal fango, i Bats recuperavano l’acqua. Dalla terra nulla. Era completamente sterile. Miro, a testa bassa, ne guardava l’aspetto. Era come sabbia nera coagulata dal grasso acido caduto dal cielo.
Tempo addietro, una pioggia mefitica aveva causato l’apocalisse e l’atmosfera ne era ancora pregna. Perciò l’ossigeno scarseggiava. Attribuivano la causa al fato, in realtà tutti sapevano che era il frutto di diverse esplosioni: gli stati erano corsi al riarmo e qualche pazzo aveva innescato il primo ordigno. In risposta, era partita una seconda bomba, una terza, altre, tante, troppe. Nuvole nere continuavano a levarsi e correre sospinte da venti atomici. La terra aveva sporcato il cielo, il cielo aveva poi restituito alla terra deiezioni vischiose.
Miro sentì il sibilo della cabina muovere l’aria nel condotto.
All’arrivo, i vagoni si ribaltarono velocemente per scaricare e ripartire. Miro accese il suo Kill. Con soddisfazione, vide quei maledetti Bite girare su se stessi come scarafaggi capovolti. Saltò dentro un vagone.
Nel frattempo, si erano ammassati molti Bats, ma nessuno fece caso, presi com’erano a distribuire bombole e cibo. C’era anche Gala tra loro. Seguì il figlio con lo sguardo, la bocca le tremava in una preghiera.
Miro avvertì una piccola spinta: il treno era ripartito. Per fortuna, le pareti dei convogli erano spesse e alte. Supino, espirava in un panno umido per evitare che il calore del fiato fosse rilevato dagli infrarossi. Aveva un buon lasso di tempo prima che le emanazioni del suo corpo saturassero il vagone.
Passarono un paio di minuti, poi il treno iniziò a frenare e si fermò. Una scarica di adrenalina pervase Miro. Si sistemò la benda sugli occhi prima di azionare il Kill. Ancora una volta iniziò a fremere. Senza guardarsi intorno, Miro era saltato fuori ed era corso verso il tappeto di ricarica. Una cinquantina di metri, non di più. Cercò di rimettere il suo Kill nella giacca, ma le mani scivolose lo fecero cadere. Miro non poteva fermarsi per raccoglierlo.
Piombò dentro l’autoblindo di un Notabile che, grasso e roseo, sorrideva al nulla mentre ricaricava il suo mezzo.
La faccia dell’uomo si trasformò in una maschera di terrore quando vide il bastone appuntito vicino alla cannula. Come d’istinto alzò le mani, ma Miro fu più veloce, gliene prese una e gli girò il braccio dietro la schiena. Poi intimò: «Input coordinate». Aveva indicato il simbolo da mostrare al lettore ottico. Il Notabile aveva obbedito e autorizzato la scansione. Il mezzo partì veloce.
Miro aveva lanciato un’occhiata in direzione del suo Kill. Stava ancora fremendo, così come parevano tremare i Bite e i Cop tutt’attorno. Si chiese come avrebbe fatto senza di lui al deposito. Sperava che il Notabile, sotto minaccia, avrebbe collaborato.
«Se aiuti, no mal», gli aveva sibilato nell’orecchio. L’uomo aveva annuito terrorizzato. I suoi vestiti candidi avevano vistose macchie di terra.

Non era quello il problema.

Segue parte 3 in ‘Tempo’

 

Uomini pipistrello. Prima parte

Uomini pipistrello – Parte 1
Aria
La luce del fuoco illuminava i volti scavati e neri di fuliggine delle tre figure che sembravano assorte in una meditazione penosa. Ognuna di esse respirava lentamente attraverso le cannule delle bombole messe a disposizione dal Governo. Per loro, Bats, uomini pipistrello, era prevista una quantità di ventiquattro ore. Non un secondo di più. Bisognava stare attenti, centellinare il fiato. Era perciò, ad esempio, che era loro vietato avere nomi più lunghi che quattro lettere. Solo i Notabili potevano arrivare fino a sei. C’erano molte altre cose vietate ai Bats e permesse ai Notabili. Come avere un figlio. Ai ricchi ne era concesso uno per coppia.
Si chiamavano Bats, perché come pipistrelli vivevano e a questi, ormai, assomigliavano.
Abitavano le fogne di una metropoli pressoché abbandonata. Tutte le città si erano svuotate di gente. Morivano, semplicemente.
Gli alti grattacieli erano stati trasformati in orti o allevamenti.
Molto cibo era per i notabili, poco per gli uomini pipistrello. Come l’ossigeno, che scarseggiava di giorno in giorno.
Non per i notabili che addirittura facevano feste, si ubriacavano d’aria.
I Bats potevano girare solo di notte e solo nei limiti segnalati da cartelli fluorescenti, lontano dai quartieri alti. Di giorno, vivevano nelle tubature e passavano la maggior parte del tempo a dormire in amache che pendevano dal soffitto. In alto, si poteva respirare meglio. Prima di ritirarsi nei giacigli appesi, disseminavano il terreno di trappole per topi. Quella carne schifosa andava ad aggiungersi al cibo scarso fornito, una volta il giorno, insieme all’ossigeno.
Tutto, in quei recessi bui, era nero per via della fuliggine. Volte nere, amache nere, facce nere.
In quel momento, dove fuori era mattino, tre persone stavano parlando davanti a un fuoco celato sotto pochi teli. Avevano un problema maggiore della carenza di ossigeno o di cibo: Leda, la donna più giovane, era incinta. Al suo fianco, Miro, padre del bambino. Di fronte, Gala, madre di Miro.
Era semplice nascondere la gravidanza di una Bat. Nessuno veniva mai a fare controlli così specifici. Piuttosto mandavano droni per contare i capi. Tante bombole quante teste.
Il problema veniva dopo la nascita.
Leda, Miro e Gala avevano lungamente sperato nella coincidenza che Tom morisse a ridosso del parto. Ma il vecchio se n’era andato troppo presto e, al momento, nessun altro sembrava avere intenzione a tirare le cuoia.
Se Tom fosse morto con qualche settimana di ritardo, avrebbero praticato un cesareo: il capo del vecchio passava sul neonato.
Lo avrebbero chiamato Hope, speranza, sia fosse stato maschio, sia femmina.
Era da molto che non nascevano bambini Bats. Nessuno voleva una bocca in più da sfamare e da far respirare: Leda, Gala e Miro dovevano sbrigarsela da soli.
«Nuovo deposito tangenziale nord», diceva sottovoce Miro, attento a dosare le lettere.
«Bite», aveva risposto Leda accarezzandosi la pancia ormai voluminosa. Era bella, Leda, era meraviglioso il suo sguardo azzurro, amorevole, tanto da illuminare le anime di Miro e Gala.
I Bite erano droni di terra. Viaggiavano a duemila chilometri orari intorno ai depositi di ossigeno. La forma ricordava uno scarafaggio e avevano antenne che potevano cogliere movimenti a centinaia di metri, terra o cielo. Volatilizzavano ogni cosa o persona non riconosciuta. Chi era intercettato, aveva dieci secondi di tempo per fornire matricola e riconoscimento facciale. I Bats avevano tutti lo stesso numero: 111. Fine sicura. Nessuno andava per il sottile se moriva un Bat.
«Rapirò notabile», aveva detto Miro. Ormai le frasi erano tagliate, ridotte al minimo. Si parlava mentre si espirava. Le voci strozzate erano sempre più simili agli stridi dei pipistrelli.
«Notabite», aveva sussurrato Gala. Gala era vecchia, quasi cinquant’anni. Diventava nonna. Il suo sogno. Ciò che intendeva per notabite era che anche i notabili avevano al loro seguito almeno un Bite.
Miro si alzò lentamente. I muscoli tendevano ad atrofizzarsi e i tendini ad allungarsi. Le braccia, le gambe lunghe e sottili, sembravano lanciarsi dal breve busto. Sempre più pipistrelli senz’ali.
Camminava piano, Miro, attento a non svegliare gli altri. Si era fermato in prossimità del loro rifugio: tre pareti e il soffitto in telo agricolo delimitavano l’area a loro disposizione. Rif, li chiamavano ed erano meno che capanne. Il loro era di tre metri per tre. Ogni Bat aveva un metro a disposizione. Se si consociavano, potevano sommare i metri. I Rif erano ricoveri e latrine al tempo stesso. Nei secchi si facevano i bisogni, con la cenere ci si lavava, a terra si curavano i malati. In caso di necessità, nei Rif era addirittura possibile farsi operare da qualche chir. Miro era il chir che aveva operato il vecchio Tom. Aveva sperato di allungargli la vita sino alla nascita di Hope. Ma l’uomo era morto quando Leda era ancora alla trentesima settimana. Troppo presto.
Miro tornò dalle donne con un involto nelle mani: «Kill bite», aveva detto scostando i lembi della stoffa sporca. Le donne guardarono l’oggetto. Sembrava un piccolo armadillo argentato. Sul dorso, si riflettevano i bagliori del fuoco.
Miro fece cenno di seguirlo. Andarono verso una breccia nella parete nera. La luce entrava diafana, ma lo stesso ferì i loro occhi. Miro liberò il piccolo robot dopo avergli assegnato le coordinate del rione di ricchi più vicino.
Il Kill era rientrato dopo un po’, illeso. Non era stato intercettato. Incredibile.
Le donne esultarono silenziose. Il sorriso di Leda aveva svelato due piccole fossette sulle guance.
Qualcuno si era svegliato e aveva iniziato a protestare verso di loro: ancora attivi, rubavano ossigeno.
«Ora dormir», disse Gala indicando le amache. L’indomani Miro avrebbe studiato un piano dettagliato. Aveva già messo da parte un foglio di carta, una rarità ottenuta in cambio di una tracheotomia.
Contava di arrivare al nuovo deposito e rubare cento bombole: sarebbero bastate al bambino per un anno intero. Nel frattempo, qualche Bat sarebbe morto.
Non era quello il problema.

Segue parte 2 in ‘Terra’

Uomini pipistrello

La luce del fuoco illuminava i volti scavati e neri di fuliggine delle tre figure che sembravano assorte in una meditazione penosa. Ognuna di esse respirava lentamente, attenta a dosare l’ossigeno nelle bombole messe a disposizione dal Governo. Per loro, Bats, uomini  pipistrello, era prevista una quantità di ventiquattro ore. Non un secondo di più. Bisognava stare attenti, centellinare il fiato. Era perciò, ad esempio, che era loro vietato avere nomi più lunghi di quattro lettere. Solo i Notabili potevano arrivare fino a sei. C’erano molte altre cose vietate ai Bats e permesse ai notabili. Come avere un figlio. Ai ricchi ne era concesso uno per coppia.

Si chiamavano Bats, perché come pipistrelli vivevano e a questi, ormai, assomigliavano.

Abitavano le fogne di una metropoli pressoché abbandonata. Tutte le città si erano svuotate di gente. Morivano, semplicemente.

Gli alti grattacieli erano stati trasformati in orti o allevamenti.

Molto cibo era per i notabili, poco per gli uomini pipistrello. Come l’ossigeno, che scarseggiava di giorno in giorno.

Non per i notabili che addirittura facevano feste, si ubriacavano d’aria.

I Batsi potevano girare solo di notte e solo nei limiti segnalati da cartelli fluorescenti, lontano dai quartieri alti. Di giorno,vivevano nelle tubature e passavano la maggior parte del tempo a dormire in amache che pendevano dal soffitto. In alto, si poteva respirare meglio. Prima di ritirarsi nei giacigli appesi, disseminavano il terreno di trappole per topi. Quella carne schifosa andava ad aggiungersi al cibo scarso fornito una volta al giorno insieme all’ossigeno

Tutto, in quei recessi bui, era nero per via della fuliggine. Volte nere, amache nere, facce nere.

In quel momento, dove fuori era mattino, tre persone stavano parlando davanti a un fuoco celato sotto pochi teli. Avevano un problema maggiore della carenza di ossigeno o di cibo: Leda, la donna più giovane, era incinta. Al suo fianco, Miro, padre del bambino. Di fronte, Gala, madre di Miro.

Era semplice nascondere la gravidanza di una Bat. Nessuno veniva mai a fare controlli così specifici. Piuttosto mandavano droni per contare i capi. Tante bombole quante teste.

Il problema veniva dopo la nascita.

Leda, Miro e Gala avevano lungamente sperato nella coincidenza che Tom morisse a ridosso del parto. Ma il vecchio se n’era andato troppo presto e, al momento, nessun’altro sembrava avere intenzione a tirare le cuoia.

Se Tom fosse morto con qualche settimana di ritardo, avrebbero praticato un cesareo: il capo del vecchio passava sul neonato.

Lo avrebbero chiamato Hope, speranza, sia fosse stato maschio, sia femmina.

Era da molto che non nascevano bambini Bats. Nessuno voleva una bocca in più da sfamare e da far respirare: Leda, Gala e Miro dovevano sbrigarsela da soli.

«Neo dep tanord», diceva sottovoce Miro, attento a dosare le lettere. Un nuovo deposito presso la tangenziale nord, voleva significare.

«Bite», aveva risposto Leda.

I Bite erano droni di terra. Viaggiavano a duemila chilometri orari intorno ai depositi di ossigeno. La forma ricordava uno scarafaggio e avevano antenne che potevano cogliere movimenti a centinaia di metri, terra o cielo. Volatilizzavano ogni cosa o persona non riconosciuta. Chi era intercettato, aveva dieci secondi di tempo per fornire matricola e riconoscimento facciale. I Bats avevano tutti lo stesso numero: 111. Fine sicura. Nessuno andava per il sottile se moriva un Bat.

«Rap notab», aveva detto Miro intendendo ‘rapire un notabile’. Ormai le parole erano tagliate, i verbi omessi dove possibile. Si parlava mentre si espirava. Le voci strozzate erano sempre più simili agli stridi dei pipistrelli.

«Notabite», aveva sussurrato Gala. Gala era vecchia, quasi cinquant’anni. Diventava nonna. Il suo sogno. Ciò che intendeva per notabite era che anche i notabili avevano al loro seguito almeno un Bite.

Miro si alzò lentamente. I muscoli tendevano ad atrofizzarsi e i tendini ad allungarsi. Le braccia, le gambe lunghe e sottili, sembravano lanciarsi dal breve busto. Sempre più pipistrelli senz’ali.

Camminava piano, Miro, attento a non svegliare gli altri. Si era fermato in prossimità del loro rifugio: tre pareti e il soffitto in telo agricolo delimitavano l’area a loro disposizione. Rif, li chiamavano ed erano meno che capanne. Il loro Rif era di tre metri per tre. Ogni Bat aveva un metro a disposizione. Se si univano, potevano sommare i metri. I Rif erano ricoveri e latrine al tempo stesso. Nei secchi si facevano i bisogni, con la cenere ci si lavava, a terra si curavano i malati. In caso di necessità, nei Rif era addirittura possibile farsi operare da qualche chir. Miro era il chir che aveva operato il vecchio Tom. Per questo sperava di portare avanti la sua esistenza sino alla nascita di Hope. Ma l’uomo era morto quando Leda era ancora alla trentesima settimana. Troppo presto.

Miro tornò dalle donne con un involto nelle mani: «Nobit», aveva detto scostando i lembi della stoffa sporca.

Le donne guardarono l’oggetto che Miro teneva. Sembrava un piccolo armadillo argentato. Sul dorso, si riflettevano i bagliori del fuoco.

Miro fece cenno di seguirlo. Andarono verso una breccia nella parete nera. La luce entrava diafana, ma lo stesso ferì i loro occhi. Miro liberò il piccolo robot dopo avergli assegnato le coordinate del rione di ricchi più vicino.

Il nobit era rientrato dopo un po’, illeso. Non era stato intercettato. Incredibile.

Le donne esultarono silenziose.

Qualcuno si era svegliato e aveva iniziato a protestare verso di loro: ancora attivi, rubavano ossigeno.

«Nana», disse Gala indicando le amache: ora di dormire. L’indomani avrebbero studiato un piano. Miro aveva già messo da parte un foglio di carta, una rarità ottenuta in cambio di una tracheotomia.

Servivano coordinate precise per fiondarsi su qualcuno, usarne i riferimenti e rilasciarlo dopo il colpo al dep: cento bombole bastavano al bambino per un anno intero. Nel frattempo, qualche Bat sarebbe morto.

Non era quello il problema.

La vita come il fuoco

Alberto sedeva elegantemente sulla poltrona di seta, souvenir di qualche viaggio di sua madre, la Contessa. La donna aveva almeno una mezza dozzina di cognomi, ma per tutti, era semplicemente la Contessa Madre. Anche per Alberto.
Di fronte a lui, Morando, l’amico di sempre: nobile, ricco, vizioso, dedito all’ozio e all’arte della conversazione salace. Se ne stava annoiato, steso sul canapè di pregiata fattura, sul quale pare che Lincoln sognò le premesse del XIII emendamento: l’abolizione della schiavitù.
Alberto si alzò per rintuzzare il fuoco. Nel grande camino si levarono faville come lucciole rosse deliranti. Dalla legnaia in argento prese un ciocco e lo gettò sulle braci producendo altri barbagli e un suono sordo e stridente di tizzoni smossi. Come affamato, il camino prese ad ardere con schiocchi riconoscenti.
Morando rivolse lo sguardo velato dall’oppio all’amico: «Mio caro Alberto, non pensi che la vita sia come il fuoco. Occorre sempre alimentare le giornate con fiamme. Grandi fiammate, altrimenti ti spegni. E presto diventi cenere».
Alberto prese qualche secondo prima di rispondere. Tornò a sedersi sulla poltrona sollevando leggermente i pantaloni di vigogna per accavallare le gambe.
«Piuttosto mi chiedo se sia meglio una vita, un fuoco, che bruci costantemente. Se pensi che siano le fiamme a dare calore, allora rischi di fare solo falò di saggine che crolleranno senza nemmeno scaldare. Non è forse meglio un buon ceppo, pesante e secco, che lentamente si consumi in un quieto calore?».
Morando si ravviò il ciuffo riccio che gli cadeva su un occhio. «È per questo che hai deciso di prendere moglie la prossima primavera?», gli chiese con un tono sarcastico.
Alberto incrociò le mani afferrandosi le ginocchia. Era per quello?, si chiese. Il suo matrimonio era combinato dalle famiglie. Non aveva ancora conosciuto la futura sposa. Lo avrebbe fatto quella sera stessa. Nel grande salone fervevano i preparativi per la cena di gala e danze a seguire.
«Lo spero tanto», rispose Alberto più a se stesso che non all’amico.
Improvvisamente, udirono un rumore d’auto. Lo stridore dei freni e lo sbattere di portiere incuriosì i due amici.
Le voci dei domestici si sovrapposero a quella della Contessa Madre, la quale, dopo qualche istante, aprì le porte della stanza del camino, tossicchiando per l’intrusione.
I ragazzi si girarono e videro la donna con le guance paonazze e gli occhi in fiamme. Dietro di lei s’intravvedeva una figura esile. Se non fosse stato per i lunghi capelli neri, si sarebbe detto che fosse un ragazzino. Era invece una donna, vestita da cavallerizza, con giacca, pantaloni e cappello in tweed.
«Alberto, mio caro, ho il piacere di presentarti la marchesina del Brenno degli Infant…».
La ragazza si fece avanti. Ringraziò la donna con un inchino che aveva qualcosa di voluttuoso e sarcastico al tempo stesso.
Alberto e Morando rimasero a fissare come statue colei che sarebbe stata la futura sposa.
Non era solo la bellezza che rendeva quella donna speciale. Erano piuttosto i suoi occhi, vivi, sfrontati, divertiti. E le fossette. Due fossette sulle guance che delimitavano un sorriso aperto, franco.
«Cecilia», si presentò avanzando nella stanza con movenze sinuose. Lo faceva apposta, si capiva. La Contessa Madre era così scandalizzata dall’esser prossima a una crisi isterica.
Alberto si alzò all’istante per protendere la mano. Quando strinse quella piccola di Cecilia, percepì una lieve scossa. Morando si era messo seduto senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Contessa Madre, può lasciarci soli qualche minuto?», chiese Alberto sperando che uscisse di scena per darsi una calmata.
«D’accord mon cher, a bientôt petit marquise. Le diner sera servi d’ici dans un peu plus d’une heure». Faceva sempre così la contessa madre. Se qualcosa la turbava, usava il francese.
E certo, una futura nuora che si presentava sola, in largo anticipo e senza abito da sera era quantomeno disdicevole. La Contessa Madre girò impettita lasciando che il domestico richiudesse le porte.
«Cecilia, permettetemi di presentarvi Morando, mio caro amico e fine intellettuale». Cecilia si sfilò i guanti. Alberto nemmeno si era reso conto di aver stretto una mano guantata.
Morando fece per alzarsi dal canapè ma Cecilia lo bloccò con un gesto assai elegante.
«Oh, rimani pure seduto. Mi tratterrò pochi istanti», disse Cecilia dirigendosi verso il camino e continuando a parlare rivolgendo loro la schiena: «Alberto, sono arrivata in anticipo per farti una domanda, una sola. Poi ripartirò e forse, in base alla risposta, tornerò per la soiree».
I due erano divertiti e paralizzati al tempo stesso.
Un’amazzone bellissima era piombata nelle loro vite rompendo qualsiasi schema del bon ton aristocratico.
«Non mi resta che tentare la sorte, Cecilia», rispose Alberto guardandola con un ardore che superava le fiamme del camino».
Cecilia si appoggiò alla trave e senza staccare gli occhi dal fuoco chiese: «Supponiamo che la vita sia come questo fuoco, tu come vorresti ardesse?».
Alberto rimase perplesso. Si chiese se la sua affermazione di prima fosse quella appropriata. Pensò di no, che non lo fosse.
E nemmeno quella di Morando lo era.
Rispose dopo qualche secondo: «Divampante e ardente di mattino, fiammeggiante e vivace nel pomeriggio, quieto e struggente la sera».
Cecilia sorrise. Alberto avrebbe voluto prendere quel viso tra le mani e baciare le due fossette.
«Tornerai?», le chiese come inebetito.
Cecilia si rimise i guanti senza smettere di sorridere. Si voltò e uscì dalla stanza salutando con un silenzioso cenno del capo. Il cuore di Alberto la seguì.
Quando la cena era ormai servita, Alberto avvilito, la Contessa madre inviperita e Morando contento, i domestici richiamarono l’attenzione per le presentazioni dei nuovi arrivati: «Il Marchese e la Marchesa del Brenno degli Infanti e loro figlia, la Marchesina».
Cecilia pareva splendere.
Alberto si alzò di scatto facendo cadere la sedia. Sentì che il suo cuore era tornato.

Canto di mondine

Giovani donne

chine sul confine

tra acqua e terra,

tra cielo e inferno.

Scacciano cantando

l’ardore del sole sulle membra

il fastidio degli insetti

i crampi alle caviglie

il dolore di una schiena curva

Le loro voci innalzano

il ceto di appartenenza

l’unità di classe

la fierezza del lavoro

che unisce e mai divide

come acqua benedetta

Nero è il fiume

Maria stava lavando i panni nel torrente che scendeva impetuoso dalle colline per poi allargarsi giù a valle dove avevano sistemato i sassi per strofinare la biancheria e batterla.

A Maria piaceva fare la lavandaia. Quasi tutte le sue amiche preferivano andare nei campi a fare le mondine.

A Maria, piacevano gli odori e i rumori che sentiva mentre lavorava. Si divertiva ad attribuirgli colori, come se lei stessa appartenesse a un quadro.

Sapone di Marsiglia? Bianco

Erba schiacciata? Verde

Narcisi in fiore? Giallo

Vento che asciuga i panni? Azzurro

Pietra bagnata? Grigio.

Maria era giovane, forte e bella. Promessa sposa, anche se lei mica ci pensava al matrimonio.

Quel giorno d’inverno, Maria aveva le mani rosse e screpolate dal freddo. Faceva fatica a sbattere i panni, ma lo stesso, si distraeva con i colori. Il cielo aveva tonalità antracite e prometteva neve, quella grossa.

Avrebbe steso i panni in casa, in solaio. Suo padre aveva sistemato una stufa ricavata da vecchi mattoni delle case distrutte dalla guerra. Guerra? Marrone scuro, si diceva Maria, come le camicie dei tedeschi che si vedono sempre più di frequente in paese.

Lei non ci capiva nulla della guerra. Fascisti, nazisti, alleati, le sembravano figure distanti, come i rombi degli aerei che spesso passavano nelle notti.

Improvvisamente il vento condusse a Maria un rumore di passi, cauti, attenti a non spaventare.

«Come ti chiami?», le chiese una voce maschile. Maria pensò al colore del suono. Rosso. Come quello che si affacciava sul suo volto.

Si girò di scatto senza lasciare il panno che stava lavando.

Di fronte a lei, in piedi, un ragazzo magro ma bellissimo. Non vestiva divise e portava un fucile appeso alla spalla.

«Ciao Maria», il ragazzo si sedette a fianco, il fucile in grembo, «hai da mangiare?».

Forse il tono di voce, forse quel sorriso così aperto, forse quegli occhi grigi come il cielo, Maria si sentì subito a proprio agio.

«Non ora, domani se vuoi. Tu come ti chiami?».

«Pietro, nome di battaglia. Sono un partigiano».

Maria tacque e si concentrò sul bucato.

Pietro rimase a guardarla mentre lavorava. Ogni tanto le parlava. Raccontava storie di guerra e Maria pensava che Pietro se le inventasse per fare colpo su di lei. Questo le piaceva. Come alcune parole, tipo ideali. Ideali? Maria se li immaginava di tutti i colori, come l’arcobaleno.

Sapeva che dai monti, ogni tanto, scendeva qualche partigiano. «Non immischiatevi», aveva tuonato suo padre, rivolgendosi soprattutto al figlio maggiore, benché più piccolo di Maria, «la nostra guerra dobbiamo combatterla per avere da mangiare e da dormire. I padroni non gradiscono la politica, soprattutto quella dei partigiani. Se ci cacciano dalla cascina, hai voglia a riempirti la pancia con gli ideali. Testa piena e pancia vuota!».

Il giorno dopo Maria tornò al fiume. Pietro arrivò dopo un po’ di tempo.

Maria allungò al ragazzo il pezzo di pane che si era portata. Pietro ne prese una parte e il resto lo infilò nel tascapane: «Per i compagni», le disse.

Da quella volta, Pietro arrivava sempre al fiume dopo di lei e parlava, parlava, parlava.

La primavera sembrava affacciarsi anzitempo. Le piogge rendevano tutto più difficile. Maria cercava ogni scusa per andare giù al torrente. E ancora, Pietro arrivava sempre.

Un giorno le prese la mano. Maria ne ebbe vergogna. La pelle era screpolata e ruvida. Le mani di Pietro erano calde e morbide. Si capiva che era di buona famiglia, forse ricco, addirittura.

Un giorno si baciarono. I baci divennero sempre più carichi di desiderio.

Quando fecero l’amore, la primavera aveva stanato le prime margherite. Alcuni iris si allungavano lungo le sponde del fiume.

Maria tornò a casa ebbra, ubriaca di tanto amore, tanta passione. Pietro era stato molto dolce, dolce e impetuoso al tempo stesso, proprio come il torrente dove lavava i panni.

Nella notte si sentirono gli aerei volare. Di solito passavano per bombardare in città. Quella notte no. Le bombe cadevano fischiando non lontano dalla cascina. Tutti scesero nelle cantine per ripararsi. In lontananza, arrivavano anche echi di spari.

Il giorno dopo, il sole splendeva come sempre, ignaro della guerra.

Maria corse al fiume preoccupata per Pietro.

Lo vide in lontananza. Era arrivato prima.

Stava seduto contro un albero, il capo chino su un lato.

Dorme, pensò Maria, poi urlò: «Stupido! Dormi con i piedi dentro l’acqua?».

Pietro non rispose. Non poteva e non l’avrebbe mai più fatto.

Era stato ferito nell’imboscata. I fascisti o forse i nazisti, che stavano indietreggiando.

Maria si avvicinò e vide il sangue. Tanto sangue. Era sceso lungo l’erba colando verso il fiume. Si era rappreso, formando un rivolo scuro.

Prima che le gambe la facessero crollare in ginocchio lasciandola senza più colori nella testa, Maria pensò Fiume nero.

 

Maifreda da Pirovano. La Papessa.

Abbazia di Mirasole,  febbraio 1300.

 

Frate Candido correva alzando ora le mani, ora l’orlo del saio per non inciampare.

Nei corridoi rimbombavano lo scalpiccio dei suoi sandali e l’ansimare del suo fiato che gli spegneva la voce in gola.

Quando si fermò davanti alla porta dell’Abate, deglutì per recuperare la lucidità. Per un attimo, alzò lo sguardo al cielo recitando le prime quattro strofe del Pater Noster. Lo faceva sempre quando chiedeva l’aiuto di Dio.

Bussò alla porta e rimase in attesa. Una voce chiara e ferma lo invitò a entrare.

«Magister», esordì Fra Candido saltando ogni preambolo canonico, «l’acqua!».

Il giovane Abate rimase fermo, in piedi davanti alla sua scrivania. Attendeva che il monaco si riprendesse. Era evidentemente in preda all’ansia.

Passò qualche secondo, poi Fra Candido disse ancora: «L’acqua dei pozzi!», interrompendosi subito dopo.

Il giovane Abate lo esortò: «Ebbene?».

«Avvelenata! Qualcuno ha gettato pezzi di carogna in ognuno di essi!».

Sul viso dell’Abate si disegnò un’espressione profonda, lo sguardo di chi cerca prima le domande, poi le risposte. Era entrato nell’ordine degli Umiliati diversi anni prima. Subito, aveva percepito l’energia infusa dagli ideali ispirati a una profonda religiosità. Ora era incaricato di condurre l’Abbazia e di gestirne l’economia basata principalmente sulla produzione di feltro. L’acqua era dunque fondamentale.

Ma non era questo che aveva turbato tanto Fra Candido, e non era a questo che stava pensando il giovane Abate mentre rifletteva a capo chino con la punta delle dita unite sotto il naso.

«Chi mai può aver fatto questo?», chiese quasi a se stesso.

«Non lo so», rispose Fra Candido aprendo le braccia per poi lasciarle cadere.

L’Abate sospettava che l’obiettivo di tale gesto fosse impedire la visita prevista l’indomani: Maifreda da Pirovano, detta la Papessa. Donna nobile, di rara intelligenza, suora dell’ordine degli Umiliati. Professava i principi di Guglielma di Milano, altrettanto nobildonna in attesa di beatificazione per i miracoli compiuti. Prima di morire, Guglielma stessa elesse Maifreda sua Vicaria. Ecco perchè Papessa.

L’Abate decise di concentrarsi sul problema più imminente: l’acqua dei pozzi inutilizzabile. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a sentire i discorsi della Papessa.

In seguito, si sarebbe occupato di trovare l’autore del misfatto.

L’Abate guardò per un istante fuori dalla finestra. Le campagne intorno all’Abbazia erano striate di bianco e di nero. Il cielo aveva quella luce tenue e rosata dell’alba invernale. Si sedette alla scrivania. A Fra Candido parve si fosse allontanato di mille chilometri.

«Fratello Candido, dai ordine di recuperare quante più pertiche di feltro possibili. Legatele assieme e gettatele nei pozzi dopo averle affrancate ai bordi».

Fra Candido rimase immobile. Gettare il loro prezioso feltro nei pozzi? E perché?

Trasalì quando il Priore batté un pugno sul piano della scrivania: «Presto, Fratello, fai come ti dico». Il tono era benevolo e Fra Candido uscì di corsa seguito dalla benedizione del priore che gli scaldò il cuore.

Il feltro prosciugò i pozzi, ne pulì i fondi, i fianchi e bonificò la sorgente. L’acqua tornò potabile.

L’indomani la Papessa arrivò all’Abbazia di Mirasole con il suo nutrito seguito. Celebrò messa, predicò la beatificazione di Guglielma da Milano. Usò parole che non lasciavano fraintendimenti: Cristo è stato figlio di Dio, sua incarnazione maschile. Guglielma e stata figlia di Dio, sua incarnazione femminileElla risorgerà.

I frati, le monache dell’ordine degli Umiliati la ascoltavano attenti e rapiti. Tutti tranne uno. Colui che riportò le parole di Maifreda al tribunale inquisitorio. Divenne sorvegliata speciale.

Il 10 aprile 1300, Pasqua, Maifreda, in abiti sacerdotali, celebrò Messa solenne secondo le liturgie.

Morì nello stesso anno, a settembre, dopo un processo che la vide colpevole di eresia e per questo condannata al rogo.

Il giovane Priore conservò per sempre nella memoria il significato delle parole che Maifreda da Pirovano gli aveva sussurrato: Dio è uomo, Dio è donna, Dio è tutto.

Nota dell’autrice: i fatti sopra descritti relativi all’Abbazia di Mirasole sono frutto di pura fantasia. Il resto è liberamente ispirato dalla storia.

 

Tilda

Milano 1863

 

Il landò si fermò davanti al palazzo della famiglia De’ Pozzi.

Domenico Albinò scese e pagò il vetturino che ripartì con uno schiocco delle labbra scomparendo nella nebbia grigia e densa di fine autunno. Nella via, i contorni delle case parevano dissolversi. Altro non restava che lo scalpitio degli zoccoli in lontananza.

Domenico era un giovane matematico catanese molto istruito e avrebbe presto ottenuto un incarico nella neonata università di Milano. In realtà, ambiva a trovare fondi per le sue ricerche sulla fisica sperimentale, studi che condivideva con un gruppo di scienziati provenienti da tutta Italia.

Nel frattempo, si guadagnava da vivere come precettore, stimatissimo dalla ricca borghesia milanese.

Domenico si spazzolò la cappa con le mani, calcò il cappello sulla testa e picchiò il battente contro il legno massiccio del portone. Gli fu aperto da un lacchè al quale si presentò consegnandogli un biglieto.

«Buongiorno dottore, prego, vogliate seguirmi», disse il valletto con una voce atona, come se la sua presenza dovesse essere solo verbale, non fisica.

Attraversarono un giardino interno, alcune siepi di osmanto profumavano l’aria. Le aiuole traboccavano di crisantemi.

Il domestico condusse Domenico nello studio dove lo attendeva il signor Dè Pozzi, un uomo elegante, austero e che aveva l’aria delle persone granitiche, saldamente aggrappate ai principi dei propri padri e dei padri dei propri padri. Un uomo d’altri tempi, pensò Domenico.

Il signor Dè Pozzi lo accolse quasi accigliato, poi ostentò una certa cordialità. Domenico ne fu stupito.

«Caro dottore Albinò, vorrei offrirvi dell’ottimo Marsala, appena arrivatomi dalla Sicilia. Colore a calore a riscaldare il freddo di queste giornate», gli aveva detto dopo le presentazioni . Domenico accettò di buon grado, anelando ai profumi della propria terra.

Il signor Dè Pozzi indicò a Domenico una poltrona davanti al camino, si diresse verso la scrivania e tornò con due calici. Brindarono, ma il signor Dè pozzi  non si sedette, piuttosto si affrancò alla mensola del camino tendendo un braccio .

Domenico notò nell’uomo una certa angustia che gli negava la pace.

Il signor Dè Pozzi si schiarì la voce. Questo fu l’impulso iniziale di un discorso che pareva dovesse strozzarlo.

«Dottor Albinò, sono qui a ringraziarvi per aver accettato l’incarico di precettore per mio figlio Gianrico», disse tutto d’un fiato.

Domenico stava rispondendo che era un piacere, ma il signor Dè Pozzi lo zittì con un gesto della mano, come per dire mi lasci parlare.

«Ho la fortuna di avere due figli, Gianrico e Tilda. Il primo compirà otto anni, la seconda ne ha appena sei».

Domenico ascoltava sorseggiando il marsala, il signor Dè Pozzi, invece, non aveva ancora assaggiato il suo.

«Gianrico è … come dire … svogliato nelle questioni d’intelletto ma molto dotato nelle questioni di fioretto. Ama praticare l’arte della spada, ma non quella dei libri. In pratica, avrà un osso duro da modellare», aveva continuato l’uomo.

Di nuovo fece una piccola pausa e finalmente assaggiò il liquore.

Domenico rispose: «Spero di essere all’altezza ma sarete voi stesso a giudicare non appena concluso il primo semestre».

Il Signor Dè Pozzi scosse la testa per annuire, poi disse: «In realtà, non è su questo che voglio mettervi in guardia, bensì …». L’uomo si interruppe come se fosse affaticato o combattuto da forze contrastanti, poi riprese: «Tilda, al contrario, è come posseduta da un demone, da una sete di conoscenza. Ho ceduto alle sue insistenze, permettendole di assistere alle vostre lezioni. Ora me ne dispiaccio. In ogni caso Tilda ha l’ordine di rimanere in silenzio». Il signor Dè Pozzi pareva giustificarsi di fronte a Domenico, il quale era perplesso dalle sue parole.

L’uomo parve avvedersene, così continuò: «Per Tilda abbiamo previsto un percorso di devozione. Lei sarà fatta monaca. Ha mostrato molto interesse per la Bibbia, sapete?».

Di nuovo il signor Dè Pozzi si schiarì la voce, che ora usciva determinata: «Vi chiedo, quindi, di non considerare Tilda. Intendo dire che voi sarete il precettore solo di mio figlio maschio. Vi invito caldamente a non rispondere alle domande della bambina e a non impartirle alcun insegnamento».

Benché lo ritenesse ingiusto, Domenico era abituato a vedere le sorelline dei suoi alunni nascoste tra le tende e spiare le lezioni a loro precluse. Assentì chinando il capo.

Non sapeva, Domenico, quanto gli sarebbe stato difficile mantenere la promessa.

Subito dalle prime lezioni, aveva colto negli occhi di Tilda una luce che si accendeva e si spegneva come un faro: era l’interesse seguito dalla delusione.

Quando Domenico domandava a Gianrico di risolvere una semplice operazione, Tilda, seduta in fondo alla stanza, lasciava cadere le mani lungo i fianchi, annoiata. Le dita, però, indicavano sempre il risultato esatto.

Passarono un paio di mesi, durante i quali Domenico lanciava sfide matematiche a Tilda senza che Gianrico potesse capire, incagliato com’era sulle tabelline. Se disegnava sulla lavagna la sequenza di Fibonacci, Gianrico rispondeva: «È una chiocciola!», mentre Tilda gonfiava le guance quasi sbuffando poi indicava il risultato, disegnando silenziosa nell’aria il numero successivo.

Un giorno, Domenico decise di verificare la portata dei suoi sospetti. Propose al piccolo Gianrico un’equazione che solitamente si proponeva a studenti di grado più alto, quindici o sedici anni almeno.

Gianrico non comprese minimamente, Tilda, invece, aveva osservato quasi con ingordigia l’equazione masticando calcoli come se pregasse. Nel giro di pochi secondi alzò la mano. Le sue dita indicavano il risultato esatto.

Domenico trasalì. Ne scrisse un’altra, di pari livello. Gianrico era distratto, agitava le gambe guardando la finestra. Non poteva vedere la sorellina dietro di lui, in piedi, quasi febbricitante, con le mani che mostravano la soluzione.

Tilda aveva in sé un genio, non un demone. Ella aveva un dono che avrebbe portato il mondo verso nuove scoperte.

In seguito, verso il termine di ogni lezione, Domenico approfittava della malavoglia di Gianrico e si concentrava su Tilda impartendole silenziosi insegnamenti e proponendo questioni sempre più difficili. Nel giro di sei mesi, la bambina era in grado di risolvere grattacapi per studenti universitari, ma ciò che affascinava Domenico era la bramosia con cui Tilda li affrontava.

Prima della fine del semestre, Domenico chiese un colloquio con il Signor Dè Pozzi. Si era preparato un lungo discorso, convincente a parer suo, sull’ineluttabilità di mettere il dono di Tilda al servizio dell’umanità.

«Voi non avete rispettato i patti, signor Domenico Albinò, pertanto vi prego di dimettervi dal vostro incarico», disse soltanto il signor Dè Pozzi con il collo che si arrossava dalla rabbia e con un tono che non ammetteva repliche.

Domenico non poté fare di più se non sperare che quella bambina trovasse il modo per affermare le sue capacità. Solo, prima di lasciare la casa, posò sulla cattedra il trattato di fisica che aveva appena pubblicato.

Uscendo, con la coda dell’occhio vide Tilda fiondarsi sul volume.

Le sembrò un topolino che aveva trovato il formaggio.

 

Allitterazione, assonanza, onomatopea

ALLITTERAZIONE

  • Forte il fabbro forgia ciò che ai soldati darà in sorte. Fucili armi e cannoni tra i campi di marte cosparsi di morte.
  • Prima di primavera esiste una stagione mera, un attimo magico, che non è più l’inverno con le sue spoglie membra, ma uno spasmo di doglie che in un alito di vento si coglie.
  • Immagino un mago con occhi da drago, lunghe le unghie per i suoi artifizi, cattura l’attenzione, crea tensione, dal palco un denso fumo appare, come una bianca palude, un effimero lago dove improvvisamente scompare il mago.

ASSONANZA

  • Di notte, i rumori arrivano come da lontane fosse.
  • Stupido che sei, stupido a rigare il tuo viso di lacrime soffocate.
  • Madame de Pompadour, la conoscevi tu?

 

ONOMATOPEA (invento)

  • Scia scia scia sciack, scia scia scia sciack. Nasce un paessaggio dalle mie pennellate.
  • Vrrrr, l’aeroplano arriva… vvvrrr apri la boccuccia.
  • Planf! A me il divano.
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