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Valentina Tereškova

 

Ci sono cose che mi emozionano infinitamente, sono le cose che amo e alle quali non posso dare un solo nome, se non ‘immensità’.

Quando mi sveglio è ancora buio, buio totale. La notte è perfetta, senza luna.

Accendo il lume, bagliori tremolanti s’infrangono sulle pareti nodose e profumate di pino. Nella camera fa freddo, il fiato si addensa come fumo rarefatto. Alla finestra i vetri gocciolano lacrime di condensa.

Mi alzo di scatto, non voglio perdermi lo spettacolo. Ma faccio piano, che sennò mamma si sveglia e mi ricaccia a letto.

Sono già vestita, manca il cappotto che è appeso vicino all’uscio.

Cammino cauta, so quali assi di legno scricchiolano, e io le evito.

Vicino all’ingresso calzo gli stivali, metto la sciarpa, il cappello, i guanti e il cappotto. Sopra lo scialle della notte.

Fuori, la temperatura è scesa sotto i venti gradi. La neve ha una crosta ghiacciata che si spacca ad ogni passo. Mi allontano di qualche metro, avanzo nel giardino antistante la casa.

Mi siedo per terra, affondo un poco. Poi mi sdraio, a occhi chiusi. Il freddo entra nel naso, ma io faccio un gran respiro per trattenere l’emozione. Tra poco aprirò gli occhi e lo vedrò. Il cuore accelera, le guance si scaldano.

Conto fino a tre prima di sollevare le palpebre. Lo sento, è sopra di me,.grande. Infinito.

Uno, due tre.

Il fiato esce dai polmoni. Non riesco a descrivere la gioia, la bellezza.

Il cielo, il cielo è gravido di stelle. Paiono chiamarmi come sirene di Ulisse. La volta ha il colore del cobalto e dello zaffiro, è un tessuto tempestato di brillanti. Allungo la mano, sembra di poterlo toccare. Poi con un dito indico le stelle, accarezzo la via lattea. Immagino di volare come un gabbiano, di girare nello spazio. Io sarò gabbiamo, sussurro, aspettami infinito, che da te arriverò.

Nella casa si accende una luce. Mamma apre la finestra e mi chiama: «Amore, cosa fai lì? Torna che fa freddo, e domani devi andare in fabbrica presto!»

«Arrivo mamma», rispondo.

Mi alzo, gli occhi puntati in alto. Penso: ti prometto che navigherò nell’ infinito siderale.

Il mio nome è Valentina Tereškova, e sono la prima donna nello spazio. Nome in codice čajka, gabbiano.

Donne da favola

Ebbene, miei cari amici, concedetemi una riflessione, qui, tra intimi, nell’atmosfera di queste quattro mura.

Una riflessione sulle donne, sulle femmine, che talvolta, chiamarle così pare pure un po’ dispregiativo.

Per millenni, secoli, decenni le abbiamo confinate nei gradini più bassi della società, delle famiglie patriarcali, degli ambienti lavorativi e persino nelle scuole, a lungo precluse.

Eppure… eppure.. nella narrativa sono spesso le eroine romantiche, le Sante vessate, le eminenze grigie di grandi uomini, le ghostwriter di tante vite.

Soprattutto, sono le protagoniste di ogni favola.

Buone o cattive, belle o brutte, giovani o vecchie.

Prendiamo Biancaneve, per esempio. Ingenua, dolce e incantevole protagonista della fiaba, affiancata suo malgrado dall’altrettanto avvenente madrina. Loro sono i personaggi principali. Mica quel coglione del padre. Perdonate il termine becero, so che vi ha fatto sobbalzare sulle sedie, ma dico, proprio una strega doveva risposare?

E quel fanfarone del cacciatore? «Si signora, faccio io, vado io, ci penso io», e poi se ne torna con le pive nel sacco, che mi fa venire in mente molti… ma lasciamo perdere che sennò va a finire male..

Stendiamo poi un velo sui sette nani. Ometti borderline, se proprio vogliamo dirla tutta. Del resto in giro ce ne sono ben più di sette…

E Cenerentola? ne vogliamo parlare?

Lei, la matrigna, le sorelle, la fata che credo sia turchina, la stessa che salva Pinocchio, tipico esempio di bugiardo. Dicevo, ancora una volta le vere protagoniste sono donne, avvolte in un intreccio pernicioso. Donne che si fronteggiano, in aperto contrasto. E il principe? Ah! Lui. Mah, che dire… quello se ne va in giro con una scarpetta in mano, pronto a sposare la prima che trova con un trentaquattro? Un trentacinque?

Vabbè, qualsiasi considerazione su cappuccetto rosso è un po’ sparare sulla croce rossa. perdonate il cliché ma fa pendant con il colore e la storia. Madre, figlia, nonna: donne fragili ma coese. Gli uomini di questa storia? Un lupo e un cacciatore. Un mangiatore di femmine e uno pronto a sparare sui più deboli. Ah com’è vero Iddio, pare di vedere gente conosciuta.

E poi, altre favole ancora. Che so, la sirenetta, la principessa sul pisello o la bella addormentata nel bosco.

Quest’ultima attorniata da streghe e fate. Donne, donne e ancora donne, in un bouquet profumato e puzzolente di zolfo al tempo stesso. Donne scaltre, ingenue, vendicatrici ma vivaci, vivide, veraci.

Infine lei, Alice, bambina sognatrice di follie, infinitamente divertente, circondata da pazzi, tabagisti, saturnini, bipolari. Eccezion fatta per la regina di cuori. Un po’ isterica, certo, ma al comando di un regno che non c’è, con uomini di carta pronti a cedere col primo alito di vento.

E dire che le favole sono state scritte da uomini!

Macché invidia penis, siamo onesti, qui si tratta di invidia uterus.

Utero, luogo primordiale, culla della vita, primo amore.

È per questo che in ogni uomo alberga una donna.

E in ogni donna, in ogni donna reale, alberga un mondo.

Bronx e castagne – III racconto d’autunno

Bronx e castagne – III racconto d’autunno

New York, anno 1903

In quell’epoca il cuore di New York si espandeva come le pelvi di una baiadera.
Le grandi immigrazioni di inizio secolo depositavano sciami di miserabili che prendevano il posto di ex-miserabili sino ad occupare anche l’ultimo orifizio della città.
Tra questi vi era Delio Morelli che aveva lasciato la fame ed il freddo dell’Appennino modenese per ritrovarli lì, nel Bronx.
Egli abitava al terzo piano, in un’appartamento occupato da una decina di famiglie stipate in pochi vani, qualche gallina libera e molta muffa che si arrampicava sulle pareti umide.
Delio condivideva una stanza con il figlio, la nuora e la piccola nipotina Aurora.
Quel giorno di ottobre il sole del mattino benediva le facciate degli interminabili caseggiati che rigavano il quartiere.
– Nonno Delio! Nonno Delio! Oggi è il mio compleanno!-
– e brava la mia Aurora – disse Delio sorridendo ed allargando le braccia per accogliere il corpicino magro,  – e quanti anni fai piccola mia?-
– cinque nonno!- disse la bimba allargando le dita della manina;
– ed io ti tiro cinque volte le tue treccine!- disse Delio chiudendo tra le sue grandi mai le piccole ciocche.
– E cosa desideri come regalo?-
– mmhhh, cinque castagne! Quelle buone che si comprano vicino allo zoo!-
Di quando in quando il nonno portava Aurora a passeggiare vicino allo zoo del Bronx ed Aurora si fermava sempre ad annusare l’odore delle castagne che arrostivano sul carretto del Greco.
Anche a Delio piaceva sentire quell’odore che lo riportava sulle vie della domenica al suo paese.
– E castagne avrai!- Disse il nonno stringendo al petto il capo della bambina.
Quella fu l’ultima volta che Delio abbracciò la nipote.
Si alzò dalla sedia sentendo nelle ossa il peso degli anni e dell’umidità.
Calcò in testa la sua coppola per uscire di buon ora alla ricerca di un ingaggio nei grandi cantieri di Manhattan.
Furono molti i cancelli ai quali bussò, furono molte le persone alle quali chiese di lavorare abbassando gli occhi e stringendo tra le mani il berretto da italiano.
Ma quel giorno era troppo vecchio. Troppo vecchio a cinquant’anni. Troppo vecchio per tornare e troppo vecchio per restare in una città di molte promesse e poche certezze.
Sulla via del rientro, poco prima che il buio calasse su una giornata infruttuosa, Delio si ritrovò davanti al carretto delle caldarroste.
– Buona sera Greco-
– Calispera amico-
– Cinque caldarroste e pago domani- disse Delio in quella lingua che era diventata lo slang universale della metropoli
– sei pazzo italiano? Non posso fare credito o perdo il posto. Paghi domani, compri domani.-
Dallo zoo si levò il barrito dell’elefante che salutava l’imbrunire.
Il greco si voltò automaticamente.
Delio non saprebbe ancora dire come e perché, ma si era trovato strette nella mano un pugno di castagne che bruciavano quanto la sua vergogna.
Mai aveva rubato, e mai nessuno nella sua famiglia lo aveva fatto.
Ma il suo fu un gesto istintivo, disperato, senza la colpa della volontà.
Forse il greco non si sarebbe mai accorto del furto, ma il poliziotto irlandese che stava osservando la scena urlò -fermo! Ladro!-
Delio si sentì sprofondare in una dimensione da incubo, ma le sue gambe cercarono comunque di portarlo lontano.
Il cuore no. Il cuore cadde nel silenzio e si portò via Delio Morelli.
Al funerale alcuni italiani che erano presenti al fatto  dissero che Delio spirò in dialetto e le sue ultime parole furono
– ca ghe vegna un cancher ai castagn!- 
Molti si chiesero se fu a causa della maledizione di Delio, ma nella primavera successiva morirono quasi tutti i castagni americani, abbattuti dalla Cryphonectria parasitica, chiamato appunto il cancro dei castagni.
Ad oggi, non si è trovato ancora un rimedio.

ADA – II racconto d’autunno

ADA – II RACCONTO D’AUTUNNO

Racconto di Monica Caprari

Con un gesto repentino Ada gettò una foglia dal davanzale.
Poi si affacciò per vederla cadere danzando in una lenta discesa di sei piani.
Giù l’asfalto  era bagnato dalla  pioggia autunnale caduta durante la notte.
Le macchine avanzavano lentamente  provocando uno scalpiccio fastidioso.
Ada guardò il cielo che si era aperto lasciando trapelare freddi raggi di sole.
-Sarebbe una dolce domenica mattina di novembre- pensò Ada-  se non ci fosse tutto questo traffico diretto al centro commerciale in fondo allo strada-.
-Che poi, cosa ci va a fare la gente al centro commerciale?- Si domandò accostando i baveri della vestaglia di paille.
Chiuse le finestre a doppi vetri e tornò a respirare la pace del  suo piccolo e lindo appartamento.
La luce del mattino penetrava lattiginosa  posandosi sulle mensole, che malgrado la meticolosa pulizia parevano ancora impolverate.
Ada  versò una generosa dose di detersivo sulla spugna e prese a passarla qua e là calcando vigorosamente.
-Spreconi e consumatori  bulimici- si diceva pensando ancora ai frequentatori  del centro commerciale.
-fosse per me .. solo kilometro zero.. e niente cadaveri nei piatti!-
George fece capolino dalla camera da letto e balzò sul ripiano della cucina.
Ada si avvicinò per accarezzargli il pelo lucido da soriano castrato.
Oh! come amava gli animali, lei. Proprio ADORAVA gli animali.
Creature in armonia con la natura, pensò chinandosi a prendere una scatoletta per George.
-Tieni la tua pappa buona- gli sussurrò ricevendo un vibrante ringraziamento.
Poi riempì il bollitore e lo mise sul fuoco. Dallo stipo tirò fuori i suoi biscotti preferiti, zenzero cocco e cannella, e  li adagiò cerimoniosamente sopra un piattino in attesa del tè.
D’improvviso il silenzio venne turbato da schiamazzi provenienti dall’appartamento di fianco, abitato suo malgrado da una famigliola alquanto rumorosa.
-Dio, quanto sono insopportabili e grezzi!- si disse.
Si erano trasferiti di recente e Ada aveva avuto modo di conoscerli prendendo l’ascensore.
Si era dovuta fare piccola piccola per far entrare l’ingombrante passeggino recante un guanciuto bambinone di due anni, relativa madre e relativa macchinina giocattolo, praticamente grande quanto la sua vecchia utilitaria.
In quell’occasione Ada aveva comunque cercato di essere amabile
-come ti chiami?- chiese al bambino in sovrappeso che la guardava immusonito.
-Jason- rispose la madre,  pronunciandolo all’italiana tipo Gieson.
Ada alzò un soprracciglio e squadrò   la donna vestita come una stella del pop.
Da quella volta evitava l’ascensore se doveva dividerlo con Lady Gaga e figlio obeso.
Ada tornò alla realtà e notò che la boule del pesciolino rosso aveva l’acqua ormai opalina.
Si  arrampicò sulla sedia per prenderla.
L’aveva messa sulla mensola  in alto per proteggere Albert  dagli attacchi di George.
Mise con cautela la boule nel lavello e fece scorrere poco più di un filo d’acqua.
-Per un ricambio graduale-si era raccomandato il negoziante carceriere dal quale lo aveva salvato e dal quale Ada comprava  i croccantini di George.
Ada sobbalzò nel sentire che i rumori dall’appartamento di fianco aumentavano d’intensità.
-Gieson! non saltare sul divano!- Urlava Jennifer Lopez.
-E basta!-pensò Ada  raccogliendo con cura le briciole sfuggite dal piattino dei biscotti-uno vuole godersi in pace la domenica  e…-
Un tentacolo di pensiero le si allungò sul lunedì, quando avrebbe ripreso il suo lavoro di Back office per una multinazionale farmaceutica.
-Back office- si disse, -il buco del culo degli uffici- Rise della considerazione e della parolaccia liberatoria,
-tutti lo schifano, anche se serve.. per non parlare dei colleghi… fanno i tornei di leccapiedaggine.. falsi come Giuda- e nel pensare questo lo stomaco le si attorcigliava.
Un tonfo fortissimo la scosse.
-Gieson! non lanciare le macchinine contro il muro!-
Ada venne presa da una rabbia isterica.
Poi sgranò gli occhi nel vedere che il pesce rosso galleggiava morto.
Sbadatamente, forse a causa di tutto quel baccano, aveva aperto l’acqua bollente.
Attonita portò le mani al viso.
-GIESON!NON SBATTERE COL TRICICLO CONTRO I MOBILI!-
Un tremore collerico teneva Ada impalata davanti al lavello.
Fu il fischio del bollitore scuoterla.
Un furore cieco le serrava le labbra.
Ada brandì il pesante bollitore.
La sua mano stringeva il manico sino a sbiancarle le nocche.
E corse fuori, con un ghigno che le stravolgeva il volto.
Suonò all’appartamento dei vicini e di rimando la voce della madre urlò –chi è’?-
-A D A-

Monica Caprari

Aki e Haru – racconto d’autunno

Aki scostò il pannello di legno e carta di riso per far entrare la luce del mattino.
Sporse il viso tondo e fresco come un petalo di ciliegio per osservare la prima neve cadere e perdersi  nella terra scura del pianoro antistante.
Presto sarebbe arrivato un inverno lungo e freddo.
Gli alberi sui declivi trattenevano le loro foglie colorando il paesaggio d’amaranto, carminio, miele porpora e molti altri colori ancora.
Aki azzardò qualche passo sulla veranda per annusare l’aria  che odorava di montagne.
Poi il suo sguardo abbracciò le cime. I suoi occhi avevano il colore e la forma delle mandorle che crescevano a valle,  nella prefettura di Akita.
Sorrise alla natura, e due  fossette le contornarono la piccola bocca gonfia di vita.
Improvvisamente il vento le portò lo scalpitio di cavalli.
Qualcuno sarebbe presto arrivato,  e mai nessuno si arrampicava sino al pianoro di Kyatzu.
Un artiglio d’ansia le si aggrappò al petto rendendola incapace di muoversi.
-Haru! Haru!- cercò di gridare, ma la voce le si perdeva in gola.
Il suo giovane sposo dormiva sazio nella stanza dei tatami.
-Haru! Haru!- urlò finalmente correndo dentro casa.
-Aki cosa ti succede? Hai di nuovo visto un orso?-
-Haru! Qualcuno sta arrivando- riuscì a dire la piccola Aki accasciandosi sul tatami,  ancora tiepido ed afroso .
La luce del giorno proveniva ancora da est di Kyatzu quando due messi dello Shogun Akaori scesero dai cavalli e fecero risuonare i loro passi sulle assi di faggio della veranda.
-Samurai Haru!- chiamarono gli uomini.
Aki aprì i pannelli ai messi. I suoi occhi scuri rimanevano bassi.
Inchinandosi si scostò per farli entrare.
Haru non si voltò subito e rimase a guardare la stufa sorbendo rumorosamente la calda bevanda di riso.
-Samurai Haru, abbiamo un messaggio da recapitarvi-
Haru finalmente si girò lentamente prendendosi il tempo di osservare i due uomini coperti di pellicce.
Tese la mano per prendere il rotolo che gli veniva offerto dai due messi inginocchiati.
Poi tornò a guardare la stufa e gli uomini lasciarono la soglia di casa porgendo un ultimo inchino.
-Aki, devo partire. Lo shogun mi ha convocato per difendere le terre di Kyushu da un feroce nemico. Il suo nome è Kublai Kahn. Viene dal mare e tra pochi giorni toccherà le nostre coste. Dovrò essere lì per  tempo e partire oggi stesso-
Aki  rimase in silenzio, mentre i suoi occhi seguivano le nodosità del pavimento come se cercassero pezzi di Shogi(1)  sparpagliato ovunque.
Haru le prese le mani e la condusse fuori.
-Aki- disse – guarda questo ciliegio. Oggi le sue foglie sono d’oro. presto cadranno.
Ne colgo due. Una la terrò qui ben riposta nel mio petto,l’altra la conserverai tu.
Queste due foglie non cadranno a terra, e la mia promessa, amata moglie, è di tornare da prima che le nuove gemme di questo ciliegio vedano il mondo.-
Aki guardò il ciliegio poi alzò lo sguardo verso le montagne e,  tra gli alberi,  vide l’orso fermarsi ad osservare  loro due fermi mano nella mano..

(1) antico gioco giapponese simile agli scacchi

Nonna Roma


Poesia di Monica Caprari


Sei scomparsa

passando fra le mie dita

mischiandoti con la terra

lasciandomi sola con l’inverno.

Un ultimo bacio ancora.

Poi chissà quando

e chissà  se

ci rivedremo.

Potrei coglierti con le viole

che crescono sul muro di cinta

ma la mia mano non le raggiunge

e la tua mano non trema più