Archivia 28 Gennaio 2023

Papaveri

Fiori di papaveri rossi
dai petali vellutati
che rifuggite la stabilità

Vivete nella libertà
crescete selvatici
tra spighe dorate
lungo binari di ferrovie
nelle distese di praterie
ai bordi delle strade
sul ciglio dei fossati

In un tempo andato
eravate amici intimi
di Gengis Khan
tenevate calmi i bambini
decoravate pane e torte
spuntavate  musicali
dalle canzoni di De Andrè

Oggi vi offrite agli sguardi
rifiorendo sulla livrea
del tram della Memoria

/lab 39

Valentina Tereškova

 

Ci sono cose che mi emozionano infinitamente, sono le cose che amo e alle quali non posso dare un solo nome, se non ‘immensità’.

Quando mi sveglio è ancora buio, buio totale. La notte è perfetta, senza luna.

Accendo il lume, bagliori tremolanti s’infrangono sulle pareti nodose e profumate di pino. Nella camera fa freddo, il fiato si addensa come fumo rarefatto. Alla finestra i vetri gocciolano lacrime di condensa.

Mi alzo di scatto, non voglio perdermi lo spettacolo. Ma faccio piano, che sennò mamma si sveglia e mi ricaccia a letto.

Sono già vestita, manca il cappotto che è appeso vicino all’uscio.

Cammino cauta, so quali assi di legno scricchiolano, e io le evito.

Vicino all’ingresso calzo gli stivali, metto la sciarpa, il cappello, i guanti e il cappotto. Sopra lo scialle della notte.

Fuori, la temperatura è scesa sotto i venti gradi. La neve ha una crosta ghiacciata che si spacca ad ogni passo. Mi allontano di qualche metro, avanzo nel giardino antistante la casa.

Mi siedo per terra, affondo un poco. Poi mi sdraio, a occhi chiusi. Il freddo entra nel naso, ma io faccio un gran respiro per trattenere l’emozione. Tra poco aprirò gli occhi e lo vedrò. Il cuore accelera, le guance si scaldano.

Conto fino a tre prima di sollevare le palpebre. Lo sento, è sopra di me,.grande. Infinito.

Uno, due tre.

Il fiato esce dai polmoni. Non riesco a descrivere la gioia, la bellezza.

Il cielo, il cielo è gravido di stelle. Paiono chiamarmi come sirene di Ulisse. La volta ha il colore del cobalto e dello zaffiro, è un tessuto tempestato di brillanti. Allungo la mano, sembra di poterlo toccare. Poi con un dito indico le stelle, accarezzo la via lattea. Immagino di volare come un gabbiano, di girare nello spazio. Io sarò gabbiamo, sussurro, aspettami infinito, che da te arriverò.

Nella casa si accende una luce. Mamma apre la finestra e mi chiama: «Amore, cosa fai lì? Torna che fa freddo, e domani devi andare in fabbrica presto!»

«Arrivo mamma», rispondo.

Mi alzo, gli occhi puntati in alto. Penso: ti prometto che navigherò nell’ infinito siderale.

Il mio nome è Valentina Tereškova, e sono la prima donna nello spazio. Nome in codice čajka, gabbiano.

Donne da favola

Ebbene, miei cari amici, concedetemi una riflessione, qui, tra intimi, nell’atmosfera di queste quattro mura.

Una riflessione sulle donne, sulle femmine, che talvolta, chiamarle così pare pure un po’ dispregiativo.

Per millenni, secoli, decenni le abbiamo confinate nei gradini più bassi della società, delle famiglie patriarcali, degli ambienti lavorativi e persino nelle scuole, a lungo precluse.

Eppure… eppure.. nella narrativa sono spesso le eroine romantiche, le Sante vessate, le eminenze grigie di grandi uomini, le ghostwriter di tante vite.

Soprattutto, sono le protagoniste di ogni favola.

Buone o cattive, belle o brutte, giovani o vecchie.

Prendiamo Biancaneve, per esempio. Ingenua, dolce e incantevole protagonista della fiaba, affiancata suo malgrado dall’altrettanto avvenente madrina. Loro sono i personaggi principali. Mica quel coglione del padre. Perdonate il termine becero, so che vi ha fatto sobbalzare sulle sedie, ma dico, proprio una strega doveva risposare?

E quel fanfarone del cacciatore? «Si signora, faccio io, vado io, ci penso io», e poi se ne torna con le pive nel sacco, che mi fa venire in mente molti… ma lasciamo perdere che sennò va a finire male..

Stendiamo poi un velo sui sette nani. Ometti borderline, se proprio vogliamo dirla tutta. Del resto in giro ce ne sono ben più di sette…

E Cenerentola? ne vogliamo parlare?

Lei, la matrigna, le sorelle, la fata che credo sia turchina, la stessa che salva Pinocchio, tipico esempio di bugiardo. Dicevo, ancora una volta le vere protagoniste sono donne, avvolte in un intreccio pernicioso. Donne che si fronteggiano, in aperto contrasto. E il principe? Ah! Lui. Mah, che dire… quello se ne va in giro con una scarpetta in mano, pronto a sposare la prima che trova con un trentaquattro? Un trentacinque?

Vabbè, qualsiasi considerazione su cappuccetto rosso è un po’ sparare sulla croce rossa. perdonate il cliché ma fa pendant con il colore e la storia. Madre, figlia, nonna: donne fragili ma coese. Gli uomini di questa storia? Un lupo e un cacciatore. Un mangiatore di femmine e uno pronto a sparare sui più deboli. Ah com’è vero Iddio, pare di vedere gente conosciuta.

E poi, altre favole ancora. Che so, la sirenetta, la principessa sul pisello o la bella addormentata nel bosco.

Quest’ultima attorniata da streghe e fate. Donne, donne e ancora donne, in un bouquet profumato e puzzolente di zolfo al tempo stesso. Donne scaltre, ingenue, vendicatrici ma vivaci, vivide, veraci.

Infine lei, Alice, bambina sognatrice di follie, infinitamente divertente, circondata da pazzi, tabagisti, saturnini, bipolari. Eccezion fatta per la regina di cuori. Un po’ isterica, certo, ma al comando di un regno che non c’è, con uomini di carta pronti a cedere col primo alito di vento.

E dire che le favole sono state scritte da uomini!

Macché invidia penis, siamo onesti, qui si tratta di invidia uterus.

Utero, luogo primordiale, culla della vita, primo amore.

È per questo che in ogni uomo alberga una donna.

E in ogni donna, in ogni donna reale, alberga un mondo.

La città in cui vivo

Alle 16 inforco la bicicletta, pedalo per circa venti minuti costeggiando corsi d’acqua e campi coltivati, mi fermo a raccogliere qualche verdura a pagamento che sistemo nelle tasche laterali della bici e sono a casa. Ravvivo la stufa a legna che Lars ha acceso la mattina, dò da mangiare alle ragazze e mi butto sul divano. La mia giornata lavorativa è finita. Accendo una candela e mi godo la quiete della pioggia che comincia a cadere, le ragazze pian piano vengono a farmi compagnia sul divano, prima una, poi due, poi tre. Siamo tutte vicine, pelose e capellute, sprofondate nella morbida pelliccia del copridivano che fa sparire almeno due di loro, perfettamente mimetizzate.

 

Le giornate scorrono lievi, qui. C’è un’alternanza armoniosa di lavoro manuale e intellettuale, propaggini dell’uno si inseriscono nell’altro senza soluzione di continuità ed io mi sento completa.

 

Sull’isola dove vivo non sono ammesse auto. Ci si sposta in bicicletta, in barca, a piedi. Siamo in 1500 e si conoscono tutti. Io no perché sono arrivata sei mesi fa. Non parlo ancora la lingua, anche se la sto studiando, mi arrangio con l’inglese, qui tutti parlano un inglese eccellente, anche se con accento.

 

La mia casa è costruita in paglia e argilla, ha il tetto di alghe impregnate di sale e i muri spessi 50 cm. E’ costruita con tecniche tradizionali che la rendono perfettamente coibentata e traspirante, oltre che ignifuga. Mi colpisce il fatto che quando entro non sento altro odore se non quello delle erbe della cucina e degli oli essenziali che uso per pulire.

 

Decisi di trasferirmi qui una sera di gennaio mentre guardavo un programma di viaggi alla televisione tedesca quando vivevo in Italia. Fu una folgorazione: mi erano sempre piaciuti i Paesi dell’area scandinava, vuoi per la loro oggettiva superiorità di vita, vuoi per l’affinità estetico-emotiva che ho con i Paesi del nordeuropa per via delle mie origini tedesche.

 

Da tempo ero preoccupata per il mio futuro: per il costo della vita, per la mancanza di prospettive lavorative nel mio Paese alla soglia dei cinquant’anni, per  le nuove normative che l’Unione Europea sfornava a ogni piè sospinto e che stavolta rischiavano di azzerare il valore dell’immobile ereditato dai miei genitori in cui vivevo.

 

In quattro e quattr’otto ho deciso: mi sono candidata per gestire un negozietto di seconda mano specializzato in abiti d’epoca femminili e accessori tessili, ho cercato una camera in affitto nella stessa località, ho caricato in macchina le ragazze e il minimo necessario per vivere felice con le mie piccole comodità e sono partita per la Danimarca.

 

Della mia vecchia casa, troppo grande per me, si occupa una mia amica d’infanzia, l’unica di cui mi fidi veramente per queste cose, occasionalmente mio fratello. Le bollette finiscono direttamente sul mio conto bancario.

 

Col mio lavoro guadagno appena il necessario per sopravvivere, ma è una sfida che tutto sommato non mi pesa. Fortunatamente non ho grandi vizi, i beni accumulati nella mia vita precedente bastano fino alla fine dei miei giorni e oltre.

Tra sei mesi deciderò se vendere la mia vecchia casa con tutto il suo contenuto.

La mia città preferita

Questa volta il nero non mi ha portato fortuna: ho perso subito i pezzi più importanti, accecata da una furia di conquista che mi ha fatto dimenticare di tener d’occhio i pedoni dell’avversario. Una volta cadute le due torri, la partita era praticamente conclusa.

Mi resta la soddisfazione del tavolino da scacchi trovato stamattina con Jens al mercatino del municipio di Schoeneberg, quello del famoso discorso di JFK del 1964; un tavolino così era un mio sogno da diversi anni.

Spero che tra poco, dopo un pranzo ristoratore, ci scappi un piccolo concertino alla chitarra con canzoni che conosco anch’io.

 

Vivo a Berlino da sei mesi, dopo aver fatto avanti e indietro per 10 anni. E’ stata una storia d’amore fin dall’inizio, una città dove mi sono subito sentita a casa.

Tutto iniziò con la conferenza Servas tedesca a cui fui invitata perché parlavo la lingua. Dovendo decidere presso quali soci pernottare, decisi di chiedere ospitalità a Petra e Uri (“Petra non è una complicata” mi aveva detto Connie, la Segretaria Nazionale, ed era vero) ; poche ore dopo aver conosciuto Petra avevo deciso che era stato il mio angelo custode, mia mamma, a farmi incontrare quella donna straordinaria.

 

Per età poteva essermi madre, ma aveva l’entusiasmo e l’agilità di una ragazzina. Quando cerca qualcosa negli armadietti della cucina, ancora oggi si siede per terra a gambe larghe, tipo Pippi Calzelunghe, e comincia a rovistare, mi fa morire dal ridere.

E’ molto attenta ad ogni cosa che dici, ascolta assorta, partecipa con tutto il suo essere e fa domande acute e pertinenti. Usa la lingua in modo giocoso e arguto, piegandola ai suoi capricci e facendole fare volteggi acrobatici, una specie di Oscar Wilde in gonnella. E’ una donna colta e brillante, stranamente dotata di un complesso di non-essere-mai-abbastanza.

 

Abito poco lontano da lei, nella via più lunga di Berlino nel quartiere di Charlottenburg, in un grande appartamento al pianterreno di un palazzo azzurro e bianco di quattro piani sotto la protezione del Dipartimento delle Belle Arti. Ho avuto fortuna perché una ricca vedova sempre in giro per il mondo aveva bisogno di qualcuno che le curasse la casa e le bagnasse le piante, in cambio posso abitare qui a costo zero.

Sulla facciata c’è un bovindo schermato da tende leggere che dà sul doppio soggiorno, un tempo il locale destinato agli uomini, poi quello meno luminoso destinato alle donne, quindi un lungo corridoio di 9 metri con porte sui lati conduce rispettivamente a una camera-ripostiglio, a una cucina, al bagno e alla camera da letto. Io mi sono sistemata sul divano-letto in soggiorno, accanto al Ficus Benjamin, alla Kenzia e alla Sansevieria che curo come delle figlie.

 

Il palazzo ha un androne molto signorile, anche se manca di ascensore e questo per gli altri inquilini è un problema. Per me no, anzi, io sono ben contenta di abitare al pianterreno perché così le mie bambine hanno accesso al giardino sul retro. Il giardino è in condivisione, ma va bene lo stesso. E’ chiuso e così non rischiano di venire investite dalle auto.

 

Ogni mercoledì ci incontriamo a turno a casa dei membri della Società Teosofica. Quando ospito io indirizziamo i nostri sforzi verso un volontario allontanamento della famiglia Thamm al pianterreno, in modo che liberi gli altri condomini dal suo opprimente ostruzionismo in sede di assemblea condominiale. Se riesco nell’intento, il premio è un viaggio un Provenza, mi ha assicurato la proprietaria dell’appartamento.

 

Il palazzo è tranquillo, popolato prevalentemente da anziani professionisti. Con due appartamenti per piano, raramente si incontra qualcuno. Il luogo di aggregazione principale è il locale smaltimento rifiuti, dove ho fatto la conoscenza della maggior parte dei condòmini, che tra un bidone troppo pieno o un rifiuto mal riposto si lasciano andare a qualche confidenza che apre la porta alla conversazione. Durante uno di questi ameni incontri ho fatto la conoscenza di un distinto signore del terzo piano, che studia da anni l’italiano ed è appassionato di cucina. Sembra che il suo piatto forte sia la salsa di pomodoro all’aglio che non vede l’ora di farmi provare ed io non ho cuore di rivelargli che da noi, insomma, non è tenuta in grande considerazione. Sì, perché qui bisogna stare attenti: basta una piccola critica e subito ti guardano storto.

A me non piacciono parecchie spezie qui molto usate, ora passo per una persona difficile. E sì che sono solo:

– anice

– cumino

– coriandolo

– curry (non la curcuma, proprio il misto di spezie per il curry)

– aneto fetido (beh, già il nome…)

– liquirizia

– cannella

– assenzio

– senape

– semi di finocchio

 

 

La neve

Racconto al femminile

 

L’anziana sarta si privava spesso della gioia, in nome delle convenzioni, in nome del risparmio, in nome della mancanza di prospettive.

Anche quel giorno, per esempio, a metà mattina aveva abbassato le tapparelle del soggiorno, finestra e porta-finestra, per ricreare la penombra che non avrebbe intaccato i delicati tessuti di seta con cui aveva cucito i cuscini multicolori che adornavano il suo divano. Non solo, c’era anche la raccomandazione del governo tedesco, che si appellava al senso di responsabilità dei propri cittadini per risparmiare energia, in particolare sul riscaldamento.

Poco importava che la sua giovane ospite, arrivata dall’Italia il giorno prima, appollaiata sul divano-letto, fosse rapita dallo spettacolo della neve che, leggera e silenziosa, cadeva fino a ricoprire la cappella tardo-gotica e il suo campanile a cipolla di uno strato bianco, avvolgendoli in una morbida coltre.

Le due donne si guardarono negli occhi: per un momento i due opposti si toccarono; la giovane votata a raccogliere frammenti di piacere a piene mani, l’anziana quasi spaventata dalle occasioni di bellezza alla sua portata.

La tapparella si avvolse verso l’alto con un rombo, il candore della neve inondò il soggiorno e avvolse di bianco ogni cosa.

La vetrina

Era una giornata dal cielo terso nella mia bella città d’adozione: Berlino mi stordiva già con il frastuono del traffico. Come ogni mattina mi affrettavo a raggiungere il posto di lavoro con passo incalzante: temevo il solito ritardo. Il mio sguardo si volse distrattamente oltre la vetrina di un caffè. Un giovanotto seduto su uno sgabello aveva un’aria dimessa e triste. Stavo quasi rallentando il passo con l’intento di entrare nel bar per chiedergli cosa mai potesse essergli accaduto… Ma accidenti, mi accorsi che era tardi e allora non mi fermai.
Fuori dal caffè una ragazza si toccava i lunghi capelli setosi, piangendo. Forse conosceva il giovanotto triste.
Ancora una volta fui sul punto di fermarmi per cercare di aiutarli. Ero convinta che si conoscessero e che fossero in crisi. Avrei fatto qualsiasi cosa per riavvicinarli… questo avrebbe rasserenato anche la mia giornata.
L’orologio segnava le otto e mezza! Corsi a perdifiato per evitare il semaforo rosso e arrivai in ufficio in ritardo. Se avessi raccontato al capufficio dei due ragazzi forse non si sarebbe infuriato; invece passai un brutto quarto d’ora.

Gli starnuti di Antonio

Mi chiamo Antonio. Sono single non per mia scelta. Ho raggiunto la soglia dei cinquant’anni. Sono un bell’uomo con capelli brizzolati e riccioluti.
Colleziono collari per cani di piccola taglia che raccolgo in una teca in bella vista nella sala da pranzo. Alcuni sono impreziositi con pietre e gemme luccicanti.
Ho sempre sognato un piccolo cagnolino da coccolare, ma ero un camionista e il mio lavoro non mi ha mai consentito di averne uno. Per consolarmi, nel periodo estivo aiutavo Gianni, un mio amico, nel suo negozio di toilette per cani.
Un bel giorno Gianni mi propose di entrare in società con lui. Accettai di buon grado. Ero al settimo cielo! Ero entusiasta di avere lasciato quel mostro di camion, che non faceva altro che macinare chilometri e chilometri di asfalto con me, rendendo le giornate rumorose e solitarie.
Era bello alzarsi di mattina presto per dedicarsi alle piccole cose quotidiane e poi correre dalle creaturine che mi aspettavano, perché sapevano che le avrei dispensate di coccole.
Da quando mi misi in società con Gianni, non passarono molti giorni che mi scoppiò un fortissimo raffreddore. Quanti starnuti! Non ci crederete, ma era il primo raffreddore della mia vita! Presi delle pastiglie per farmelo passare, perché mai e poi mai avrei potuto pensare di mancare un giorno dalle mie adorate bestioline. Peggioravo sempre più, finché non mi decisi di consultare un medico. Indovinate qual era la diagnosi, che per me era quasi una sentenza di morte? “Allergia al pelo del cane”!

Il rigattiere dei sogni

Un giorno, nella casetta di campagna del mio paesello d’origine, decisi di riordinare la soffitta e di mettere da parte alcune cose che avrei portato a Giovannino il rigattiere. Così lo chiamavano in paese. Era un tenero e simpatico ometto che, tra una pedalata e l’altra, guidava un triciclo carico di carabattole da portare al mercato della domenica, racimolando qualche moneta per arrotondare lo stipendio.

Era un’impresa assai ardua pensare di entrare in quella soffitta dimenticata, piena di ragnatele… e chissà, tra un baule e l’altro avrei trovato delle pantegane morte, ragni stecchiti… al solo pensiero rabbrividivo.

Infilai un paio di guanti e una mascherina, un paio di pantaloni consunti di mio marito che puzzavano d’erba appena tagliata, e mi misi all’opera.

Con mia grande sorpresa, accanto a grossi bauli c’era una cassettiera colorata e un po’ naïf, forse ereditata da mia zia Ginny, un tipo originale. Ero curiosa di scoprire cosa ci fosse in quei sette cassetti, ma avevo il terrore di trovare uno di quei pipistrelli che una sera si era intrappolato tra i capelli di mia zia. Mi feci coraggio e aprii il primo cassetto dove c’era un quaderno sgualcito e ingiallito, la cui copertina riportava questo titolo: “Il libro dei sogni”. Lo sfogliai e, con mia grande sorpresa, constatai che non c’era scritto proprio nulla… completamente vuoto!

Pensando al passato provai una sottile nostalgia che subito si trasformò in un desiderio irrefrenabile di aprire gli altri cassetti. Avrei ripercorso la mia vita con gli oggetti che avrei ritrovato.

Faticai ad aprire il secondo cassetto che si era incastrato. Insistetti finché non riuscii ad aprirlo. Conteneva una scatola impolverata sulla quale c’era scritto: “Aprimi per scoprire la direzione da prendere nella vita”. Era una bussola. L’avevo acquistata al mercatino delle pulci di Parigi.

Nel terzo cassetto c’era un album di fotografie. C’era scritto: “Noi ti abbiamo accompagnato nel tuo passato”.  Lo sfogliai e mi commossi rivedendo i miei nonni che non ci sono più. In un’altra pagina dell’album i miei genitori sorridenti tenevano in braccio una bambina: ero io! E come erano giovani e belli la mamma e il papà! Sparpagliati nel cassetto, fuori dall’album, c’erano le foto di amici e colleghi di lavoro… Quanti ricordi! C’erano anche tante foto delle Dolomiti, dove adoravo trascorrere le vacanze estive e le settimane bianche prima con gli amici, poi col mio fidanzato, ora mio marito.

Nel quarto cassetto c’erano le mie poesie giovanili che avevo cercato per mare e terra, e dov’erano finiti? Qui, in soffitta!

Nel quinto cassetto c’erano parecchie medaglie che avevo vinto da ragazzina, quando mi cimentavo nelle corse campestri. Una in particolare, portava un’incisione con il numero cinque (perché ero arrivata al quinto posto) nella mia prima competizione, nella quale aveva partecipato tutta la scuola. Ma mi era costato caro questo quinto posto! Mia mamma, a pranzo, non immaginando quello che mi sarebbe capitato, mi cucinò polenta e brasato e, senza concedere tempo al mio stomaco per digerire il tutto, andai dritta al campo dove si svolgeva la gara e, ahimè, poco prima del traguardo, anche il terreno condivise in qualche modo la mia polenta con brasato.

Nel sesto cassetto c’era Andrea, il mio primo bambolotto col profumo di gomma della Furga! I miei genitori me lo regalarono per Natale, quando avevo sei anni. Mia mamma aveva racimolato pazientemente le seimila lire per comprarmelo.

Finalmente arrivò il momento di aprire l’ultimo cassetto… C’era un odore nauseabondo di muffa. Con i guanti tolsi la polvere e scoprii degli spartiti musicali: pezzi per coro e orchestra, vecchie canzoni del Festival di Sanremo, di cui non perdevo nessuna edizione. Andavo in edicola a comprare i testi delle canzoni, in quei libretti col casinò in copertina. Ora è giunto il momento di tirare fuori da questo cassetto il sogno mai realizzato e togliere la muffa.

Raccolsi tutto il materiale con cura e lo misi in un baule, un ricordo di mia nonna.  Caricai la cassettiera nell’auto e la portai da Giovannino. Sicuramente qualcuno la riempirà di sogni, sperando che non facciano la muffa.

Il giorno dopo mi presentai alla segreteria di una scuola musicale per iscrivermi a un corso di canto. Ero circondata da ventenni che mi guardavano incuriositi. Anch’io mi sentivo come loro, perché le passioni non hanno età.

Non sei fantasia

Impugni le spade nel buio della notte e con abilità intrecci affilati colpi d’acciaio, stendendo filo spinato lungo le mie spalle.

Solchi l’anima con braci incandescenti.

Subdola nemica, ti presenti senza preavviso.

Spero che te ne vada via, ospite indesiderata, invadente…

Mi arrendo a un dolore prepotente, sordo, cupo come le notti insonni che offuscano la mia mente.

Tra le coltri infuocate mi rigiro sfinita, con la speranza di assopirmi, almeno per pochi attimi cullata dalle onde del mare, sognando quella leggerezza che non mi appartiene più.

Voglio tornare alla quotidianità dimenticata.

Non pretendo di sconfiggerti, so che perderei la battaglia.

Ti subisco, ma intendo denunciarti a un mondo che rifiuta di vederti.

Per quanto tempo ancora verrai ignorata, maledetta fibromialgia?