Racconti e Poesie

La vita come il fuoco

Alberto sedeva elegantemente sulla poltrona di seta, souvenir di qualche viaggio di sua madre, la Contessa. La donna aveva almeno una mezza dozzina di cognomi, ma per tutti, era semplicemente la Contessa Madre. Anche per Alberto.
Di fronte a lui, Morando, l’amico di sempre: nobile, ricco, vizioso, dedito all’ozio e all’arte della conversazione salace. Se ne stava annoiato, steso sul canapè di pregiata fattura, sul quale pare che Lincoln sognò le premesse del XIII emendamento: l’abolizione della schiavitù.
Alberto si alzò per rintuzzare il fuoco. Nel grande camino si levarono faville come lucciole rosse deliranti. Dalla legnaia in argento prese un ciocco e lo gettò sulle braci producendo altri barbagli e un suono sordo e stridente di tizzoni smossi. Come affamato, il camino prese ad ardere con schiocchi riconoscenti.
Morando rivolse lo sguardo velato dall’oppio all’amico: «Mio caro Alberto, non pensi che la vita sia come il fuoco. Occorre sempre alimentare le giornate con fiamme. Grandi fiammate, altrimenti ti spegni. E presto diventi cenere».
Alberto prese qualche secondo prima di rispondere. Tornò a sedersi sulla poltrona sollevando leggermente i pantaloni di vigogna per accavallare le gambe.
«Piuttosto mi chiedo se sia meglio una vita, un fuoco, che bruci costantemente. Se pensi che siano le fiamme a dare calore, allora rischi di fare solo falò di saggine che crolleranno senza nemmeno scaldare. Non è forse meglio un buon ceppo, pesante e secco, che lentamente si consumi in un quieto calore?».
Morando si ravviò il ciuffo riccio che gli cadeva su un occhio. «È per questo che hai deciso di prendere moglie la prossima primavera?», gli chiese con un tono sarcastico.
Alberto incrociò le mani afferrandosi le ginocchia. Era per quello?, si chiese. Il suo matrimonio era combinato dalle famiglie. Non aveva ancora conosciuto la futura sposa. Lo avrebbe fatto quella sera stessa. Nel grande salone fervevano i preparativi per la cena di gala e danze a seguire.
«Lo spero tanto», rispose Alberto più a se stesso che non all’amico.
Improvvisamente, udirono un rumore d’auto. Lo stridore dei freni e lo sbattere di portiere incuriosì i due amici.
Le voci dei domestici si sovrapposero a quella della Contessa Madre, la quale, dopo qualche istante, aprì le porte della stanza del camino, tossicchiando per l’intrusione.
I ragazzi si girarono e videro la donna con le guance paonazze e gli occhi in fiamme. Dietro di lei s’intravvedeva una figura esile. Se non fosse stato per i lunghi capelli neri, si sarebbe detto che fosse un ragazzino. Era invece una donna, vestita da cavallerizza, con giacca, pantaloni e cappello in tweed.
«Alberto, mio caro, ho il piacere di presentarti la marchesina del Brenno degli Infant…».
La ragazza si fece avanti. Ringraziò la donna con un inchino che aveva qualcosa di voluttuoso e sarcastico al tempo stesso.
Alberto e Morando rimasero a fissare come statue colei che sarebbe stata la futura sposa.
Non era solo la bellezza che rendeva quella donna speciale. Erano piuttosto i suoi occhi, vivi, sfrontati, divertiti. E le fossette. Due fossette sulle guance che delimitavano un sorriso aperto, franco.
«Cecilia», si presentò avanzando nella stanza con movenze sinuose. Lo faceva apposta, si capiva. La Contessa Madre era così scandalizzata dall’esser prossima a una crisi isterica.
Alberto si alzò all’istante per protendere la mano. Quando strinse quella piccola di Cecilia, percepì una lieve scossa. Morando si era messo seduto senza staccare gli occhi dalla ragazza.
«Contessa Madre, può lasciarci soli qualche minuto?», chiese Alberto sperando che uscisse di scena per darsi una calmata.
«D’accord mon cher, a bientôt petit marquise. Le diner sera servi d’ici dans un peu plus d’une heure». Faceva sempre così la contessa madre. Se qualcosa la turbava, usava il francese.
E certo, una futura nuora che si presentava sola, in largo anticipo e senza abito da sera era quantomeno disdicevole. La Contessa Madre girò impettita lasciando che il domestico richiudesse le porte.
«Cecilia, permettetemi di presentarvi Morando, mio caro amico e fine intellettuale». Cecilia si sfilò i guanti. Alberto nemmeno si era reso conto di aver stretto una mano guantata.
Morando fece per alzarsi dal canapè ma Cecilia lo bloccò con un gesto assai elegante.
«Oh, rimani pure seduto. Mi tratterrò pochi istanti», disse Cecilia dirigendosi verso il camino e continuando a parlare rivolgendo loro la schiena: «Alberto, sono arrivata in anticipo per farti una domanda, una sola. Poi ripartirò e forse, in base alla risposta, tornerò per la soiree».
I due erano divertiti e paralizzati al tempo stesso.
Un’amazzone bellissima era piombata nelle loro vite rompendo qualsiasi schema del bon ton aristocratico.
«Non mi resta che tentare la sorte, Cecilia», rispose Alberto guardandola con un ardore che superava le fiamme del camino».
Cecilia si appoggiò alla trave e senza staccare gli occhi dal fuoco chiese: «Supponiamo che la vita sia come questo fuoco, tu come vorresti ardesse?».
Alberto rimase perplesso. Si chiese se la sua affermazione di prima fosse quella appropriata. Pensò di no, che non lo fosse.
E nemmeno quella di Morando lo era.
Rispose dopo qualche secondo: «Divampante e ardente di mattino, fiammeggiante e vivace nel pomeriggio, quieto e struggente la sera».
Cecilia sorrise. Alberto avrebbe voluto prendere quel viso tra le mani e baciare le due fossette.
«Tornerai?», le chiese come inebetito.
Cecilia si rimise i guanti senza smettere di sorridere. Si voltò e uscì dalla stanza salutando con un silenzioso cenno del capo. Il cuore di Alberto la seguì.
Quando la cena era ormai servita, Alberto avvilito, la Contessa madre inviperita e Morando contento, i domestici richiamarono l’attenzione per le presentazioni dei nuovi arrivati: «Il Marchese e la Marchesa del Brenno degli Infanti e loro figlia, la Marchesina».
Cecilia pareva splendere.
Alberto si alzò di scatto facendo cadere la sedia. Sentì che il suo cuore era tornato.

Masca

No! Non ballo con l’angelo io.

non mi lascia piume bianche

ne mi sento più leggera poi.

Io ballo con un demone.

No! Non ballo con un demone

io danzo con un demonio

che mi prende quale fossi

sua stessa fiamma

e riarsa brace mi possiede

in incavo di quercia,

da ogni affetto mi allontana

insieme ad ogni ombra

mi fa sua sposa

marchiata sul petto a lettere scarlatte:

LA SORDA!

Soldato

La città nemica è uguale a Milano

c’è un parco nel centro

e nel parco un albero ricurvo

sulle panchine

ha la pelle tatuata

come hanno i ragazzi

che incidono le iniziali

e gli dicono le loro idee.

Proprio ieri l’albero schiudeva le gemme

all’azzurro puro.

Parola d’ordine non guardare!

Un elmo mi nasconde dalla città nemica.

Parola d’ordine non ascoltare!

Rombi nello strazio di aria violata.

Ti ripongo nel mio petto Madre

come pugnale nel mio cuore

proprio ieri partivo soldato.

Sulla Terra stuprata  le impronte delle mie ginocchia.

 

 

rifletto e condivido

A volte basta un flash per aprirci la mente e portarci alla presa di coscienza di ciò che stiamo vivendo.
Mi è successo ieri ed ho capito quale è la mia situazione di questo periodo.
Come più volte ho condiviso su questo blog, da mesi sto facendo una grande fatica a motivo di difficoltà deambulatorie e di forti dolori che le accompagnano. Questo mi ha comportato e mi comporta una sorta di chiusura verso il “mondo” che mi circonda come se io non facessi parte del contesto ma potessi solo “ritirarmi” attribuendo questo atteggiamento alle difficoltà oggettive.
Come dicevo ieri ho avuto uno scossone e mi sono detta che forse sto sbagliando e che andando avanti così mi chiuderò sempre di più con conseguente depressione e senso di inutilità. Allora cosa fare? Mi sono detta che devo fare tutti gli sforzi necessari per “reinserirmi nelle relazioni” che invece sto evitando come se ne avessi paura. Inoltre devo imparare a non guardarmi con “compatimento” ma avere la consapevolezza di essere amata dai miei famigliari, dagli amici e soprattutto da Dio Padre : non sarà facile questa inversione di tendenza ma so che è necessaria per non “morire di solitudine”
Grazie a tutti coloro che leggeranno questo scritto e mi comprenderanno,
Carla

Canto di mondine

Giovani donne

chine sul confine

tra acqua e terra,

tra cielo e inferno.

Scacciano cantando

l’ardore del sole sulle membra

il fastidio degli insetti

i crampi alle caviglie

il dolore di una schiena curva

Le loro voci innalzano

il ceto di appartenenza

l’unità di classe

la fierezza del lavoro

che unisce e mai divide

come acqua benedetta

La Mondina

Mia madre mi sveglia, dobbiamo prepararci per andare al lavoro.

La luna si nasconde dietro la coltre di nubi e oltre la finestra il vento umido soffia forte sull’afa dell’estate. Fa caldo, molto caldo, tanto che tutte fatichiamo a prendere sonno, c’è chi cerca di darsi sollievo con un ventaglio e chi, ormai arresa all’amara sorte, rinuncia definitivamente a dormire e passa le ore con lo sguardo rivolto verso il soffitto.

I rumori dei campi riecheggiano fuori dal capannone e scandiscono il tempo ogni notte come un vecchio che conta i minuti sull’orologio logoro: lavoro, sonno, lavoro e ancora sonno.

Da un mese ho iniziato a lavorare come mondina. Ho sedici anni e sia io che mia sorella passiamo i mesi estivi nella risaia per circa dodici ore al giorno.

Mi infilo le calze di cotone fino ai fianchi e indosso la gonna lunga, lego un fazzoletto per coprire la testa, il viso, tutto. Spesso di giorno, piegata sotto il sole, mi capita di sentire gli insetti infilarsi sotto il tessuto, fino quasi a penetrarmi la pelle. Il caldo e il sudore a volte sono insopportabili e le gocce d’acqua colano tra le gambe, nei gomiti e sulla fronte.

Indosso il cappello, è ora di andare.

Lavoro dalle 4 del primo mattino fino al tardo pomeriggio, arrivando alla risaia dopo un percorso a piedi; utilizzare un mezzo di trasporto sarebbe impensabile e ci verrebbe trattenuto dalla paga.

Oggi il mattino è particolarmente umido, questa è la parte del giorno che più mi piace perché il sole è ancora nascosto e l’alba tarda ad arrivare. Sento i grilli e le cicale cantare, il vento che mi passa tra i capelli li rende appiccicosi ma in questo momento non c’è ancora il sole a bruciarmi la testa. Inizio a lavorare con i piedi immersi nel fango e guardo la mia vicina, mi sorride e si gira verso l’amica per spettegolare del paese. Una donna della mia squadra racconta storie e aneddoti sul marito facendoci ridere a crepapelle, ogni tanto cantiamo qualche canzone per scandire la giornata.

Nel nostro lavoro stiamo chine tutto il tempo ad afferrare le erbacce, io le strappo con tutta la forza come ad estrarre qualcosa di marcio, qualcosa di sporco.

Da diversi giorni non vedo più Agnese che mi fa sempre compagnia durante il turno, “non può più venire” dicono, pare si sia presa la malaria a causa delle condizioni di lavoro.

Cantiamo più forte e ogni tanto ci facciamo delle grosse risate, una di noi, la più vecchia, ci tratta come se fossimo sue figlie, è premurosa e ci porta sempre qualcosa di dolce da mangiare dopo il lavoro.

Il sole è ormai alto sopra le nostre teste e alcune donne iniziano a parlare sottovoce di scontri e scioperi in centro paese. A quanto pare le proteste, aiutate da contadini e commercianti, hanno raggiunto un livello drammatico e gli agrari sono preoccupati. Diverse mondine dell’altra squadra sono state arrestate e alcune sono rimaste ferite durante le sommosse.

Anche il nostro principale è più teso ultimamente, controlla tutte durante la giornata lavorativa e ci intima di stare zitte. 

Maggio è quasi finito, ci avviciniamo a giugno e ultimamente i canti nella risaia sono cambiati: le donne alzano la voce e urlano per la loro libertà come a sperare che il vento umido intrappoli le loro parole e le porti dritte a chi possa ascoltarle, anche a Dio se esiste.

Cantano di cambiamenti, della possibilità di lavorare meno e in modo più dignitoso. Ho sentito che la richiesta è di diminuire le ore di lavoro da dodici a otto, a me sembra qualcosa di assurdo, chissà cosa ci farei con qualche ora in più a disposizione, probabilmente dormirei. Ogni tanto ci penso e mi chiedo se davvero possiamo sperare in qualcosa di meglio, se esiste un altro modo per vivere questa vita. Se ci fosse anche solo una possibilità, allora urlerei anche io fino a svegliare Dio.

Oggi, con le altre ragazze, abbiamo deciso di non andare al lavoro, vogliamo scioperare e scendiamo di corsa in paese. Le vie che conosco bene mi sembrano un teatro di battaglia e mi sento come un soldato che decide di andare in guerra, ma questa guerra è tutta per me, combatto per avere ciò che mi spetta di diritto. Siamo tantissimi: mondine, commercianti, agricoltori. L’agitazione e la rabbia si fanno sentire, risuonano sul pavimento e si espandono tra i vicoli in cui siamo cresciute. Camminiamo a passo spedito, speranzose, sento i canti delle risaie riecheggiare con forza attorno a me “Se otto ore vi sembra poche, provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar”, dopo mesi di proteste ora siamo sotto il Municipio, in attesa di una risposta.

D’un tratto il tempo si ferma, il silenzio cala sulla folla.

Due uomini si fanno avanti e iniziano a dire che a Vercelli è stato sancito l’accordo per la diminuzione dell’orario di lavoro a otto ore, solo le squadre che vorranno potranno estendere l’orario fino a nove ore al giorno. Due donne vicino a me dicono che gli uomini sono uno un operaio di nome Somaglino e l’altro l’Avv. Cugnolio che rappresenta l’associazione contadina.

Il vento umido ora accarezza le lacrime di gioia che scendono sulle guance arrossate, a Vercelli le cose stanno cambiando e mentre le persone accanto a me urlano di felicità c’è già chi dice che anche nelle altre province le cose cambieranno. 

È il primo giugno 1906 e da domani non lavorerò più 12 ore al giorno.

È il primo giugno 1906 e per la prima volta sento che c’è speranza e mi tengo stretta questa voglia di lottare.

Le Brave Mamme non abitano qui

Sai… Quelle settimane di quelle che ti fanno sospettare di essere stata dimenticata da Dio

Dove nulla è filato liscio, dove hai corso come un criceto nella ruota, senza neanche capire come hai fatto a lasciare indietro la maggior parte delle cose che dovevi fare

Sprofondando in quel tristemente noto senso di inadeguatezza che è spesso la colonna sonora delle tue giornate.

L’ultima energia rimasta la usi per riscuoterti.

Decidendo che ti meriti una coccola solo per te.

Quindi ti programmi una serata osé.

Chiamerai la pizzeria, mangerai nel cartone e sfrontatamente non lo leverai neanche dal tavolo, sdegnato dagli schizzi di sugo che resteranno a seccare tutta la notte.

Poi scalcerai le ciabatte, e sprofonderai nel divano con una coppa di prosecco gelato.

La morte dei giusti, dopo un numero indefinito di episodi di qualsiasi serie tv che abbia lo spessore culturale di un foglio di carta velina.

Per spegnere i pensieri, mandarli in fondo alla nuca, tanto domani torneranno a blaterare.. Ma stasera stiano in cantina.

Con un ghigno sotto i baffi, dai fondo alle ultime energie per metter via la spesa, componi contemporaneamente il numero del pizzaiolo e stai lì tutta emozionata all’idea di tanta grazia che aspetta.

Ma il figlio piccolo, con le antenne che solo i cuccioli sanno alzare, sentendo nell’aria che qualcosa di insolito sta per accadere, scende galoppando dalle scale….

“Mamma ho una fantastica idea per noi due stasera… Ci potremmo preparare un bel ciotolone di pop corn, poi andiamo insieme sul divano e ci guardiamo il film dei Transformers… Eh mamma? … Eh?… Eh?”.

Col respiro un po’ mozzo e la confezione dei broccoli ancora in mano, stai li’ a guardare quel faccino emozionato, quegli occhi che brillano.

Lo sai, lo hai letto, te l’hanno infilato nelle carni coi chiodi…

Una brava mamma, anche se stanca, trova sempre le energie per approfittare di qualsiasi occasione di condivisione con i propri figli.

Ci pensi, fai un respirone, raddrizzi le spalle.

Ti pieghi sulle ginocchia, lo abbracci, lo guardi negli occhi teneramente…

“Piccolo mio, amore bello… i Transformers mi fan schifo, e se non vuoi che la mamma si suicidi proprio stasera, prenditi i pop corn, il portatile e portatelo in camera, orari illimitati”.

Galoppa felice su per le scale, il bimbo… Il sacchetto in una mano e il portatile sotto l’ascella.

E tu plani sul divano.

Il prosecco in una mano.

Il telecomando nell’altra.

E sia.

Forse le Brave Mamme non abitano qui

Nero è il fiume

Maria stava lavando i panni nel torrente che scendeva impetuoso dalle colline per poi allargarsi giù a valle dove avevano sistemato i sassi per strofinare la biancheria e batterla.

A Maria piaceva fare la lavandaia. Quasi tutte le sue amiche preferivano andare nei campi a fare le mondine.

A Maria, piacevano gli odori e i rumori che sentiva mentre lavorava. Si divertiva ad attribuirgli colori, come se lei stessa appartenesse a un quadro.

Sapone di Marsiglia? Bianco

Erba schiacciata? Verde

Narcisi in fiore? Giallo

Vento che asciuga i panni? Azzurro

Pietra bagnata? Grigio.

Maria era giovane, forte e bella. Promessa sposa, anche se lei mica ci pensava al matrimonio.

Quel giorno d’inverno, Maria aveva le mani rosse e screpolate dal freddo. Faceva fatica a sbattere i panni, ma lo stesso, si distraeva con i colori. Il cielo aveva tonalità antracite e prometteva neve, quella grossa.

Avrebbe steso i panni in casa, in solaio. Suo padre aveva sistemato una stufa ricavata da vecchi mattoni delle case distrutte dalla guerra. Guerra? Marrone scuro, si diceva Maria, come le camicie dei tedeschi che si vedono sempre più di frequente in paese.

Lei non ci capiva nulla della guerra. Fascisti, nazisti, alleati, le sembravano figure distanti, come i rombi degli aerei che spesso passavano nelle notti.

Improvvisamente il vento condusse a Maria un rumore di passi, cauti, attenti a non spaventare.

«Come ti chiami?», le chiese una voce maschile. Maria pensò al colore del suono. Rosso. Come quello che si affacciava sul suo volto.

Si girò di scatto senza lasciare il panno che stava lavando.

Di fronte a lei, in piedi, un ragazzo magro ma bellissimo. Non vestiva divise e portava un fucile appeso alla spalla.

«Ciao Maria», il ragazzo si sedette a fianco, il fucile in grembo, «hai da mangiare?».

Forse il tono di voce, forse quel sorriso così aperto, forse quegli occhi grigi come il cielo, Maria si sentì subito a proprio agio.

«Non ora, domani se vuoi. Tu come ti chiami?».

«Pietro, nome di battaglia. Sono un partigiano».

Maria tacque e si concentrò sul bucato.

Pietro rimase a guardarla mentre lavorava. Ogni tanto le parlava. Raccontava storie di guerra e Maria pensava che Pietro se le inventasse per fare colpo su di lei. Questo le piaceva. Come alcune parole, tipo ideali. Ideali? Maria se li immaginava di tutti i colori, come l’arcobaleno.

Sapeva che dai monti, ogni tanto, scendeva qualche partigiano. «Non immischiatevi», aveva tuonato suo padre, rivolgendosi soprattutto al figlio maggiore, benché più piccolo di Maria, «la nostra guerra dobbiamo combatterla per avere da mangiare e da dormire. I padroni non gradiscono la politica, soprattutto quella dei partigiani. Se ci cacciano dalla cascina, hai voglia a riempirti la pancia con gli ideali. Testa piena e pancia vuota!».

Il giorno dopo Maria tornò al fiume. Pietro arrivò dopo un po’ di tempo.

Maria allungò al ragazzo il pezzo di pane che si era portata. Pietro ne prese una parte e il resto lo infilò nel tascapane: «Per i compagni», le disse.

Da quella volta, Pietro arrivava sempre al fiume dopo di lei e parlava, parlava, parlava.

La primavera sembrava affacciarsi anzitempo. Le piogge rendevano tutto più difficile. Maria cercava ogni scusa per andare giù al torrente. E ancora, Pietro arrivava sempre.

Un giorno le prese la mano. Maria ne ebbe vergogna. La pelle era screpolata e ruvida. Le mani di Pietro erano calde e morbide. Si capiva che era di buona famiglia, forse ricco, addirittura.

Un giorno si baciarono. I baci divennero sempre più carichi di desiderio.

Quando fecero l’amore, la primavera aveva stanato le prime margherite. Alcuni iris si allungavano lungo le sponde del fiume.

Maria tornò a casa ebbra, ubriaca di tanto amore, tanta passione. Pietro era stato molto dolce, dolce e impetuoso al tempo stesso, proprio come il torrente dove lavava i panni.

Nella notte si sentirono gli aerei volare. Di solito passavano per bombardare in città. Quella notte no. Le bombe cadevano fischiando non lontano dalla cascina. Tutti scesero nelle cantine per ripararsi. In lontananza, arrivavano anche echi di spari.

Il giorno dopo, il sole splendeva come sempre, ignaro della guerra.

Maria corse al fiume preoccupata per Pietro.

Lo vide in lontananza. Era arrivato prima.

Stava seduto contro un albero, il capo chino su un lato.

Dorme, pensò Maria, poi urlò: «Stupido! Dormi con i piedi dentro l’acqua?».

Pietro non rispose. Non poteva e non l’avrebbe mai più fatto.

Era stato ferito nell’imboscata. I fascisti o forse i nazisti, che stavano indietreggiando.

Maria si avvicinò e vide il sangue. Tanto sangue. Era sceso lungo l’erba colando verso il fiume. Si era rappreso, formando un rivolo scuro.

Prima che le gambe la facessero crollare in ginocchio lasciandola senza più colori nella testa, Maria pensò Fiume nero.

 

Maifreda da Pirovano. La Papessa.

Abbazia di Mirasole,  febbraio 1300.

 

Frate Candido correva alzando ora le mani, ora l’orlo del saio per non inciampare.

Nei corridoi rimbombavano lo scalpiccio dei suoi sandali e l’ansimare del suo fiato che gli spegneva la voce in gola.

Quando si fermò davanti alla porta dell’Abate, deglutì per recuperare la lucidità. Per un attimo, alzò lo sguardo al cielo recitando le prime quattro strofe del Pater Noster. Lo faceva sempre quando chiedeva l’aiuto di Dio.

Bussò alla porta e rimase in attesa. Una voce chiara e ferma lo invitò a entrare.

«Magister», esordì Fra Candido saltando ogni preambolo canonico, «l’acqua!».

Il giovane Abate rimase fermo, in piedi davanti alla sua scrivania. Attendeva che il monaco si riprendesse. Era evidentemente in preda all’ansia.

Passò qualche secondo, poi Fra Candido disse ancora: «L’acqua dei pozzi!», interrompendosi subito dopo.

Il giovane Abate lo esortò: «Ebbene?».

«Avvelenata! Qualcuno ha gettato pezzi di carogna in ognuno di essi!».

Sul viso dell’Abate si disegnò un’espressione profonda, lo sguardo di chi cerca prima le domande, poi le risposte. Era entrato nell’ordine degli Umiliati diversi anni prima. Subito, aveva percepito l’energia infusa dagli ideali ispirati a una profonda religiosità. Ora era incaricato di condurre l’Abbazia e di gestirne l’economia basata principalmente sulla produzione di feltro. L’acqua era dunque fondamentale.

Ma non era questo che aveva turbato tanto Fra Candido, e non era a questo che stava pensando il giovane Abate mentre rifletteva a capo chino con la punta delle dita unite sotto il naso.

«Chi mai può aver fatto questo?», chiese quasi a se stesso.

«Non lo so», rispose Fra Candido aprendo le braccia per poi lasciarle cadere.

L’Abate sospettava che l’obiettivo di tale gesto fosse impedire la visita prevista l’indomani: Maifreda da Pirovano, detta la Papessa. Donna nobile, di rara intelligenza, suora dell’ordine degli Umiliati. Professava i principi di Guglielma di Milano, altrettanto nobildonna in attesa di beatificazione per i miracoli compiuti. Prima di morire, Guglielma stessa elesse Maifreda sua Vicaria. Ecco perchè Papessa.

L’Abate decise di concentrarsi sul problema più imminente: l’acqua dei pozzi inutilizzabile. Per nulla al mondo avrebbe rinunciato a sentire i discorsi della Papessa.

In seguito, si sarebbe occupato di trovare l’autore del misfatto.

L’Abate guardò per un istante fuori dalla finestra. Le campagne intorno all’Abbazia erano striate di bianco e di nero. Il cielo aveva quella luce tenue e rosata dell’alba invernale. Si sedette alla scrivania. A Fra Candido parve si fosse allontanato di mille chilometri.

«Fratello Candido, dai ordine di recuperare quante più pertiche di feltro possibili. Legatele assieme e gettatele nei pozzi dopo averle affrancate ai bordi».

Fra Candido rimase immobile. Gettare il loro prezioso feltro nei pozzi? E perché?

Trasalì quando il Priore batté un pugno sul piano della scrivania: «Presto, Fratello, fai come ti dico». Il tono era benevolo e Fra Candido uscì di corsa seguito dalla benedizione del priore che gli scaldò il cuore.

Il feltro prosciugò i pozzi, ne pulì i fondi, i fianchi e bonificò la sorgente. L’acqua tornò potabile.

L’indomani la Papessa arrivò all’Abbazia di Mirasole con il suo nutrito seguito. Celebrò messa, predicò la beatificazione di Guglielma da Milano. Usò parole che non lasciavano fraintendimenti: Cristo è stato figlio di Dio, sua incarnazione maschile. Guglielma e stata figlia di Dio, sua incarnazione femminileElla risorgerà.

I frati, le monache dell’ordine degli Umiliati la ascoltavano attenti e rapiti. Tutti tranne uno. Colui che riportò le parole di Maifreda al tribunale inquisitorio. Divenne sorvegliata speciale.

Il 10 aprile 1300, Pasqua, Maifreda, in abiti sacerdotali, celebrò Messa solenne secondo le liturgie.

Morì nello stesso anno, a settembre, dopo un processo che la vide colpevole di eresia e per questo condannata al rogo.

Il giovane Priore conservò per sempre nella memoria il significato delle parole che Maifreda da Pirovano gli aveva sussurrato: Dio è uomo, Dio è donna, Dio è tutto.

Nota dell’autrice: i fatti sopra descritti relativi all’Abbazia di Mirasole sono frutto di pura fantasia. Il resto è liberamente ispirato dalla storia.

 

Diego il Gatto

Sono una signora di mezza età con le sue abitudini.

E mi alzo all’alba per aver mezz’ora di pacioso silenzio, col caffè e la sigaretta.

Vado al lavandino della cucina, giro la testa verso la finestra e aspetto Diego il Gatto.

Che terminati i bagordi notturni, in giro per i giardini altrui, scavalca il cancelletto e salta sul davanzale.

Gli apro la finestra, ma c’è da aspettare che si contorca il suo numero di volte, prima di degnarmi del suo ingresso.

Gnaula, aspetta alla ciotola, si fa la sua bustina, si stiracchia, va sul divano e si infogna nella sua copertona rossa.

Prima di addormentarsi, mi fissa per un po’…

Sarebbe bello pensare che mi guardi con amore e gratitudine… Ma felinamente parlando, è assai più probabile che faccia considerazioni sulla vita di merda che conduco io, mentre lui sta a pastellarsi la coperta tutta mattina.

Questa è l’abitudine mia e di Diego.

Ogni mattina che Dio mette in terra.

Stamattina ero al lavandino, con le occhiaie di una mignotta a fine turno e con gli occhi talmente gonfi da far fatica a tenerli aperti.

Ho girato la testa verso la finestra, e mi sono concessa un piccolo lusso.

Ho fatto finta di vedere Diego saltare il cancelletto un’altra volta.

Ho aperto la finestra, e ho fatto finta di guardare il grassone contorcersi un’altra volta.

Ho aperto la bustina.

Ho preparato la coperta.

Per un’altra mattina.

Come tutte le mattine che Dio mette in terra.

Cosa vuoi che ti dica, Diego?

Va’ e corri nel cielo?

Va’ e vola nel cielo?

Ma va la’…dove cavolo vuoi volare e correre, gatto mio adorato?

Sei partito con uno zaino sul groppone, te lo abbiamo messo addosso noialtri quattro, la tua famiglia con le gambe.

Uno zaino che pesa un quintale, né corse e né voli, quindi..

Potrai solo camminare pian piano, con quel borsone sulla schiena.

Ma è pieno di tutto il nostro amore, e so che non ti dispiacera’ portarlo

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