Racconti e Poesie

Come mi crebbero le ali

C’era un tempo in cui il cielo mi sembrava un soffitto inavvicinabile, una cappa d’azzurro stanco, e le mie giornate si trascinavano come foglie trascinate dal vento. Vivevo tra le pareti di una casa che non avevo scelto, dentro abitudini troppo strette, come scarpe d’infanzia che nessuno si cura di farti cambiare e alle quali ti adegui.
Poi accadde. Non tutto in una volta, no: le cose vere crescono in silenzio, come le radici sotto la neve.
All’inizio fu un sussurro. Forse una parola letta per caso, forse il suono di una melodia lontana. Qualcosa dentro di me si risvegliò, come un uccello che si ridesta nel guscio.
Fu quella volta che finalmente sognai.
Mi rifugio sul tetto, sola con le stelle. Guardo il buio come si guarda un abisso e, nel farlo, sento che qualcosa sta cambiando. Mentre osservo il sole calare dietro i tetti, sento una fessura aprirsi nella schiena. Comincio a sentire il battito: tum, tum, proprio lì, tra le scapole. È un formicolio, un fremito caldo. Nessuno lo vede, ma io lo so. Le ali stanno arrivando.
È dolore, sì, ma è anche nascita. Le ossa si dilatano, la pelle si tende e poi… un respiro lungo come un volo. Stendo le braccia verso l’alto e, con un leggero salto, spicco il volo. Sotto di me e sopra di me, un infinito senza meta.
Quando mi svegliai, potevo ancora sentire il prurito delle ali sulla pelle.
Mi crebbero le ali la notte in cui smisi di aver paura. Quando non mi interessava più dove mi trovavo, ma dove potevo andare.
Ora volo. Non nel cielo, no, ma tra le parole, nei sogni degli altri, nei silenzi che sanno ascoltare. Le mie ali non sono piume, ma luce e memoria. Non si vedono, ma ci sono. Ogni volta che scelgo la verità, ogni volta che perdono, ogni volta che suono, ogni volta che scrivo.

Floraviva

Nel tempo dopo il Tempo, quando delle gloriose città che popolavano la Terra erano rimasti solo macilenti scheletri di cemento e ruggine, e il cielo portava la memoria del fuoco nelle sue nubi rossastre, il verde glorioso che ricopriva il suolo era solo un pallido ricordo e il terreno nudo e secco era attraversato da esseri dalle forme contorte che lottavano per la sopravvivenza. Gli alberi, simili a fantasmi sparuti e pallidi, spalancavano i loro rami verso il cielo come braccia alzate in cerca di aiuto e l’erba, quella vera, un sussurro che solo i vecchi ricordavano. La pioggia cadeva acida, e i fiori erano diventati disegni sui muri, sbiaditi dal vento.
I sopravvissuti contendevano ossigeno e acqua al resto delle forme viventi in un mondo che continuava a girare ostinatamente.
Nel mondo del 2249, i fiori erano diventati leggenda. Non che non esistessero più del tutto, ma erano rari quanto i sogni dei bambini: visti da pochi, creduti da meno. L’aria, troppo satura di metalli e polveri sintetiche, non accarezzava più le corolle, e le api erano svanite come note al termine di una sinfonia.
Ma Lira non aveva mai smesso di sognare il profumo di qualcosa che non conosceva ma che, dentro di sé, sentiva appartenerle. Abitava nella periferia di quella che un tempo era stata una grande metropoli e che ora era conosciuta con il nome di Oblivonia, in una casa ereditata da un nonno che ricordava solo per un sorriso nelle vecchie foto, sempre accanto a piante in fiore. Il giardino dietro casa era ora un terreno duro e sterile, coperto da plastica rinsecchita e muschio grigio.
Una sera di pioggia sottile e luce fredda, durante uno dei suoi momenti di sconforto, in cui la solitudine le pesava più del solito, Lira salì nella soffitta della casa, un luogo che odorava di passato e di polvere stantia, alla ricerca di echi del passato in grado di tenerle compagnia. Rovistando fra i cumuli di oggetti dimenticati, trovò un vecchio baule di legno. Sopra c’era inciso un fiore a sei petali, intarsiato nel legno con mani amorevoli. Dentro, avvolti in vecchi stracci, c’erano decine di libri. Veri, con pagine consumate e illustrazioni colorate: trattati di botanica, erbarî, diari con note scritte a mano, come preghiere alla terra. E poi, più in fondo, piccole bustine di carta cerata, ciascuna etichettata con cura: Lavandula angustifolia, Rosa canina, Calendula officinalis, Papaver rhoeas… semi. Veri semi, addormentati come stelle in attesa del buio giusto.
Un tesoro dimenticato.
Con le mani tremanti, Lira li accarezzò a uno a uno, come fossero neonati.
Accanto a ciò, un biglietto scritto dal nonno: “La Terra ricorda, anche se dorme. Se hai trovato questo, vuol dire che il tempo del Risveglio è vicino. Non avere paura di piantare sogni”.
Da quel momento Lira si dedicò completamente alla lettura. Ogni sera, scopriva come fare fiorire una pianta. Studiava i terreni, le esposizioni, le cure. Poi, un giorno, quando si sentì pronta, recuperò dei vecchi arnesi da giardinaggio arrugginiti e cominciò a scavare nel suo giardino. Arò le zolle di terra rinsecchite e aride, la nutrì con compost che creava lei stessa usando vecchie ricette del nonno. Piantò i semi con la devozione di chi sa di toccare qualcosa di sacro.
Le stagioni cambiarono lente, come le sinapsi del mondo che tentava di ricordare. E un mattino, un germoglio. Poi due. Poi un’esplosione di verdi e viola, gialli e rossi. Il giardino si riempì di vita. Il vento profumava. Gli insetti tornarono. Prima piccoli coleotteri, poi farfalle sottili come carta, e infine… il ronzio.
Un suono dimenticato si diffuse tra le corolle: il canto delle api.
Arrivavano da lontano, come se il giardino fosse un faro acceso nella notte sterile. Lira costruì piccoli rifugi, osservò i loro voli, ascoltò i messaggi segreti che portavano da fiore a fiore. Era come se il nonno parlasse attraverso di loro, una lingua fatta di pollini e danza.
Il giardino di Lira divenne leggenda. Altri giovani vennero a vedere, a chiedere, a imparare. E pian piano, altri semi furono piantati, in altri giardini. Il futuro ricominciò a fiorire, da una soffitta, da un baule, da una ragazza che aveva creduto nei sogni scritti sulla carta. La città venne ribattezzata Floraviva e, in ogni petalo nuovo che sbocciava, c’era il battito del cuore di un mondo che non voleva arrendersi.

Heal the World

La finestra sul giardino mostrava i colori, cupi e sgargianti al tempo stesso, di un prato carico di fiori sovrastato da un cielo gonfio di temporale.
Le nuvole correvano sospinte dal vento che, come impazzito, frustava le fronde del grande tiglio posto al limitare della staccionata che contornava la villa.
«Buona questa tisana», dissi alla mia amica che accarezzava distrattamente il suo gatto.
Lei si girò verso di me. Per qualche ragione, quando posava il suo sguardo nei miei occhi, percepivo le sue iridi chiare, poi mi stupivo di quanto, invece, fossero scure. Forse perché inizialmente guardava distrattamente oppure perché era ancora persa nel suo mondo, dentro di sé, ma poi, poi, scrutava con attenzione le mie espressioni, come per vedere cosa diceva la mia anima.
«È di fiori di tiglio. Li ho colti io stessa da quell’albero», disse indicando con il mento fuori dalla finestra.
«E di cicoria, camomilla e menta. Ne trovo un sacco nei campi di fronte casa», aveva aggiunto. Il suo tono era sereno, non compiaciuto, ma tutte le volte, io mi sentivo in difetto perché, al contrario, a malapena riuscivo a riconoscere una margherita da una calendula.
Un tuono spezzò il silenzio che era caduto su di noi come una soffice coperta. Non ci serviva parlare troppo. Soprattutto, a nessuna delle due piaceva parlare del più o del meno. Di libri sì, su quello avevamo gusti in comune. Sulla musica si discuteva, ma rischiavamo di litigare perché eravamo agli opposti.
Il gatto fece un balzo, e un altro tuono lo fece scappare sotto il divano. Nella corsa, aveva fatto cadere un acquerello. Lo aveva fatto lei. Raffigurava un airone in volo.
La mia amica approfittò di avere le mani libere per tagliare una fetta di torta che mi porse sopra un piattino di fine ceramica tedesca.
«Crostata di prugne. Il mio albero ne era stracolmo».
Io, in tutta onestà, era da un po’ che adocchiavo la crostata, così non riuscì a rispondere subito perché ne avevo già un bel pezzo in bocca.
«Buona, buonissima. Beata te che sei brava a fare i dolci. Io no. Lo sai», le avevo poi detto.
«È questione di come si è fatti», mi aveva risposto.
«In che senso?».
«Per fare i dolci devi essere una persona rigorosa, attenta a rispettare le dosi, il procedimento, seguirlo nei minimi dettagli. Non si può improvvisare».
«Già, io, se proprio mi viene voglia di fare una torta, non guardo nessuna ricetta. Vado a caso. Qualche volta riesce, ma la maggior parte delle volte il risultato è deludente. Ma sì, hai ragione, io non sopporto tanto seguire le procedure. Però mi vengono bene altre cose, tipo le lasagne o le tagliatelle al ragù».
Per quanto possibile, i suoi occhi diventarono ancora più scuri: «Sai che non mangio carne».
Lo sapevo, certo, e mi sarei morsa la lingua. Avrei potuto dire che facevo bene che ne so, il purè o la pasta e zucchine. Invece, qualcosa dentro di me suggeriva che, se eravamo amiche, non era per via delle similitudini, ma dei contrasti.
«E so anche fare l’anatra imbottita e pure il coniglio arrosto», le dissi guardandola in segno di sfida, come per farla arrabbiare, ma sul mio viso, un accenno di sorriso dispettoso tradiva l’intenzione di porre tutto sul piano di una satira un po’ cinica.
In un primo momento, lei era rimasta impassibile. Un altro tuono aveva scosso il silenzio che si era creato. Poi si era alzata, aveva percorso la sala e si era seduta al suo strumento preferito. Ne provò l’accordatura, poi mi disse: «Ti suono ‘Heal the world’».

Un gelato

Ci siamo dati appuntamento in piazza per bere un caffè. È un pomeriggio pieno di sole. Bambini che giocano rincorrendosi e mamme sedute ai tavolini che chiacchierano. Il solito tran-tran pomeridiano a Pantigliate. Arrivo e ti vedo, sei li ad aspettarmi davanti al panificio Sala. Minuta, vestita con un pantalone leggero e una maglietta casual. Non posso che constatare che nel tempo hai perso un bel po’ di chili. Un paio di anni fa hai deciso di metterti a dieta ferrea e la tua costanza ti ha premiato. Ogni tanto qualcuna ti chiede: “Ma come hai fatto?” e tu sorridendo e appoggiando la mano sul braccio della tipa di turno rispondi:” Con tanta fame…”. Oggi hai raccolto i capelli in una piccola coda e la tua frangetta ti fa da contorno al viso.

Mi accogli con un sorriso e mi chiedi:” Andiamo da Cafezinho?”

Io ti guardo e rilancio con: “E se ci prendessimo un gelato vero in gelateria?” Io sì che dovrei mettermi a dieta, penso, ma oggi è proprio uno di quei pomeriggi dal cielo azzurro e il calore primaverile che ti invitano a godere di un buon gelato.

Mi guardi con un’espressione nel volto che implora “non dovrei”, ma subito un pensiero che ti passa nella mente la cancella e così rispondi: “ma si dai facciamo uno strappo alla regola”

E così ci incamminiamo attraversando la piazza. Fianco a fianco, mi sento così imponente nella statura e nelle dimensioni.  Sorrido pensando che da quando ti conosco ho sempre avuto soggezione di te. Ti ho sempre visto come una donna acculturata, piena di voglia di fare. Sei sempre in movimento.

Arriviamo in gelateria, ordiniamo e paghiamo i nostri due coni e tu incominci a gustare il gelato lentamente. Si vede che non ne mangi molti e te lo assapori piano piano. Poi incominci a raccontarmi del tuo prossimo progetto. Gli occhi ti si illuminano e parli molto velocemente proprio come una bambina che mostra fiera la sua nuova bambola. Ci conosciamo da un po’ di anni e ho capito che questo è proprio il tuo modo di vivere, affrontando la vita con lo stesso spirito di una bimba che guarda questo mondo con occhi fanciulleschi.

Sedute sulla panchina terminiamo il nostro gelato, parlando di cose da fare, da realizzare.

Il sole incomincia a nascondersi tra le case. Per te si sta facendo tardi, devi andare. Lui ti aspetta per cenare insieme. Ti congedi da me dicendo di salutare Francesco e con passo spedito ti avvii verso casa. Sorrido pensando che tu non cammini mai, corri!

Torno al mio appartamento con una marcia in più, carica dell’energia che mi hai trasmesso. Torno con la voglia di fare.

Villa Biscossi, PV – 1848

Rosa venne chiamata da suo padre, che le comunicò che lui e la moglie avevano scelto il suo futuro sposo. Rosa era in età da marito già da due anni, aiutava la madre e i fratelli nelle faccende domestiche, badava alle galline e l’anno prima aveva lavorato per la prima volta insieme alle altre mondine al servizio della famiglia Pallestrini.
La sorella più grande, Teresa, figlia della prima moglie di suo padre, Veronica, prestava servizio in casa Pallestrini come domestica già da dieci anni e si trovava bene. Il padrone, che di professione era cerusico, era esigente e di poche parole, ma giusto con lei, raccontava.

Tutte le mogli dei suoi fratelli e i mariti delle sue sorelle erano stati scelti dai genitori tra i figli delle famiglie contadine del piccolo borgo agricolo lomellino dove la famiglia si era stabilita due generazioni prima, ai tempi del nonno Carlo, capostipite del clan al serivizio dei Pallestrini di Mede.

Vivevano in cinquecento a Villa Biscossi, la famiglia Pallestrini gestiva un’importante azienda agricola che comprendeva diverse cascine. <span class=”relative -mx-px my-[-0.2rem] rounded px-px py-[0.2rem] transition-colors duration-100 ease-in-out”>La proprietà agricola dei Pallestrini si estendeva su un ampio territorio, comprendente terreni irrigui e coltivazioni di riso, cereali e foraggi, oltre all’allevamento di bovini.</span> <span class=”relative -mx-px my-[-0.2rem] rounded px-px py-[0.2rem] transition-colors duration-100 ease-in-out”>Questa azienda agricola era nota per l’adozione di pratiche agricole moderne e per l’attenzione alle condizioni di vita e di istruzione dei lavoratori.</span> <span class=”relative -mx-px my-[-0.2rem] rounded px-px py-[0.2rem] transition-colors duration-100 ease-in-out”>I Pallestrini partecipavano a importanti esposizioni internazionali, come l’Esposizione Universale di Parigi del 1856, per presentare i prodotti agricoli di Villa Biscossi.</span>

La maggior parte dei lavoratori erano mezzadri per i Pallestrini, ma i parenti di Rosa erano bifolchi, si occupavano dei buoi.

Rosa era nata in casa come tutti, era la decima dei figli di suo padre, di cui ne sopravvivevano sette. Sua madre si era risposata dopo essere rimasta vedova e aveva dato alla luce Siro, Maria e Maria Teresa. Francesco era nato da una relazione extra-coniugale del padre Ambrogio.

Rosa era una bambina equilibrata e vivace, dotata di grande sensibilità. Dalla madre e dalla zia materna aveva ereditato la propensione per i sogni ad occhi aperti, ma aveva anche imparato a ricamare e si divertiva a comporre intricati disegni per la sua futura dote.

Sognava di sposare, come una sorella più grande, un uomo agiato, o per lo meno un artigiano o un commerciante, che la trattasse gentilmente e guadagnasse abbastanza da farle mangiare qualche volta la carne. A casa loro la carne si vedeva raramente, al massimo qualche rana o qualche pesce catturato dai fratelli nei fossi.

Alla sera si sedevano tutti attorno al fuoco sull’aia e, mentre arrostivano pannocchie di mais e pescato, Rosa intonava canzoni per l’intera famiglia. Aveva un animo gentile e non mancava mai di portare l’acqua per dissetare i genitori e i fratelli nei campi, era il suo compito.

Dunque il padre le comunicò il nome del suo futuro sposo. Rosa lo conosceva fin da bambina, avevano giocato insieme a rotolarsi nel fieno, si erano arrampicati insieme sugli alberi e insieme si erano lanciati nei fossi nelle assolate giornate d’agosto per acchiappare rane e pesci.

Il futuro sposo voleva diventare commerciante e Rosa sapeva che aveva in progetto di lasciare Villa Biscossi appena possibile e trovare il modo di imparare a leggere e scrivere. Lì da loro erano tutti illetterati, anche i genitori di Rosa firmavano i contratti con una croce. Era appena passato il giorno di San Giorgio, patrono dei lattai, e Rosa aveva visto come suo padre aveva siglato la vendita del latte di dieci vacche al lattaio del paese: una stretta di mano e una pacca sulla spalla, poi una croce su un grosso foglio.

Cominciò a sognare anche lei: come sarebbe stata la sua vita se avesse imparato, non dico a scrivere, ma almeno a leggere? Avrebbe potuto leggere delle storie ai figli che avrebbero avuto, avrebbe potuto cercare delle poesie e filastrocche, ché le piaceva tanto quando le raccontava il cantastorie girovago che una volta all’anno arrivava in cascina.

Recupero all’oralità (29/11/2019)

Prima del consueto scambio di baci e abbracci per augurarci la buonanotte, anche stasera racconto ai miei due amati nipotini “storie” della mia infanzia. Soddisfo la loro curiosità rendendo i ricordi a misura di bambino/bambina. Sotto il piumino del lettone, ancor prima che inizi, si preoccupano di strapparmi la promessa che domani faremo la stessa cosa. In cambio mi donano ampi sorrisi d’intesa, applausi sinceri e molti grazieee. Devo a questa forma di trasmissione culturale, a me cara, il sentirmi aperta alla sincerità. Avvolta da un’intima sensazione di pura gioia, godo dell’affetto che regala essere nonna.

“”” Alla fine di ogni anno scolastico delle scuole elementari, i miei genitori decidevano di portarmi insieme alle mie due sorelle maggiori in un piccolo paese collinare, dai parenti materni. Qui avremmo trascorso l’intero periodo delle vacanze estive.

Portare”, però, non è la parola esatta. A quei tempi, infatti, l’unico mezzo di cui disponevamo era una bicicletta da donna, un po’ arrugginita, forse di colore marrone. In quegli anni, dopo la guerra, circolavano davvero pochissime automobili. Quindi, occorreva prendere i mezzi di trasporto. Per percorrere una distanza di duecentottanta chilometri impiegavamo quasi l’intera giornata. Oggi in macchina basterebbero tre orette.

Partivamo sempre con mamma. Vivevamo in periferia e, per salire sul primo tram del mattino, uscivamo di casa all’alba. Il tram era vecchio e ci dava tremendi scossoni soprattutto quando il conducente frenava. Dopo cinquanta minuti traballanti finalmente si arrivava al capolinea, alle porte di Milano. Qui prendevamo un mezzo chiamato filobus diretto alla Stazione Ferroviaria. Il “nostro” treno era antiquato, tutto di ferro e legno. Oltre a puzzare un po’, era scomodo, rumoroso, lentissimo e si fermava in tutte le stazioni. Sferragliando sui binari produceva un acuto stridore che ci faceva fischiare le orecchie, ma ci portava solo a metà del nostro viaggio.

Per proseguire dovevamo scendere ed attendere l’arrivo di un secondo treno chiamato “Littorina”. Questo nome derivava dalla città di Littoria che oggi è chiamata Latina e si trova nella regione del Lazio. Durante quella sosta, mamma apriva il cestino del pranzo, toglieva i nostri panini e ci sollecitava ad andare a bere dalle fontanelle pubbliche. Non so se le conoscete. Erano a spruzzo e fornivano acqua pulita lungo tutti i marciapiedi delle stazioni. Ricordo benissimo che, dovendo chinare la testa per bere dallo zampillo che saliva dal basso verso l’alto, tagliente come una lama l’acqua mi entrava nelle narici. Dal secondo treno scendevamo nel pomeriggio. Prima di intravedere il casolare dei nonni ci attendeva una camminata di diversi chilometri.

Fuori dalla stazione, paziente e puntuale, ecco il fratello di mamma che, al termine dei festosi saluti, posizionava sul telaio diagonale della bicicletta della zia, la nostra unica valigia. Per mantenerla in equilibrio camminava adagio chiacchierando accanto a noi. Era compito di mamma scrivergli una lettera un mese prima, per confermargli l’orario del nostro arrivo. Con un’altra figlia piccola da accudire a casa, lei sarebbe ripartita quanto prima, o addirittura il giorno dopo.

Noi sorelle, felicissime di essere finalmente in vacanza, non accusavamo alcuna stanchezza. Ogni istante di quel viaggio era pura magia, un’avvincente avventura da gustare. Dai nonni ci saremmo riempite gli occhi e il cuore di nuovi colori e odori e, grazie a Dio, lo stomaco di nuovi sapori. Io, curiosissima non riuscivo quasi mai a stare ferma, come fossi caricata a molla, e fremevo, e correvo, saltellando dalla gioia.

Le vacanze non erano “a gratis” come direste voi. Dovevamo guadagnarcele aiutando gli adulti. Tutti i giorni – compresa la domenica – ci venivano assegnati alcuni lavoretti: faccende domestiche, pulizia del cortile o del pollaio, accudire le chiocce e le loro covate, innaffiare l’orto dello zio e, perfino, armarci di forche e rastrelli per collaborare alla raccolta del fieno. Naturalmente, essendo tutte noi otto cuginette piuttosto piccole d’età, e anche di statura, pur dimostrandoci instancabili, non sempre eravamo in grado di fare le cose per bene. Però imparavamo in fretta, andavamo d’accordo, condividevamo tutto e ci divertivano tanto, soprattutto la sera.

Adoravo, adoro tutt’ora, l’odore dell’erba appena tagliata che profumava di terra, di fiori, – principalmente ciclamini – e insetti. Spesso mi tuffavo sopra un cumulo di fieno, mi rotolavo, fingevo di nuotare e non smettevo di annusarlo. Era inebriante e irresistibile, ma voi non avete idea della difficoltà per togliere i fili d’erba dai capelli prima di ripresentarmi a casa!

Spesso alcuni contadini del paese raggiungevano gli adulti della famiglia sui prati, portando i loro attrezzi a spalla. Ci aiutavano spontaneamente nel lavoro dei campi. Sotto un sole estivo sempre infuocato, accompagnavano il sudore della fronte con canti, racconti e mille risate contagiose. Ad allietare quelle giornate di fatica avevamo il cibo della “banca alimentare del nonno”: fette di polenta dorate e croccanti, salumi e formaggi, pomodori e tutta la frutta che volevamo. I grandi svuotavano velocemente i fiaschi di vino per bere “un bicchiere di quello buono”. Noi correvamo a dissetarci direttamente ad una fonte di acqua limpida e piuttosto gelida, che scaturiva abbastanza vicino.

Ricordo che una volta durante la raccolta dell’uva, la “vendemmia”, a furia di mangiare un piccolo graspo qui e uno là, una delle mie sorelle si ubriacò. Barcollava pericolosamente e non smetteva di ridere a crepapelle tenendosi l’addome con le braccia incrociate. Le risate ci contagiarono mentre lei supplicava: “Qualcuno mi aiuti mi scoppia la pancia!!!”

Il meritato premio per aver raccolto i grappoli dell’uva a bacca nera, consisteva poi nell’affidarci il compito di provvedere alla loro “pigiatura”: So che sapete, avendolo sperimentato a scuola, che veniva fatta con i piedi. Dentro ad un enorme mastello di ferro, disobbedendo ai consigli dei grandi, senza calzare gli stivali, schiacciavamo migliaia di acini da cui far uscire il succo e la polpa. A me piaceva inzupparmi fino a sembrare uno spaventoso zombie. Infatti, come tutte, ero di colore blu, rosso e viola. Riuscite ad immaginare il divertimento? Tra spinte, risate, parolacce, scivoloni, urla di protesta ci gettavamo addosso a piene mani quel miscuglio dall’odore sgradevole. Anch’io, incapace di reggermi in equilibrio, scivolavo andando a sbattere da ogni parte. Ignoravamo volutamente il dolore del corpo. Il giorno successivo le vesciche alla pianta dei piedi ci costringevano a camminare lentamente, rinunciando a correre o saltare.

In quel delizioso paesino, che contava meno di cento abitanti, in compagnia di parenti generosi, persone sane di buon carattere, e fruendo di cibo ottimo e abbondante, so di aver trascorso le più scanzonate, le più felici e le più istruttive vacanze della mia giovane vita.”””

Si è fatto tardi. Osservo i volti angelici dei miei silenziosi nipotini. Si stanno assopendo. Sorrido e rifletto su quanto ho raccontato. Repentinamente davanti agli occhi mi balena l’immagine di nonna Lisetta, la mamma di mia madre. Per colpa del suo adorato gatto Toni, poco si era fatta benvolere da me. Oggi che sono nonna e che, almeno per ora, i ricordi non sbiadiscono in un grigio tramonto, amerei poterle stare accanto su quella “sua” panchina. Felino permettendo, con tenerezza la vorrei stringere al cuore in un lungo silenzioso affettuosissimo abbraccio.

N.B.13 aprile 2025 A distanza di sei anni oggi rileggo questo racconto. I miei nipoti, studenti liceali, ormai sono entrambi assai più alti di me. E la ragnatela delle mie rughe nel frattempo si è infittita.

Hai lasciato (Luglio 2001)

Hai lasciato il tuo sorriso appeso alle pareti della stanza,

il tuo volto riflesso nel grande specchio,

la forma del tuo corpo sprofondato in poltrona,

le tue mani, tenere amanti, in movimento tra i miei capelli,

i tuoi passi, fruscio leggero, sul moquettato pavimento,

i tuoi occhi liberi di correre tra le mie braccia,

hai lasciato le tue labbra inchiodate per sempre alle mie

SONO RIUSCITA

Alla fine, me ne sono andata come volevo. Nel posto in cui sono ora, il tempo non scorre e l’aria profuma di glicine, come sul patio della nostra casa, dove usavamo mangiare tutti insieme nelle belle giornate di sole. Qui tuttavia i giorni non hanno peso.

Da qui posso vedere tutto, ma non posso toccare nulla, se non i cuori. Ho tutto quello che posso desiderare, ma mi mancano moltissimo le mie figlie.

Certo, ho provveduto ad aiutare ciascuna di loro: alla più grande ho procurato il lavoro fisso che tanto agognava. Non è cattiva, poverina, ma non ha troppa voglia di impegnarsi. Si sacrifica fino ad annullarsi, per la famiglia: per la nonna, per la sorella, per me… Ma la mattina, se deve alzarsi presto, è una battaglia. Comunque, ce l’ha fatta. Ora lavora in uno stabilimento farmaceutico, ha delle brave colleghe, si trova bene, ha uno stipendio fisso, fa una vita regolare.

Alla più piccola, invece, ho fatto incontrare l’amore della sua vita. È cubano, un bel ragazzone alto e con una bella parlantina, che l’ha fatta innamorare. È quello che ci voleva per una sanguigna come lei. Professionalmente è una donna capace, non avrà problemi.

Loro non sanno che sono stata io, anche se l’amica della mia figlia più grande, quella che scrive, l’ha capito subito che c’era il mio zampino. Del resto, con lei avevo un rapporto speciale: mi sentivo più sua amica io delle mie figlie. Quando ci trovavamo a parlare, ci intendevamo subito perché condividevamo gli stessi valori un po’ fuori moda: vestirsi in modo femminile, ma non volgare, le camicie da notte della nonna coi pizzi, le gonne a fiorellini, lo stile gitano, le stoffe provenzali, l’amore per la conoscenza, il parlare colorito ma non sguaiato, la pacatezza, la dignità, il femminismo.

Del resto, è a lei che ho chiesto aiuto quando mi sono resa conto che in quel modo non potevo più andare avanti.

Un giorno mi disse: «Sai, la parola giusta può cambiare tutto.» Ridevamo delle frasi a effetto che scriveva nei suoi racconti, di quella sua idea che il mondo si potesse risolvere con la bellezza della scrittura.

«Io non so scrivere» le risposi, «ma so leggere. E capisco quando qualcuno dice la verità.»

Lei sorrise, quasi sollevata. Ero la sua lettrice ideale, diceva. Io non lo sapevo ancora, ma era lei che avrebbe scritto la mia storia.

Quando le ho detto che non ce la facevo più, mi ha guardata con occhi intensi. Ho aspettato che dicesse qualcosa, che trovasse una soluzione, che facesse la magia delle parole che sapeva usare così bene.

Ha solo scosso la testa.

«Non posso aiutarti» ha sussurrato.

In quel momento, qualcosa dentro di me si è spezzato. Se nemmeno lei poteva salvarmi, allora non c’era davvero più niente da fare.

Forse avrei dovuto combattere di più? Pensavo che ci fosse una strada. Invece non c’era.

Quella sera, quando anche lei mi disse che non poteva aiutarmi, capii di stare urlando in un pozzo vuoto.

Mi accasciai nel mio letto sanitario, in silenzio.

Spensi l’interruttore.

Smisi di lottare.

La mia truppa se la cava, anche senza di me. Il padre delle mie figlie sta lentamente andando in declino, la vita fa il suo corso. Mia mamma tra un po’ mi raggiungerà. Ci stiamo già preparando ad accoglierla.

L’amica di mia figlia non lo sa, ma a volte le sussurro all’orecchio. L’altra sera, mentre correggeva un suo racconto, ha trovato una frase che non ricordava di aver scritto.

L’ha letta più volte, si è passata le dita sulle tempie, ha controllato i vecchi appunti.

Ma no, quella frase non era sua.

Eppure era lì, impressa in inchiostro nero.

Sono sicura che ha capito.

Sono sempre stata più brava a leggere che a scrivere, ma questa volta ho fatto un’eccezione.

Mi guardo intorno.

Qui ho tutto.

Tranne il mio cuore, che è rimasto laggiù.

Un condominio democratico

Nel condominio De Verbis, in via Paradigmi, abitavano molti tempi e modi.
Era un condominio democratico dove ognuno diceva la sua e si teneva conto delle opinioni di tutti.
Sempre in primo piano c’era il presente che, ogni tre per due, batteva i tacchi e ripeteva ad alta voce: «Presente», al secondo piano viveva l’imperfetto che, non sentendosi perfetto, stava sempre nascosto e non parlava con nessuno.
Al terzo piano si trovava il passato che, siccome guardava sempre indietro, soffriva di cervicale e ripeteva continuamente che: «Una volta si stava meglio», al quarto c’era il trapassato che, poverino, non comunicava più perché era morto.
Al quinto piano abitava il futuro che, essendo un po’ indolente, procrastinava ogni azione ripetendo: «Farò, dirò, studierò…» ma non concludeva niente.
Il sesto piano era di proprietà del congiuntivo che, con un po’ di puzza sotto il naso, si lamentava terribilmente perché molte persone non lo conoscevano o ne sbagliavano l’uso.
Al settimo piano, con la testa fra le nuvole, viveva il condizionale, modo dei sogni, che ripeteva a se stesso: «Vorrei, vivrei, andrei…» e infine all’ottavo, nell’attico, si trovava l’infinito perché, essendo infinito, dal terrazzo voleva vedere l’orizzonte.
Un giorno, i tempi e i modi decisero di indire una riunione condominiale perché qualcuno nel palazzo non pagava le spese.
L’amministratore Participio Deciso si accorse subito di chi era la colpa: era del trapassato che, non essendoci più, non poteva onorare le spese.
L’assemblea, democraticamente, votò di offrire ospitalità a un altro modo, ma non all’imperativo perché voleva comandare solo lui.
Era rimasto il gerundio il quale arrivò nel condominio cantando, ballando e rallegrando la giornata di tutti.
Il problema si presentò la sera quando, addormentatosi, passò la notte russando, russando e russando così forte che tenne tutti svegli.
L’assemblea si riunì nuovamente per risolvere il problema. Modi e tempi votarono all’unanimità per insonorizzare il quarto piano, dove si trovava il gerundio, così, sia i piani sotto che quelli sopra, non sarebbero più stati disturbati dal russamento: di notte tutti avrebbero dormito e di giorno si sarebbero divertiti.
Ma chi avrebbe pagato l’opera?
Il gerundio, naturalmente, decise l’assemblea. Il loro era o non era un condominio democratico?

La bambina e la baby sitter

Roxana piangeva lacrime amare, chiusa nell’armadio per non farsi trovare dalla baby sitter. Era buio lì dentro e aveva paura che la vecchia serratura difettosa si inceppasse. Ripensava a quando la maestra, alla fine dell’anno, aveva premiato la classe con la lettura de “Il leone, la strega e l’armadio”. Erano in seconda, allora. Magari avesse potuto fuggire in un altro mondo attraverso l’armadio! Tastò il pannello di legno, ma era solido e inchiodato.
Il groppo che aveva in gola le aveva impedito di difendersi e spiegare perché non era colpa sua per ciò che era successo a Billy, così la baby sitter l’aveva ritenuta colpevole. Avrebbe riferito tutto ai genitori.
Roxana non aveva pianificato nulla. Era stata una specie di vocina dentro la sua testa che le aveva suggerito di prendere il coltello più grosso dal ceppo in cucina, prima di rifugiarsi nell’armadio. Quando la baby sitter, cercandola a gran voce, aprì l’anta dell’armadio, le si scagliò contro con un grido e affondò il coltello senza guardare. Giustizia era fatta!
La vista del sangue la fece barcollare. Sgorgò fuori con un ‘blob’, come nei fumetti, poi la sua mano fu investita da un liquido caldo e appiccicoso.  Puzzava.
Si ritrasse istintivamente,  gettò il coltello e scappò giù dalle scale senza sapere bene dove andare. La nonna! La nonna sicuramente le avrebbe offerto rifugio e protezione. In fondo, era l’unica parente vera che le fosse rimasta, dopo la morte dei genitori per un’overdose quando Roxana era piccola. I servizi sociali l’avevano sballottata da una famiglia all’altra, ma la nonna c’era sempre durante le vacanze estive e qualche volta anche nei fine settimana. Però era vecchia e malata, non poteva occuparsi di lei sempre, così le aveva spiegato l’assistente sociale.
Era stato facile scappare dalla prima famiglia quando l’avevano rinchiusa in casa da sola mentre andavano a fare compere. Con una forcina per capelli, in venti minuti Roxana era riuscita ad avere la meglio sulla serratura e se l’era svignata. Sfortunatamente l’avevano trovata subito dalla nonna e l’avevano rispedita a casa.
Nella seconda famiglia erano più guardinghi, forse li avevano avvisati. Le porte avevano dei catenacci che si potevano aprire solo dall’esterno. Scappare era impossibile. Lei però aveva escogitato un modo per  avvelenarli pian piano, mettendo una mezza pastiglia di sonnifero sbriciolata nella minestra ogni sera. Ogni settimana aumentava la dose. Quando era arrivata a tre pastiglie e mezza, la madre aveva avuto un incidente d’auto mentre era alla guida ed erano morti sia lei che il marito. Nessuno aveva sospettato nulla.
Così era finita nella terza famiglia, dov’era ora. All’inizio le cose sembravano andare bene, poi il fratello aveva cominciato a prendersi delle libertà. La picchiava quando i genitori non c’erano e aveva anche provato a spogliarla per “farle vedere come si fa”. Lei si era ribellata e lo aveva morso. Così era cominciata la guerra fredda tra di loro, a colpi di agguati.
La sera in cui i genitori erano andati al cinema avevano chiamato la baby sitter per curare entrambi. Roxana stava giocando nella sua stanza quando Billy era entrato senza far rumore. Le aveva fatto cenno con un dito sulla bocca di tacere. La schiena di Roxana si era irrigidita subito, tutti i suoi campanelli interni di allarme suonavano. Urlare subito o saltargli addosso prima che avesse modo di preparare una difesa? Optò per la seconda e gli si avvinghiò a una gamba. Gli arrivava fino al petto, in fondo Billy aveva solo quindici anni ed era pure in ritardo con lo sviluppo. Lo graffiò in viso e sulle braccia con tutte le sue forze, come un gatto, come una tigre. Il ragazzo non poté trattenere un urlo e cercò di scalciarla via. Lei ritornò alla carica con una gragnola di pugni che lui non si aspettava, cercò di restituirli, ma Roxana fu più veloce e lui non si muoveva più.
Fu a quel punto che arrivò la baby sitter, allertata dal fracasso che avevano fatto cadendo e rotolando in mezzo alla stanza.
Roxana scappò per i campi fino a una fermata dell’autobus, che aveva visto arrivare. Saltò su e scese al capolinea, prese la metropolitana e si avviò a casa della nonna, attenta a nascondere la mano insanguinata dentro il maglione. Qualche adulto la guardava un po’ più a lungo del solito, ma poi prevaleva il disinteresse e la paura di cacciarsi in qualche bega. Arrivò dalla nonna che era già buio. Sgattaiolò nel capanno degli attrezzi e aspettò che la nonna accendesse la luce della camera da letto. Solo allora si arrischiò a bussare tre volte contro il vetro. Era il loro segnale. La nonna sapeva che in quel modo bussava solo Roxana al vetro della finestra. Infatti si precipitò ad aprire la porta sul retro. Roxana entrò. Da principio la nonna non si accorse del sangue, non ci vedeva molto bene e la luce dell’abat jour era fioca. Era anche un po’ sorda, così Roxana dovette urlare per farsi comprendere.
Un vicino che era ancora in giardino a tagliare le piante nonostante il buio sentì tutto. Sentì come la bambina raccontò dell’attacco col coltello alla baby sitter e come chiese alla nonna di nasconderla.
Fu la sua testimonianza in tribunale che la inchiodò. Per l’omicidio della baby sitter fu condannata a sette anni di carcere. La nonna morì di crepacuore poco dopo la sentenza.
“Ti puoi rifare una vita” le dicevano le suore che venivano a trovarla in cella una volta alla settimana.
Quando riuscirono a spegnere l’incendio della villa di Sean Diddy Combs a Los Angeles fu trovato un cadavere carbonizzato. Sulla base dell’esame del DNA, gli esperti forensi determinarono che il corpo corrispondeva a un individuo di razza caucasica, di sesso femminile, di circa quindici anni, in stato avanzato di gravidanza.

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