Ciao topolino, guarda un po’ dove siamo stasera.
Un’ora fa stavamo mangiando uno yogurth e dipingendo un cassettino, guardando fuori dalla finestra la neve che cadeva.
E ora siamo qui. Sai che sto facendo ora? Sono qui a piedi nudi, e sto guardando le piastrelle di un pavimento.
Le solite lastre di linoleum degli ospedali, queste sono verdine sai? un po’ strisciate qui e là.
Guardo i miei piedi, il verdino sporco, una pozzetta di sangue li’ a terra che, a quanto dicono, pare sia il mio, o il tuo, non ho ancora capito ma non importa molto.
Urlano un po’ tutti, ci sballottano. Infilano flebo e cateteri. Mi stanno letteralmente strappando vestiti, collane e orecchini. Qualcuno telefona “codice rosso, arriviamo”.
Sai topolino, si dice che esista una qualche forza nascosta e misteriosa. Lei arriva quando la tragedia sembra si stia per abbattere sulla nostra testa, ci abbraccia e per qualche attimo ci trascina via da lì.
In un luogo quieto dove ciò che ci sta accadendo è un problema altrui.
E mentre lo tsunami si gonfia e si prepara a travolgerci, noi pensiamo alla serie tv preferita, a quella ricetta di biscotti che ancora non abbiamo provato, alle tende etniche arancioni che vorremmo ma che non troviamo in nessun negozio.
Non so se è per questo…
Ma io ora, in mezzo a tutto questo fracasso, sto solo pensando con un sorriso che dovevi nascere sotto il segno dei Pesci, ma a quanto pare sarai un Acquario, e a noi Bilance gli Acquari piacciono un sacco.
Ora c’è questo medico grande e grosso che ci si pianta davanti.
Forse è irritato dal fatto che il suo smonto turno, evidentemente per colpa nostra, finirà ben più tardi del previsto.
Forse è basito dal fatto che in quella stanza, dove tutti corrono e strillano, io sembro una drogata che si guarda i piedi, tenendo una mano su quel pancione che è più piccolo di quello che dovrebbe essere. Forse ha solo paura, perché ora è tutto nelle sue mani, e se finisce male, sono grane grosse anche per lui. Mi prende le spalle, mi scuote leggermente: «Signora, non credo che il bambino ce la faccia. Signora ha capito? Ha capito che il bambino difficilmente glielo tiro fuori vivo?»
Alzo il viso dal pavimento verdastro e dai miei piedi, lo guardo negli occhi.
Che dice questo dottore? Ma che ne sa lui, topolino, di me e di te? Che ne sa che sei il mio ennesimo figlio, che i figli si amano tutti, ma ce ne sono alcuni che cascano nella vita, quando tutto sembra piatto e immutabile, per scrollarti e farti ripartire.
Che ne sa che sei piombato in un matrimonio ormai finito, in un grembo stanco che ormai pensava che di ‘ste cose non doveva più occuparsi. Dentro una donna che non sapeva più né chi era né dove andare.
Il dottore non lo sa, topolino, che da che sei qui dentro di me, mi hai fatto scoprire una forza che non pensavo di avere. E un amore che mi scalda come un fuoco quieto e scoppiettante, che sa di buono e di frasi piene di speranza e coraggio.
Questo dottore non può venirci a dire che tu forse muori topolino. Mica lo sa quanta forza ci siamo dati e quanti progetti abbiamo per noi.
E mentre ci addormentano con un ago, noi siamo sereni, vero?
Perché il dottore non sa niente di questo amore rosso e caldo, dell’abbraccio in cui ci teniamo da che sei apparso nella mia vita, come avvolti in una coperta di pelliccia a guardare le fiamme di un camino grande e allegro.
È passata, alla fine, questa incredibile notte di neve. E ora, nella mattina bianca e gelida che l’ha seguita, arrancando appesa alla flebo, busso alla porta della nursery.
Mi apre un’infermiera gentile, le sorrido: «Posso vedere il mio bambino per favore?»
Sei pieno di tubicini e piccolo come un coniglietto, e non mi stupisco affatto di vederti gia’ con gli occhi spalancati a cercare di capire da che parte iniziare a gustarti la vita.
Appoggio la mani sul vetro della tua incubatrice, c’e’ li’ attaccato un biglietto con su scritto il nome che ho scelto per te, quello che sarebbe stato il mio, se fossi stata un maschio.
«Ciao topolino, vedi che il dottore si sbagliava? Noi lo sapevamo vero?»
Giri un poco la testa verso la mia voce, spalanchi un po’ di più gli occhi.
Mi hai sentita e mi hai capita.
Io lo so e tu lo sai.
Benvenuto a te, amore mio.
La terra di Ines
Ines è vecchia. Ha ancora il 6 davanti… Ma lei sa di essere vecchia.
Non sa che peso ha nell’anima e nel corpo per farla muovere così lenta, per farla rintanare sempre di più nel suo salotto, l’eterno centrino da finire tra le dita gonfie. A volte ci pensa, alzando lo sguardo dall’uncinetto che dondola, sul perchè è così vecchia.
Forse è stato tutto il lavoro nei campi di quando ero ragazzina, le gravidanze, i sacrifici. I figli sotto le braccia nei rifugi, coi bombardamenti sulla testa, che sa mai quando sarebbe toccato a loro. Le pentole vuote, i ragazzini affamati, le dita spaccate dal gelo, che a lavar panni di ricchi lungo il Naviglio, qualche soldo in più entrava in casa.
Forse ecco… è stata un poco giovane quando, ormai in pensione, coi soldi risparmiati e i figli sistemati, lei e suo marito Primo hanno deciso di realizzare l’unico sogno che si erano permessi.. lì custodito da così tanti anni. Lasciare Milano e tornare alla loro Emilia, così impressa nelle carni dell’anima da farli sentire forestieri ovunque, e costruire la loro casa.
Aveva, l’orto, il frutteto, il pollaio e la conigliera… lo scantinato per le sementi e gli attrezzi. È stato il Primo a costruire tutto, mattone per mattone, ripiano per ripiano.
Il Primo, che in un giorno qualsiasi, lui che mai si era ammalato, ha perso la luce negli occhi, si è messo a letto e mai più si è alzato. Ecco, quel giorno che è rimasta in piedi di fianco a quella fossa al camposanto, Ines è tornata vecchia.
Ha messo nei bauli tutti i vestiti del Primo, ha preso due ragazzoni che si occupano di tutto, e lei fa centrini tutto il giorno, nel salotto buono degli ospiti, dove ormai non ci entra più nessuno.
Si alza con fatica solo per metter su una pastina, un uovo sodo, e poi rimette l’uncinetto tra le dita, tanto prima o poi il Primo la viene a prendere. Ma un giorno è accaduto che una delle sue figlie, in eta’ in cui di gravidanze non se ne dovrebbero far più, ha messo al mondo questa nuova bambina.
E questa cosa proprio l’ha messa in subbuglio, turbando quella lentezza immutabile che lei ha deciso essere l’unico spazio in cui sopravvivere. Vengono tutti i fine settimana, la figlia, il genero e questa piccina che, Dio la perdoni, proprio la Ines non sopporta. Le vuole bene, certo, si deve voler bene ai nipoti, per forza è così.
E lei ci prova, ci prova veramente, ma appena la vede dalla finestra, che inizia a saltare dall’orto al granaio, e poi nel frutteto, e mette quelle manine dappertutto, il respiro le si fa corto, piena di fastidio nel petto per tutta quest’aria bizzarra che questa bimba sparge in giro.
Arriva poi un giorno in cui gliela lascian lì una domenica mattina: «Mamma andiamo ad una sagra di paese lontana, la bimba si annoia, la lasciamo con te va bene»?
Vorrebbe urlare Ines… che no, non va bene e proprio non vuole… Ma come sempre nella vita, sorride e annuisce. E inizia questa domenica terribile. Ines la chiama dalla finestra: «Bimba non andar lì, bimba lascia stare le galline che le spaventi, bimba esci dal granaio, che se se si rovescia un sacco ti schiaccia».
Ferma alla finestra, con il respiro veloce che appanna il vetro, Ines pensa che se poi la bimba si fa male, la figlia e il genero avranno da ridire.. Sospira esausta, posa il centrino e inizia a scendere le scale che portano all’orto.
«Bimba, bimba dove sei?»
Esce da dietro un muro, sudata, con la magliettina sporca di terra e questi occhietti da furetto che scoppiettano.
«Nonna nonna… Ho scoperto dei tesori bellissimi, te li faccio vedere, vieni vieni vieni..»
La tira per un dito, e lei vorrebbe scrollar via quelle manine sporche, e dirle che lo sa bene cosa c’è nella sua terra, che il suo Primo ha costruito pezzo per pezzo. Ma sorride di sforzo, e si fa trascinare nel granaio.
«Nonna prova, se infili la mano nei sacchi, i chicchi le si mettono tutti attorno e la accarezzano.. E poi nonna, se metti dentro la faccia e respiri, senti che profumo di pane e biscotti».
Sospira Ines: “Va bene lo faccio, magari poi la bimba si mette tranquilla”.
Non si ricordava cosa fosse infilare una mano nei sacchi… Il miglio, il mais, il grano, la crusca… Quel profumo di forno e di pastone. Segue la bimba ad ogni sacco, finché questa le prende ancora il dito e lo tira: «Ora nonna vieni a conoscere le galline, sono diventata amica di tutte».
E lentamente Ines arranca al pollaio, il dito stretto non da’ più così fastidio.
Ed ecco la Nerina, la Parlante, la Fosca, la Lulù… Perchè Primo dava a ciascuna un nome, anche se poi finivano tutte nella pentola. E le vengono attorno chiocciando, e riesce ad abbassarsi quel tanto che basta per sfiorare le loro piume.
Che non ricordava fossero così morbide.
La bimba ride e le tira il dito, perché a quella piccola età, c’è troppo da scoprire per soffermarsi su qualcosa… «Nonna l’orto, l’orto, vieni a vedere cosa ho trovato».
Cammina piano Ines, con le gambe gonfie… ed ecco i pomodori, le carote, le insalate. Gli alberi di susine, di pesche, di ciliegie.
La bimba davanti che saltella, e che poi le si pianta davanti con aria seria: «Ora nonna, la cosa più meravigliosa… Non si vede ma si sente… Inginocchiati di fianco a me». Mai avrebbe pensato la Ines di riuscirci, anche solo di provarci. Ma scricchiolando e gemendo, si ritrova accucciata di fianco alla bimba.
«Nonna, fai come me, infila le mani nella terra… È calda nonna, vuol dire che è viva». Infila le sue dita nella terra smossa e sì: è calda, è viva. La terra, la sua terra.
Che in una qualsiasi domenica d’estate, le ha ricordato di riprendere a vivere.
Scricchiolando e gemendo, Ines si tira in piedi.
«Bimba, andiamo, ti faccio la cioccolata». Non le tira più il dito, sorride e infila la manina nella sua.
E, pian piano, rientrano in casa.
Le Brave Mamme non abitano qui
Sai… Quelle settimane di quelle che ti fanno sospettare di essere stata dimenticata da Dio
Dove nulla è filato liscio, dove hai corso come un criceto nella ruota, senza neanche capire come hai fatto a lasciare indietro la maggior parte delle cose che dovevi fare
Sprofondando in quel tristemente noto senso di inadeguatezza che è spesso la colonna sonora delle tue giornate.
L’ultima energia rimasta la usi per riscuoterti.
Decidendo che ti meriti una coccola solo per te.
Quindi ti programmi una serata osé.
Chiamerai la pizzeria, mangerai nel cartone e sfrontatamente non lo leverai neanche dal tavolo, sdegnato dagli schizzi di sugo che resteranno a seccare tutta la notte.
Poi scalcerai le ciabatte, e sprofonderai nel divano con una coppa di prosecco gelato.
La morte dei giusti, dopo un numero indefinito di episodi di qualsiasi serie tv che abbia lo spessore culturale di un foglio di carta velina.
Per spegnere i pensieri, mandarli in fondo alla nuca, tanto domani torneranno a blaterare.. Ma stasera stiano in cantina.
Con un ghigno sotto i baffi, dai fondo alle ultime energie per metter via la spesa, componi contemporaneamente il numero del pizzaiolo e stai lì tutta emozionata all’idea di tanta grazia che aspetta.
Ma il figlio piccolo, con le antenne che solo i cuccioli sanno alzare, sentendo nell’aria che qualcosa di insolito sta per accadere, scende galoppando dalle scale….
“Mamma ho una fantastica idea per noi due stasera… Ci potremmo preparare un bel ciotolone di pop corn, poi andiamo insieme sul divano e ci guardiamo il film dei Transformers… Eh mamma? … Eh?… Eh?”.
Col respiro un po’ mozzo e la confezione dei broccoli ancora in mano, stai li’ a guardare quel faccino emozionato, quegli occhi che brillano.
Lo sai, lo hai letto, te l’hanno infilato nelle carni coi chiodi…
Una brava mamma, anche se stanca, trova sempre le energie per approfittare di qualsiasi occasione di condivisione con i propri figli.
Ci pensi, fai un respirone, raddrizzi le spalle.
Ti pieghi sulle ginocchia, lo abbracci, lo guardi negli occhi teneramente…
“Piccolo mio, amore bello… i Transformers mi fan schifo, e se non vuoi che la mamma si suicidi proprio stasera, prenditi i pop corn, il portatile e portatelo in camera, orari illimitati”.
Galoppa felice su per le scale, il bimbo… Il sacchetto in una mano e il portatile sotto l’ascella.
E tu plani sul divano.
Il prosecco in una mano.
Il telecomando nell’altra.
E sia.
Forse le Brave Mamme non abitano qui
Diego il Gatto
Sono una signora di mezza età con le sue abitudini.
E mi alzo all’alba per aver mezz’ora di pacioso silenzio, col caffè e la sigaretta.
Vado al lavandino della cucina, giro la testa verso la finestra e aspetto Diego il Gatto.
Che terminati i bagordi notturni, in giro per i giardini altrui, scavalca il cancelletto e salta sul davanzale.
Gli apro la finestra, ma c’è da aspettare che si contorca il suo numero di volte, prima di degnarmi del suo ingresso.
Gnaula, aspetta alla ciotola, si fa la sua bustina, si stiracchia, va sul divano e si infogna nella sua copertona rossa.
Prima di addormentarsi, mi fissa per un po’…
Sarebbe bello pensare che mi guardi con amore e gratitudine… Ma felinamente parlando, è assai più probabile che faccia considerazioni sulla vita di merda che conduco io, mentre lui sta a pastellarsi la coperta tutta mattina.
Questa è l’abitudine mia e di Diego.
Ogni mattina che Dio mette in terra.
Stamattina ero al lavandino, con le occhiaie di una mignotta a fine turno e con gli occhi talmente gonfi da far fatica a tenerli aperti.
Ho girato la testa verso la finestra, e mi sono concessa un piccolo lusso.
Ho fatto finta di vedere Diego saltare il cancelletto un’altra volta.
Ho aperto la finestra, e ho fatto finta di guardare il grassone contorcersi un’altra volta.
Ho aperto la bustina.
Ho preparato la coperta.
Per un’altra mattina.
Come tutte le mattine che Dio mette in terra.
Cosa vuoi che ti dica, Diego?
Va’ e corri nel cielo?
Va’ e vola nel cielo?
Ma va la’…dove cavolo vuoi volare e correre, gatto mio adorato?
Sei partito con uno zaino sul groppone, te lo abbiamo messo addosso noialtri quattro, la tua famiglia con le gambe.
Uno zaino che pesa un quintale, né corse e né voli, quindi..
Potrai solo camminare pian piano, con quel borsone sulla schiena.
Ma è pieno di tutto il nostro amore, e so che non ti dispiacera’ portarlo
️
La carezza dell’acqua
Seduta sulla barca.
Guardo il più incredibile mare che io abbia mai avuto sotto gli occhi.
Tutti si buttano… Chi si tuffa, chi si cala dalla scaletta.
Nessuno fa caso a me, tutti presi a nuotare e starnazzare.
Neanche l’acqua fa caso a me, né alle mie dita aggrappate al bordo della barca.
Mi canto le solite filastrocche.
Non importa.
Non e’ necessario.
Non è fondamentale.
Anzi, il bagnato, il sale sono sempre vagamente fastidiosi.
Ma non so che giorno è oggi, però le mie bugie hanno il suono stridulo di una campana rotta.
E il mio corpo senza permesso, si alza, mette le mani sul bordo della scaletta e inizia a scendere… L’acqua che gli accarezza il ventre e le cosce.
Ora gli urlo qualcosa.
Cosa fai, come osi.
L’acqua è pericolosa.
Non respirerai.
Soffocherai.
Annegherai.
Morirai.
Sarai inghiottito e annientato.
Ma davvero non so che giorno è oggi, questo corpo non mi ascolta.
E mi sporgo per recuperarlo, per tirarlo in salvo, sciagurato senza senno.
Ma scivolo piano anch’io, l’acqua che avvolge, e confonde, e lava la paura.
L’acqua che per la prima volta fa caso a me…
Mi sorride, mi abbraccia, mi accoglie, mi sostiene.
Apro le braccia, mi lascio andare e riprendo a respirare.
E me ne sto li’ stupefatta come fosse il primo giorno di una vita nuova.
L’acqua ci tiene.
Me e la mia paura.
E mi sfascio la bocca in un sorriso, il viso bagnato, il sale dell’acqua e delle mie lacrime.
Eri mia madre
Eri mia madre.