Il pescatore errante dell’Asia

Me lo racconti ancora, papà? Mi racconti di quando ad Aral c’era il mare?

La testa si riempie di sogni se si vive di un sussidio statale e poco altro, il tempo scorre tumultuoso come acqua nelle fogne e la puzza sale al cervello, i pensieri muoiono e marciscono diventando incubi terribili. Levent è troppo giovane per essere vaccinato contro il vaiolo, per aver visto uomini e cani partire per lo spazio, per aver assistito alla caduta dello Stato, per aver sperato nella democrazia e per aver visto il mare. Sebbene nato dopo tutto, ignorante di un passato troppo lungo, non gli serve certo un’illuminazione per accorgersi che lì intorno è tutto uno schifo. Basta guardare i volti dei più grandi, che tengono dentro agli occhi una nostalgia schiacciante, come il sole a picco che opprime il deserto intorno alla città.

È vero papà? È vero che le ragazze si vestivano bene e passeggiavano la sera sul lungomare?

Si va via quando non se ne può più. Se il lavoro non c’è non si può mai cominciare, e se mai si inizia mai si finisce. Chi lo dice che da un’altra parte le cose vadano meglio? Lo si sente dire dai camion che grugniscono tra la polvere, operai di una mattina scaricano grandi casse che contengono frutta, verdura, carne, pesce, oggetti e vestiti che sono poi venduti nei negozi. Da qualche parte devono pur arrivare.

È vero che alla stazione di Aral arrivavano le famiglie importanti dalla capitale per trascorrere le vacanze? Che la sera i teatri erano aperti e la gente usciva per assistere ai concerti? Che la mamma andava dal parrucchiere e ne usciva pettinata alla moda?

I suoi genitori gli hanno raccontato tutto questo, di come anno dopo anno la città è morta in preda ad un’agonia lenta, e secca. Levent si è fatto l’ultimo selfie quella mattina, l’ha caricato come stato su Telegram, ha ricevuto alcune reazioni dai suoi amici, poi è calato il silenzio. Più si allontana dalle ultime case più il segnale si indebolisce, ha collegato il cellulare ad una batteria che si ricarica con la luce solare, che nel deserto non mancherà. Per la traversata ha chiesto alla sua famiglia di potersi portare un asino, che è resistente, porta in groppa sia il ragazzo sia il suo essenziale bagaglio e non si cura se ad un certo punto i suoi zoccoli cominciano a scricchiolare su una distesa di sale.

Levent ha detto ai suoi genitori di voler andare nella valle dell’Amu Darya, cercare un impiego in una piantagione di cotone e mandare qualche soldo a casa, solo così li ha convinti a cedergli l’asino. Per raggiungere la fertile valle deve attraversare il mare di Aral, a piedi, perché di tutta quella grande acqua non rimane più niente. Scende lungo un lieve pendio e si ferma un poco a riposare, all’ombra dello scafo di un grande peschereccio arrugginito, appoggiato a una duna di sale. Quello appartenuto alla sua famiglia era più piccolo, si è arenato non molto lontano. C’è passato davanti poco prima e vi ha potuto leggere alcune lettere del nome della mamma.

Lo sfortunato mare di Aral era la casa di tanti pescatori che dividevano le sue fragili onde con gli uccelli acquatici, e con la vecchia flotta militare dello Zar che presidiava l’Asia centrale. La sua grande debolezza, essere un mare interno, se l’acqua non arriva più il sole e il vento lo spazzano via.

L’asino di Levent cammina lento verso una catasta di bastoni bianchi, liquidi all’orizzonte come un miraggio. Il suo sguardo confuso da quel malsano viaggiare incrocia enormi orbite vuote e inespressive, appartenute ad un pesce smisurato. Occorrono decine di passi per arrivare fino alla fine dello scheletro di quell’antico mostro acquatico. Anche suo papà avrebbe potuto vendere pregiato caviale, se avesse però comprato un peschereccio più grande.

Fra pochi giorni Levent raggiungerà finalmente l’acqua. la troverà imbrigliata da una catena di dighe e di chiuse, che cingono l’Amu Darya e lo addomesticano, ne raddrizzano le anse serpentine per convogliarlo verso distese sterminate di batuffoli bianchi.

Ha in testa una tale confusione. Dà la colpa al sole a picco, ma si accorge che nemmeno riposando all’ombra di una grande roccia i suoi pensieri riescono a trovare un senso. La storia che si è raccontato è buona, all’inizio sollevare sacchi di cotone non sarà una passeggiata, ma gli metterà in tasca qualche soldo, abbastanza da chiedere a una ragazza di uscire. Anche nella valle dell’Amu Darya le ragazze credono in Dio, quindi non dovrebbero esserci problemi. Se si lavora e si rispettano le regole le cose andranno lisce come devono andare.

Tuttavia Levent non riesce a togliersi dalla testa quegli enormi occhi fantasma del deserto, quel muso appuntito rivolto all’insù, come se cercasse disperatamente di respirare. Si risveglia ma quel sogno rimane lì: se in quelle dighe lungo il fiume si aprisse uno spiraglio, e l’acqua libera riuscisse a fluire via… il grande storione potrebbe riprendere a nuotare.

 

Io ricordo

  1. Tappezzeria scozzese sui toni del marrone, ero nell’anticamera di casa nostra. Avevo sei anni e chiesi a mia madre “Mamma, che cos’è la coscienza?”. “Quella che tu non hai” fu la sua risposta. Sentivo mio fratello, più grande di me di otto anni, sghignazzare in sottofondo. Ne sapevo quanto prima.

2. Ricordo che amavo dormire sotto il letto, non sopra. La nostra casa aveva molta moquette. In quegli anni si usava, mia madre la amava perché conferiva una sensazione di calore e accoglienza, si poteva camminare a piedi nudi senza timore di prendersi un maldigola. Ovviamente ce l’avevamo in tutte le camere da letto, oltre che in soggiorno. Ce l’avevamo pure in mansarda, nel seminterrato, sulle scale. Sulle scale era costituita da dei rettangoli incollati che evitavano al piede di scivolare.
Grazie alla moquette, il pavimento non era mai freddo ed io mi ci sdraiavo volentieri. Facevo tutto sul pavimento: puzzles, Lego, biglie, giocare col cane e, appunto, dormire. Ricordo che mi piaceva la sensazione di cuccia sotto al letto: la rete a molle sopra la mia testa, lo spazio appena sufficiente per girarmi.
Ricordo che a volte sentivo i miei genitori salire al piano notte, aprire la porta accostata della mia camera da letto e ridacchiare alla vista di me che dormivo sotto invece che sopra il letto.
Mio fratello non lo faceva mai, non l’aveva mai fatto.

3. Quando ero bambina avevo un cane di nome Yuri. Come Yuri Gagarin. Aveva il mantello marrone e il pancino bianco, anche i calzini erano bianchi e avevano un buon odore d’erba. L’avevamo preso al canile, ricordo che la sua pipì appena arrivato a casa nostra aveva un odore molto forte. Ci mise parecchio per normalizzarsi, e mantenne comunque sempre un odore pungente, di cui ci lamentavamo ogni volta che sostavamo in giardino, d’estate.
Yuri era il mio compagno di giochi, il mio confidente e il mio capro espiatorio. Già intuivo vagamente la scala gerarchica familiare, di cui io ero l’ultimo gradino, ma un giorno mio fratello la rese esplicita dicendo che l’unico su cui io potevo esercitare un qualche potere era il cane.
Il gioco preferito mio e di Yuri era metterci sotto la cassapanca, in un punto in cui il biondo legno di cirmolo veniva illuminato dal sole del pomeriggio, poi io facevo sbucare la mano dallo spazio sotto le gambe della cassapanca e Yuri doveva prenderla. Digrignava sempre i denti e starnutiva a più non posso, cosa che mi divertiva assai.
Ricordo che un giorno che mi sgridarono duramente decisi che, se i miei genitori avessero fatto del male a Yuri – come a volte minacciavano quando faceva la pipì in casa – non avrei più parlato per lo shock (dovevo aver visto alla televisione qualcosa del genere).
Yuri fece una fine triste. Esasperati dalle continue manifestazioni di disagio canino (quando partivamo, pur rimanendo lui in compagnia della nonna, spesso alzava la gamba contro l’angolo del mio letto), all’età di dodici anni lo fecero “addormentare”. Mia mamma non ne poteva più. “La sua vita l’ha fatta” fu il commento di mio papà. A quel tempo non c’era la sensibilità verso gli animali che c’è oggi.
Io continuai a parlare.

Tenendoci per mano: I MELONI DI MIO PADRE

Sono nata in un piccolo paesino della Lombardia, dove gli inverni sono freddi e umidi e le estati calde e afose. Il vento non sapevo neanche cosa fosse. Io l’ottava di nove tra fratelli e sorelle, mio padre un padre-padrone. Quando avevo dodici anni mia madre morì, mio padre si risposò praticamente subito ed io, quasi la più piccola, imparai a fare da schiava ai miei fratelli più grandi. Fu così che appresi la gerarchia tra uomini e donne.

Mio padre commerciava in meloni. Avevamo campi e campi a perdita d’occhio, mio padre assumeva lavoranti per l’estate, che governava con pugno di ferro. Più tardi arrivarono le serre e più avanti ancora gli immigrati che lavoravano in nero per un tozzo di pane. I meloni si vendevano bene. Nella mia famiglia, nonostante fossimo in tanti, non abbiamo mai sofferto la fame.

Il giovedì e la domenica mio padre li caricava su un carretto trainato da due cavalli e li portava sulla piazza del mercato del paese vicino, a venti minuti di cammino. Là, sotto il sole, le massaie tastavano, annusavano, se li rigiravano tra le mani fino a scegliere il migliore, poi lo infilavano nella sporta a rete, a volte due, tre, quattro alla volta, e li portavano alle loro famiglie.

Io da bambina qualche volta aiutavo: mi arrampicavo in cima al carretto e sceglievo quelli che mi venivano indicati, ritiravo il denaro, quando fui in grado di contare davo anche il resto.

All’una, dopo aver ripulito lo spiazzo a noi assegnato, caricavamo l’invenduto e tornavamo a casa leggeri, dove la mia aveva preparato tre marmittone fumanti di pastasciutta al pomodoro, o la polenta. I miei fratelli ed io mangiavamo avidamente e in men che dica era tutto finito. A me toccava aiutare a rigovernare, poi si faceva il bucato e verso sera ci si ritrovava attorno al camino e alla stufa a legna a raccontare storie e a commentare i fatti della giornata mentre mia madre, le mie sorelle ed io ricamavamo. Le donne non dovevano mai essere inoperose, nemmeno nei momenti di riposo. Fu così che iniziai a preparare il mio corredo da sposa.

Poi non lo usai mai. Mi sposai presto, che il corredo non era ancora pronto, per sfuggire a quella vita di solo lavoro.

Conobbi mio marito in una calda sera d’estate profumata di fieno appena tagliato.

Siccome ero la ribelle di famiglia – ed essendo la penultima di acqua sotto i ponti ne era passata – decisi di saltare la cerimonia in chiesa e mi sposai solo in Comune, a Palazzo Reale a Milano. Per la mia famiglia fu uno scandalo e mi predissero morte e sventura. Fortunatamente non andò così male: con mio marito regalammo la vita a tre figli, che studiarono e ci diedero grandi soddisfazioni, vivemmo insieme fino a tarda età, in discreta salute e in buona armonia.

Quando morì mio padre, l’azienda fu rilevata da uno dei suoi fratelli più giovani, che aveva una nidiata di figli. Ogni tanto vedevo una delle sue figlie arrampicarsi sul pianale del furgone nella piazza del mercato e gestire le richieste di meloni delle massaie che, come nella mia infanzia, non mancavano. Le terre della mia famiglia sono ricche e i meloni ci crescono bene. Sono sodi, colorati, zuccherini. Ogni tanto ne sparisce qualcuno, dice mio zio, ma è nell’ordine delle cose. Una delle mie nipoti prenderà in mano le redini dell’azienda, lo vedo già, lei molto più capace e intraprendente dei suoi fratelli: ci sa fare con le signore, è gentile, complice, fa qualche euro di sconto e loro si sentono speciali, sentono di avere un’alleata, perché è donna, sta dalla loro parte. Mio zio è inflessibile e burbero, un gran lavoratore, ma con le persone non ci sa fare. Sua moglie lo assiste defilata, quasi spaventata e grata di quella figlia tardiva che le evita certe incombenze, questo regalo di Dio che sta tirando su le sorti della famiglia, con i suoi doni di diplomazia e il suo fidanzato instancabile lavoratore dalle mani d’oro, che ha rimesso a nuovo l’impianto elettrico di tutta la casa.

I miei fratelli sono tutti sposati, in chiesa naturalmente, e ognuno ha la propria famiglia. Non ci siamo spostati di molto, ci incontriamo ancora spesso per un motivo o per l’altro nei paesini intorno a quello dove siamo nati, spesso ci incrociamo al mercato o a qualche festa di famiglia. Io sono rimasta la pecora nera, ma nessuno mi deride più. La maggior parte di loro ha tresche o vive di apparenze, io amo mio marito: per strada ci teniamo per mano e aspettiamo la pensione mia per poter realizzare il nostro sogno di viaggiare. Nel frattempo mio marito si tiene impegnato, anzi, non ha un minuto libero e dice che non gli basta il tempo! Da pensionato!!

Appena è andato in pensione si è iscritto a un progetto di apicoltura alternativa, top-bar credo che si chiami, nel quale le api non vengono sfruttate come col sistema tradizionale. Nel giro di un anno ha fatto installare sul tetto della nostra casa pannelli fotovoltaici e un sistema di recupero dell’acqua piovana che ci fa risparmiare 600 metri cubi di acqua all’anno.

Le domeniche d’autunno traffica con i telai per gli alveari, le domeniche di primavera va alla ricerca di nuovi pascoli per le famiglie di api ormai cresciute, durante la settimana sforna pane e focacce che regaliamo ai figli e agli amici, poi si è aggregato a un progetto per far partire una comunità energetica nei paesi vicini, che purtroppo non si è realizzato. Mi sento fortunata quando riusciamo a fare qualcosa insieme!