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Io ricordo

  1. Tappezzeria scozzese sui toni del marrone, ero nell’anticamera di casa nostra. Avevo sei anni e chiesi a mia madre “Mamma, che cos’è la coscienza?”. “Quella che tu non hai” fu la sua risposta. Sentivo mio fratello, più grande di me di otto anni, sghignazzare in sottofondo. Ne sapevo quanto prima.

2. Ricordo che amavo dormire sotto il letto, non sopra. La nostra casa aveva molta moquette. In quegli anni si usava, mia madre la amava perché conferiva una sensazione di calore e accoglienza, si poteva camminare a piedi nudi senza timore di prendersi un maldigola. Ovviamente ce l’avevamo in tutte le camere da letto, oltre che in soggiorno. Ce l’avevamo pure in mansarda, nel seminterrato, sulle scale. Sulle scale era costituita da dei rettangoli incollati che evitavano al piede di scivolare.
Grazie alla moquette, il pavimento non era mai freddo ed io mi ci sdraiavo volentieri. Facevo tutto sul pavimento: puzzles, Lego, biglie, giocare col cane e, appunto, dormire. Ricordo che mi piaceva la sensazione di cuccia sotto al letto: la rete a molle sopra la mia testa, lo spazio appena sufficiente per girarmi.
Ricordo che a volte sentivo i miei genitori salire al piano notte, aprire la porta accostata della mia camera da letto e ridacchiare alla vista di me che dormivo sotto invece che sopra il letto.
Mio fratello non lo faceva mai, non l’aveva mai fatto.

3. Quando ero bambina avevo un cane di nome Yuri. Come Yuri Gagarin. Aveva il mantello marrone e il pancino bianco, anche i calzini erano bianchi e avevano un buon odore d’erba. L’avevamo preso al canile, ricordo che la sua pipì appena arrivato a casa nostra aveva un odore molto forte. Ci mise parecchio per normalizzarsi, e mantenne comunque sempre un odore pungente, di cui ci lamentavamo ogni volta che sostavamo in giardino, d’estate.
Yuri era il mio compagno di giochi, il mio confidente e il mio capro espiatorio. Già intuivo vagamente la scala gerarchica familiare, di cui io ero l’ultimo gradino, ma un giorno mio fratello la rese esplicita dicendo che l’unico su cui io potevo esercitare un qualche potere era il cane.
Il gioco preferito mio e di Yuri era metterci sotto la cassapanca, in un punto in cui il biondo legno di cirmolo veniva illuminato dal sole del pomeriggio, poi io facevo sbucare la mano dallo spazio sotto le gambe della cassapanca e Yuri doveva prenderla. Digrignava sempre i denti e starnutiva a più non posso, cosa che mi divertiva assai.
Ricordo che un giorno che mi sgridarono duramente decisi che, se i miei genitori avessero fatto del male a Yuri – come a volte minacciavano quando faceva la pipì in casa – non avrei più parlato per lo shock (dovevo aver visto alla televisione qualcosa del genere).
Yuri fece una fine triste. Esasperati dalle continue manifestazioni di disagio canino (quando partivamo, pur rimanendo lui in compagnia della nonna, spesso alzava la gamba contro l’angolo del mio letto), all’età di dodici anni lo fecero “addormentare”. Mia mamma non ne poteva più. “La sua vita l’ha fatta” fu il commento di mio papà. A quel tempo non c’era la sensibilità verso gli animali che c’è oggi.
Io continuai a parlare.