Archivia 15 Ottobre 2023

Commerciale e Pasticcere

Commerciale incontra Pasticcere Eataly.
Si amano e vanno a vivere assieme.
Comprano casa insieme in un paesino di provincia.
Trovano una casa vicina anche per la madre di Commerciale.
Dopo vent’anni, sono ormai solo amici.
Non si lasciano per non dare un dolore alla madre di Commerciale.
La madre muore di Covid.
Si lasciano.
La madre di Pasticcere piange.
Commerciale acquista una nuova casa in centro paese e adotta cinque gatti.
Commerciale e Pasticcere si vedono tutte le settimane.
Commerciale impara a cucire.

Maria Amalia

Mi chiamo Maria Amalia, ho  l’hobby dell’uncinetto e frequento un gruppo che si ritrova presso il centro anziani Auser del mio paese.

Ho novantaquattro anni e, siccome vivo da sola e raramente ho ospiti, una settimana sì e una no faccio la torta allo yogurt per le mie compagne di uncinetto. Mi fanno un sacco di complimenti. A volte qualcuna mi chiede di confezionarle una presina, di vendergliela: io non vendo niente, semmai regalo. Sì, perché dopo antipatiche questioni, ho deciso di non vendere più nulla. Lavoro all’uncinetto per la parrocchia. Passo il tempo e mi aiuta a concentrarmi: mi alzo alla mattina alle sei, faccio colazione con caffè e biscotti, sciacquo i piatti e preparo gli ingredienti. Una volta pesati e messi in fila, accendo il forno e comincio a mischiarli. Mi piace pensare che, mentre cucino, le mie coetanee fanno cose simili: indovino le loro case, le loro vite, i loro pensieri.

Mentre la torta cuoce, sistemo la casa. Mi muovo col deambulatore, per cui vado piano, però faccio tutto: prima il letto, matrimoniale, donatomi da mia suocera buonanima. Non l’ho mai potuto soffrire, così convoluto e pesante, in stile spagnolo, ma ai miei tempi non si faceva gli schizzinosi. Poi innaffio le piante, che mi mette di buonumore e alla mia età ci vuole: basilico e prezzemolo, li aggiungo al pasto che mi portano a mezzogiorno. Per fortuna i volontari dell’Auser che me lo consegnano sono sempre allegri. Infine la sala-cucina, dove c’è il divano su cui lavoro all’uncinetto, leggo, guardo la televisione. Entro le dieci bisogna essere presentabili e lo deve essere anche la casa, diceva mia mamma.

Quando la torta è pronta, faccio la prova stecchino, spengo il forno e socchiudo lo sportello. Il vapore profumato si spande per tutta la casa e mi ricorda mia nonna, quando andavamo a trovarla nel fine settimana e lei preparava la torta per me e mia sorella.

Non ho avuto una vita facile, ma non mi lamento, e poi sono ancora qui, mentre la maggior parte dei miei coetanei se n’è andata da un pezzo.

Amo ascoltare la storia della vita delle persone. Quando ne ho la possibilità, cerco di ascoltare bene e memorizzare, poi a casa mi faccio i miei film e a volte li scrivo pure. Da giovane ho lavorato per un giornale ed ero anche brava, avevo un discreto numero di lettori. Oggi c’è Internet, io uso WhatsApp, ma a me piace ancora leggere il quotidiano di carta. In paese lo compro a giorni alterni, in vacanza lo prendo sempre. Ero un’avida lettrice, la mia maestra diceva che avrei potuto avere un futuro come scrittrice. Purtroppo in famiglia c’era bisogno del mio stipendio, così sono andata a lavorare presto, però ho fatto le serali e mi sono diplomata alle Scuole Magistrali.

Il mio primo lavoro è stato come insegnante privata per una famiglia di agricoltori del mio paese. Avevano tre figli, tutti e tre malaticci, così li facevano istruire privatamente. Oltre a me, che insegnavo italiano, storia e geografia, c’era il maestro di matematica, testa fina e gran viaggiatore, per lui presi la mia prima cotta. Ci scambiavamo bigliettini, mi faceva molti complimenti, ero bella a quel tempo, un figurino coi miei capelli lunghi e la vita sottile.

Mi offrirono un posto presso la scuola alberghiera: davo lezioni alla sera, in cambio ricevevo vitto, alloggio e un piccolo stipendio. Fu lì che mi appassionai alla cucina. Essendo diventata buona amica di una delle aiuto-cuoche, cominciai a raccogliere ricette. Risparmiavo ogni lira perché volevo affittare una stanza per conto mio, dove poter essere indipendente e cucinare.

Ora sono vecchia e molti cibi mi disturbano, ma allora potevo mangiare di tutto e lo facevo con giusto. In albergo affinai il palato e presto seppi distinguere una frittata da un’omelette francese, un budino da una mousse au chocolat.

Quando ebbi messo da parte un gruzzolo sufficiente, aprii un catering: lavoravo giorno e notte, a volte mi aiutava mia sorella, le soddisfazioni non mancavano.

Ebbi un discreto numero di amori. Grazie al mio lavoro conoscevo molte persone. Una volta fui invitata a un ballo da un affascinante diplomatico dell’ambasciata francese per il quale avevo organizzato un banchetto. Mi assediava da settimane, ero lusingata. Quella sera non stavo nella pelle! Un’amica mi prestò un abito di quelli attillati che lasciano le spalle scoperte. Gioielli non ne avevo, ma mi sentivo una dea in seta rossa. Camerieri in livrea servirono canapè e frittelle salate di zucchine. Ballammo tutta la sera; il mio cavaliere era galante e mi copriva di attenzioni, senonché verso fine serata lo vidi sbiancare mentre gli veniva incontro una bella donna che lo abbracciò con confidenza: era la moglie, tornata dalle vacanze in anticipo!

Ci rimasi male, ma mi servì di lezione.

Finii per sposare un cuoco. Giovanni era alto e gioviale, mi faceva ridere e sapeva ballare. Ci trovavamo insieme agli altri della brigata di cucina la domenica mattina, organizzavamo pic-nic degni della Regina Elisabetta, ognuno portava qualcosa, poi si condivideva sull’erba, come in un quadro di Toulouse-Lautrec. Alla sera Giovanni ed io andavamo in una sala da ballo e danzavamo fino a cascare dal sonno.

Ogni volta che mi portava fuori, Giovanni mi sorprendeva con un dolcetto preparato apposta per me. Continuò a farlo anche da sposati, in occasione di ogni evento importante: il compleanno, la nascita della nostra prima figlia, l’atterraggio della Missione Apollo sulla Luna, che chissà poi se ci andarono davvero.

Da quando mio marito non c’è più, qualche volta gli parlo e so che mi ascolta. Se sono in difficoltà, talvolta riesce anche a mandarmi un aiuto. Recentemente cercavo un documento, era il giorno del compleanno di Giovanni, improvvisamente sento un rumore, mi volto, vedo un libro caduto dalla libreria, aperto. Lo raccolgo: era aperto al Vangelo secondo Giovanni, all’episodio della guarigione del cieco nato. Lo poso sul tavolo, in quel momento il mio sguardo si posa sul documento che cercavo da tre giorni, appoggiato sulla credenza, che ho improvvisamente “visto”, come se prima fossi stata cieca. Ho ringraziato Giovanni e ho telefonato a mia figlia.

Buon cibo

Ho sempre avuto un ottimo rapporto con il cibo, e pessimo con la bilancia!

Da neonata paffutella a bimba magra, da adolescente tondetta ad adulta obesa.

Sono stata capace di adeguare il mio peso a quello che mi piace vedere allo specchio,

ma questo non è un peso che gli altri giudicano buono. Pazienza!

Certo, durante l’adolescenza è stato difficile confrontarsi con amiche, parenti e

conoscenti ma con attenzione ho capito che ogni forma del corpo è bella,

specialmente se cresciamo anche dentro.

Oggi si cerca di far capire che non si dovrebbero fare commenti sul peso , come

non si farebbero ad un calvo o ad una persona magrissima…

Ricordo nel mio passato quanti si sono sentiti in obbligo di elargire consigli non

utili e non richiesti;  ci sono porte della nostra vita che vogliamo aprire solo agli amici intimi,

ai nostri amori ea pochi altri.

Mangiate con gusto!

 

Nandini

Ginevra scese dal treno regionale e venne investita da una folata di vento tiepido: Nizza le dava il benvenuto con un turbinio di odori; c’era l’odore del mare d’estate, naturalmente, l’odore di stazione, costituito da acciaio e fuliggine, l’odore di cibo fritto in olio scadente.

Si incamminò verso l’indirizzo sul foglietto. Suonò il campanello e venne ad aprire Nandini, torreggiante nel suo pareo colorato incorniciato dai lunghi capelli biondo fragola. Si abbracciarono e Nandini cominciò subito a raccontare di Sokholov, il suo pianista preferito, per il quale le due amiche erano venute in Riviera. Nandini lo seguiva da molti anni e ne era innamorata; ovunque tenesse un concerto in Europa, acquistava il biglietto e andava ad ascoltarlo, rapita dalla sua bravura, meticolosità e inavvicinabilità. Le raccontò che più volte era riuscita ad andare nel suo camerino, aveva tentato di baciarlo, lui si era fin spaventato. Ginevra sussultò.

Dopo essersi cambiate, andarono a esplorare la città, la ricerca di cibo il loro obiettivo implicito.

Nandini era vegana da anni, da quando aveva vissuto in India come seguace di un monaco induista, al fianco del quale aveva approfondito le questioni fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Cosa ci faccio qui? Cosa scelgo di mangiare? Lì aveva anche scelto il suo nuovo nome, con il quale firmava le sue traduzioni.

Ginevra aveva riportato i libriccini di Krishnamurti che l’amica sudafricana le aveva prestato: Nandini le disse di tenerli. Cadevano a pezzi e, in ogni caso, ormai quegli insegnamenti facevano parte di lei.

Non era propriamente bella, ma un guizzo di infantile pazzia e la risata improvvisa la rendevano affascinante, con un corpo ancora attraente a 64 anni, merito dei geni e dell’alimentazione.

Comprarono della frutta al mercato, si fecero dei panini con pane e formaggio che mangiarono sul muretto del lungomare e parlarono degli ultimi articoli di Valdo Vaccaro, l’igienista grazie al quale si erano conosciute, traducendo entrambe come volontarie per la causa.

Il concerto si teneva in un grande anfiteatro vicino alla spiaggia. Presero posto indossando i loro più abiti estivi più belli e si immersero nella musica. Alla fine del secondo movimento, Ginevra notò come un’ombra rossastra che si avvicinava al famoso pianista e lo avvolgeva in larghe vòlute che lo circondarono lungamente e poi lentamente si dissolsero. Era stata così rapita da quello spettacolo talmente inusuale che si accorse solo allora che la sua amica si era alzata ed era andata a sedersi sugli spalti più alti dove c’erano parecchi posti ancora vuoti. Sedeva statuaria nel suo abito rosso di organza, appoggiata alla ringhiera. Ginevra la chiamò, ma non ottenne risposta. Uno strano atteggiamento di quel corpo le mandò una scossa di preoccupazione istantanea giù per la colonna. In un attimo fu a fianco a lei cercando di rianimarla, inutilmente.

Il caffè delle otto

Annuso

a occhi chiusi

l’avvolgente profumo

che invade la casa

e,come un pifferaio,

mi porta

verso la cucina.

Sorseggio

a occhi chiusi

il mio seducente elisir mattutino.

Per un po’

non parlo.

Mi penso in Brasile

tra piantagioni

grondanti chicchi rossastri.

Felice.

Apro gli occhi

e sono già sul posto di lavoro.

Peccato!

Caffè…consolazione quotidiana

Il Carnevale

Ogni anno mi prende una grande eccitazione per il Carnevale. L’emozione di vivere per qualche ora nella pelle di un altro personaggio si impadronisce di me e mi mette una specie di frenesia addosso. Purtroppo non riesco mai a preparare per tempo il costume che vorrei.

Ogni anno, al termine dei festeggiamenti, faccio elaborati piani per farmi trovare pronta alla scadenza successiva, ma quasi mai ci riesco.

Non tralascio però di travestirmi, seppure con poco.

Quest’anno ho percorso a piedi mascherata da angolana il tragitto da casa mia al paese vicino, dove la ricorrenza viene festeggiata più in grande stile da grandi e piccini. Era una bella giornata mite benedetta da un sole caldo. Sono partita a piedi col volto coperto da una maschera e con una gran voglia di fare una passeggiata. Lungo il percorso ciclo-pedonale ho mietuto sorrisi benevoli da coppie di mezza età, sguardi sorpresi da automobilisti di passaggio, occhi sgranati da bambini in bicicletta, increduli che anche gli adulti potessero vivere così profondamente questa festa. Già il percorso di avvicinamento al luogo dei festeggiamenti è stato un divertimento. Ogni tanto si incrociava lo sguardo con altre maschere e subito era intesa, sorrisi abbozzati o addirittura uno scambio di battute.

Una volta sul posto, la musica ad alto volume, i carri allegorici, la quantità di maschere mi hanno travolto e alleggerito. Insieme a molte dozzine di persone abbiamo sfilato per le vie del paese. Ho chiesto a numerosi gruppi e singoli il permesso di fotografarli, alcuni costumi erano davvero originali.

Il tema proposto quest’anno dalla ProLoco del paese era il riciclo, dunque abbondavano ampi abiti femminili realizzati con cucchiai di plastica, con carta di giornale, con materiali vari di recupero. Alcuni uomini erano vestiti da rifiuto, con una tuta bianca e una grande R sulla schiena. Ho addirittura scorto un uomo vestito con un abito realizzato in Pluriball!

Dopo l’esibizione danzereccia, la distribuzione di “chiacchiere” e la premiazione delle maschere più originali, il mio tragitto verso casa è stato allietato dalla dolcezza del tramonto sulle campagne circostanti, questi paesaggi rurali costellati da vecchie cascine tranquille, non degne di nota, ma comunque a me care.

L’anno prossimo voglio vestirmi da Marianna (Maid Marian), l’arciera di Robin Hood.

Colazione letteraria

Io soffro di insonnia. Da quando è morto mio padre vivo nel terrore di una grande disgrazia che si abbatterà su di me, non avrò il denaro sufficiente per mantenere questa grande casa in cui vivo, finirò sotto i ponti sola e derelitta, dunque dormo poco e in modo disordinato.

Generalmente però mi faccio forza e quando mi sveglio, solitamente tra le 4 e le 6 a seconda se è un periodo buono o meno buono, mi alzo e comincio a fare quel che c’è da fare.

L’unico giorno che mi sono riaddormentata a letto con le mie bambine mi sono svegliata alle 10.15. Il giorno della colazione letteraria!

Mi ero tanto rallegrata alla notizia di questo evento, me l’ero segnato sul calendario, mi ero immaginata come sarebbe stata e poi arrivo in ritardo!

Dunque ho sfamato in fretta e furia le creature, sono uscita e mi sono precipitata alla biblioteca indicata. Chiusa.

Ho controllato: l’evento era programmato per il giorno dopo.

In fondo non era un male.

In macchina, decido di dirigermi a cercare il detersivo per la lavatrice che mi manca da giorni, intanto telefono alla mia amica Laura, notoriamente non avara di parole. Mi fermo da lei e le racconto della colazione, lei è subito entusiasta e promette di venire l’indomani.

Scrivo alle organizzatrici per avvisare che saremo forse in due. In realtà poi si aggrega anche la figlia di Laura.

Il giorno dopo infilo una tazza in vetro sottile, la mia preferita, in borsa (si sa mai che ci vogliano far bere da dei bicchieri di plastica… orrore!) e mi presento nel luogo indicato.

Mentre scendo dall’auto mi accolgono Laura e sua figlia. Entriamo in una piccola biblioteca di paese, linda, luminosa e moderna.

Ci sono tre tavoli doppi apparecchiati con cura: tovagliette di pizzo, piatti di ceramica, tazze multicolori e bicchieri uno diverso dall’altro.

Su un grande tavolo sotto la finestra sono allineate le pietanze del buffet, dolci, salate e indefinibili, le caraffe, il pane tostato, tutte cose un po’ particolari.

Su una graziosissima panchina in legno con un romantico cuscino sono ammonticchiati i libri della parte letteraria della colazione: Estasi, Colazione da Tiffany, Il grande Gatsby, Persuasione di Jane Austen e altri che non conosco.

Una giovane donna in una corta gonna di velluto nero a coste e una maglia a righe rosse e nere sta già leggendo. Porta un rossetto dello stesso colore della maglia e ha due occhi azzurri molto belli e luminosi. Qualcuno mi sussurra che è la figlia del primo bibliotecario del mio paese. Buon sangue non mente.

Niente castagne per me

Rovisto coi piedi tra le foglie secche del Parco Forlanini. Ho circa 8 anni, è domenica e i miei genitori, per una volta, mi hanno portato a fare una passeggiata nel parco anche se è inverno e fa freddo. Le castagne, con la loro forma arrotondata e il bel colore caldo e lucente, mi chiamano a sè. Le faccio scorrere tra le mani, me ne riempio le tasche del cappotto, le faccio suonare, le tiro raso terra a mio fratello, ma mi fanno smettere subito; mi piacerebbe usarle ma… a me le castagne non piacciono da mangiare. Dunque per me non sono utili. Sono belle però, questo sì. Un giorno ho provato a infilare una collana di castagne, con trapano e tutto. Alla fine però l’ho buttata via, il risultato non era molto… estetico.

Oggi delle castagne apprezzo l’odore. Le caldarroste di novembre in piazza del Duomo a Milano per me sono il simbolo dell’inverno arrivato.

Forse la mia mancata simpatia per le castagne è dovuta al fatto che nella mia famiglia non c’è mai stata la cultura delle castagne. In Germania credo che non si consumino, ad ogni modo mia mamma non ne ha mai fatto cenno. Mio papà ormai era lontano dalla cultura contadina, forse anche dal ricordo della povertà che le castagne simboleggiano.

Sono riuscita a mangiarle a mia insaputa settimana scorsa a casa della Vanda che, da buona emiliana, aveva organizzato una tagliatellata a casa sua in occasione della Befana. Solo dopo ho scoperto che quelle tagliatelle un po’ scure, dal sapore vagamente dolce, erano fatte con farina di castagne. Non erano poi così male, grazie soprattutto al saporito sugo di funghi porcini.