Il mio nono compleanno

A scuola quest’anno abbiamo cominciato a studiare musica. La mia maestra di musica diceva che sono portata. Ho studiato le note facendo finta, disegnando i tasti del pianoforte sul banco. Per molti mesi ho supplicato mio papà di comprarmi un pianoforte, o almeno di noleggiarlo. Lui diceva sempre che non avevamo soldi per un pianoforte.

Due giorni prima del mio nono compleanno, il venerdì mio padre si è assentato tutta la mattina. Io ero a casa da scuola perché c’erano disordini e le scuole avevano chiuso prima.

Il giorno del mio compleanno mi sono svegliata presto, abbiamo fatto colazione tutti insieme e ho scartato i regalini che i miei genitori e i miei fratelli avevano messo sul mio piatto. Nel pomeriggio abbiamo fatto una festa in cortile: sono venuti i miei compagni di scuola e alcuni amichetti con cui gioco solitamente in strada. Abbiamo giocato a nascondino, soffiato sulle candeline della torta e mangiato patatine. A un certo punto si è fermato un furgone bianco e ha chiesto se abitava lì la signorina Haziz. “Sono io!” ho detto. “Ho una consegna per te” ha detto l’uomo. “Firma qui”.

Quando si è aperto il furgone, sono scesi altri tre uomini e in quattro hanno cominciato a spingere un’asse su rotelle su cui poggiava un grosso pacco nero imballato. Non senza fatica l’hanno trasportato in casa, io saltellavo intorno cercando di capire cos’era. Alle mie domande nessuno dava risposta.

Una volta in casa i trasportatori hanno lanciato uno sguardo d’intesa a mio padre e se ne sono andati.

Io ho cominciato a scartare il pacco, il mio cuore batteva forte. Non osavo nemmeno sperare.

Quando ho tolto il cellophane ai miei occhi si è presentato il più bel pianoforte verticale che avessi mai visto. Nero nero, lucido lucido, con una bella forma sinuosa e arrotondata, non spigoloso come quello della mia amica Fatima. Ho saggiato il do centrale, poi le note dell’ottava superiore, i bassi, l’ottava centrale. Aveva un suono meraviglioso, puro e cristallino. Non vedevo l’ora di suonarlo.

Mi sono messa in piedi così com’ero, senza nemmeno scartare lo sgabello regolabile. A un certo punto, dopo un bel po’ di tempo che suonavo in piedi, mia mamma me lo ha spinto contro le ginocchia e io mi sono seduta.

Oh felicità, gioia pura!

Ho provato tutti gli esercizi che solitamente suonavo sul banco, poi sono andata a prendere i libri di musica e ho cominciato a suonare pezzi nuovi, ne iniziavo uno, poi passavo subito al successivo e così via finché non diventavano troppo difficili.

Mia mamma sorrideva guardandomi. Sono corsa ad abbracciare mio padre e l’ho ringraziato stringendolo stretto stretto e stampandogli un grosso bacio sulla guancia. Mi è scesa anche qualche lacrima di gioia.

I miei fratelli guardavano divertiti e non troppo interessati. Mia sorella era troppo piccola per capire, ma era contenta pure lei, contagiata dall’allegria generale, percepiva che era un momento di festa, un momento bello.

I due giorni successivi dovetti andare a scuola. Contavo le ore che mancavano al suono della campanella per tornare a casa ed esercitarmi. Mi immaginavo che, ora sì, avrei potuto avere un grande futuro come pianista: viaggi all’estero, concerti, concorsi, fiori per me sul palco, applausi. Sapevo però che mi dovevo impegnare per ottenere tutto questo, dunque non volevo perdere nemmeno un minuto.

Due giorni dopo mio padre mi disse che dovevamo lasciare la città e andare per un po’ dalla nonna. Pensai che stesse male la nonna, invece mio padre disse che era scoppiata la guerra. Chiesi se potevamo portare con noi il pianoforte. “E’ troppo grande” disse mio padre. “Dobbiamo lasciarlo qua, ma torneremo a prenderlo”.

Raggiungemmo la nonna, che ci accolse con grande calore. Era contenta e sollevata di vederci. Il giorno dopo ricevemmo una telefonata dai nostri vicini di casa: avevano bombardato la nostra casa, il nostro soggiorno non esisteva più. Io non riuscivo a crederci. Il mio pianoforte nuovo! Il mio futuro!

Piansi a lungo.

Mio papà cercò di consolarmi: mi disse che, sì, sapeva che per me era un grosso dispiacere, ma la cosa importante era che noi fossimo tutti vivi. Quando i razzi cominciarono a colpire la città della nonna, sfollammo tutti insieme in  una città vicina che doveva essere più sicura, ma poco dopo arrivarono le bombe anche lì.

Nel frattempo papà era stato all’ambasciata turca a Tel Aviv e gli avevano concesso i documenti per imbarcarci tutti su una nave che andava a Istambul. Mio papà ha la doppia nazionalità palestinese-turca, così abbiamo potuto essere accolti qua. La vita è più tranquilla qua, vado a scuola, i miei compagni sono simpatici, ma a me manca il mio pianoforte.

Mi chiamo Raja Haziz e sono una bambina palestinese che ama la musica classica.

Nandini

Ginevra scese dal treno regionale e venne investita da una folata di vento tiepido: Nizza le dava il benvenuto con un turbinio di odori; c’era l’odore del mare d’estate, naturalmente, l’odore di stazione, costituito da acciaio e fuliggine, l’odore di cibo fritto in olio scadente.

Si incamminò verso l’indirizzo sul foglietto. Suonò il campanello e venne ad aprire Nandini, torreggiante nel suo pareo colorato incorniciato dai lunghi capelli biondo fragola. Si abbracciarono e Nandini cominciò subito a raccontare di Sokholov, il suo pianista preferito, per il quale le due amiche erano venute in Riviera. Nandini lo seguiva da molti anni e ne era innamorata; ovunque tenesse un concerto in Europa, acquistava il biglietto e andava ad ascoltarlo, rapita dalla sua bravura, meticolosità e inavvicinabilità. Le raccontò che più volte era riuscita ad andare nel suo camerino, aveva tentato di baciarlo, lui si era fin spaventato. Ginevra sussultò.

Dopo essersi cambiate, andarono a esplorare la città, la ricerca di cibo il loro obiettivo implicito.

Nandini era vegana da anni, da quando aveva vissuto in India come seguace di un monaco induista, al fianco del quale aveva approfondito le questioni fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Cosa ci faccio qui? Cosa scelgo di mangiare? Lì aveva anche scelto il suo nuovo nome, con il quale firmava le sue traduzioni.

Ginevra aveva riportato i libriccini di Krishnamurti che l’amica sudafricana le aveva prestato: Nandini le disse di tenerli. Cadevano a pezzi e, in ogni caso, ormai quegli insegnamenti facevano parte di lei.

Non era propriamente bella, ma un guizzo di infantile pazzia e la risata improvvisa la rendevano affascinante, con un corpo ancora attraente a 64 anni, merito dei geni e dell’alimentazione.

Comprarono della frutta al mercato, si fecero dei panini con pane e formaggio che mangiarono sul muretto del lungomare e parlarono degli ultimi articoli di Valdo Vaccaro, l’igienista grazie al quale si erano conosciute, traducendo entrambe come volontarie per la causa.

Il concerto si teneva in un grande anfiteatro vicino alla spiaggia. Presero posto indossando i loro più abiti estivi più belli e si immersero nella musica. Alla fine del secondo movimento, Ginevra notò come un’ombra rossastra che si avvicinava al famoso pianista e lo avvolgeva in larghe vòlute che lo circondarono lungamente e poi lentamente si dissolsero. Era stata così rapita da quello spettacolo talmente inusuale che si accorse solo allora che la sua amica si era alzata ed era andata a sedersi sugli spalti più alti dove c’erano parecchi posti ancora vuoti. Sedeva statuaria nel suo abito rosso di organza, appoggiata alla ringhiera. Ginevra la chiamò, ma non ottenne risposta. Uno strano atteggiamento di quel corpo le mandò una scossa di preoccupazione istantanea giù per la colonna. In un attimo fu a fianco a lei cercando di rianimarla, inutilmente.