Archivia 21 Gennaio 2025

La bambina e la baby sitter

Roxana piangeva lacrime amare, chiusa nell’armadio per non farsi trovare dalla baby sitter. Era buio lì dentro e aveva paura che la vecchia serratura difettosa si inceppasse. Ripensava a quando la maestra, alla fine dell’anno, aveva premiato la classe con la lettura de “Il leone, la strega e l’armadio”. Erano in seconda, allora. Magari avesse potuto fuggire in un altro mondo attraverso l’armadio! Tastò il pannello di legno, ma era solido e inchiodato.

Il groppo che aveva in gola le aveva impedito di difendersi e spiegare perché non era colpa sua per ciò che era successo a Billy, così la baby sitter l’aveva ritenuta colpevole. Avrebbe riferito tutto ai genitori.

 

Roxana non aveva pianificato nulla. Era stata una specie di vocina dentro la sua testa che le aveva suggerito di prendere il coltello più grosso dal ceppo in cucina, prima di rifugiarsi nell’armadio. Quando la baby sitter, cercandola a gran voce, aprì l’anta dell’armadio, le si scagliò contro con un grido e affondò il coltello senza guardare. Giustizia era fatta!

 

La vista del sangue la fece barcollare. Sgorgò fuori con un ‘blob’, come nei fumetti, poi la sua mano fu investita da un liquido caldo e appiccicoso.  Puzzava.

 

Si ritrasse istintivamente,  gettò il coltello e scappò giù dalle scale senza sapere bene dove andare. La nonna! La nonna sicuramente le avrebbe offerto rifugio e protezione. In fondo, era l’unica parente vera che le fosse rimasta, dopo la morte dei genitori per un’overdose quando Roxana era piccola. I servizi sociali l’avevano sballottata da una famiglia all’altra, ma la nonna c’era sempre durante le vacanze estive e qualche volta anche nei fine settimana. Però era vecchia e malata, non poteva occuparsi di lei sempre, così le aveva spiegato l’assistente sociale.

 

Era stato facile scappare dalla prima famiglia quando l’avevano rinchiusa in casa da sola mentre andavano a fare compere. Con una forcina per capelli, in venti minuti Roxana era riuscita ad avere la meglio sulla serratura e se l’era svignata. Sfortunatamente l’avevano trovata subito dalla nonna e l’avevano rispedita a casa.

Nella seconda famiglia erano più guardinghi, forse li avevano avvisati. Le porte avevano dei catenacci che si potevano aprire solo dall’esterno. Scappare era impossibile. Lei però aveva escogitato un modo per  avvelenarli pian piano, mettendo una mezza pastiglia di sonnifero sbriciolata nella minestra ogni sera. Ogni settimana aumentava la dose. Quando era arrivata a tre pastiglie e mezza, la madre aveva avuto un incidente d’auto mentre era alla guida ed erano morti sia lei che il marito. Nessuno aveva sospettato nulla.

 

Così era finita nella terza famiglia, dov’era ora. All’inizio le cose sembravano andare bene, poi il fratello aveva cominciato a prendersi delle libertà. La picchiava quando i genitori non c’erano e aveva anche provato a spogliarla per “farle vedere come si fa”. Lei si era ribellata e lo aveva morso. Così era cominciata la guerra fredda tra di loro, a colpi di agguati.

 

La sera in cui i genitori erano andati al cinema avevano chiamato la baby sitter per curare entrambi. Roxana stava giocando nella sua stanza quando Billy era entrato senza far rumore. Le aveva fatto cenno con un dito sulla bocca di tacere. La schiena di Roxana si era irrigidita subito, tutti i suoi campanelli interni di allarme suonavano. Urlare subito o saltargli addosso prima che avesse modo di preparare una difesa? Optò per la seconda e gli si avvinghiò a una gamba. Gli arrivava fino al petto, in fondo Billy aveva solo quindici anni ed era pure in ritardo con lo sviluppo. Lo graffiò in viso e sulle braccia con tutte le sue forze, come un gatto, come una tigre. Il ragazzo non poté trattenere un urlo e cercò di scalciarla via. Lei ritornò alla carica con una gragnola di pugni che lui non si aspettava, cercò di restituirli, ma Roxana fu più veloce e lui non si muoveva più.

Fu a quel punto che arrivò la baby sitter, allertata dal fracasso che avevano fatto cadendo e rotolando in mezzo alla stanza.

 

Roxana scappò per i campi fino a una fermata dell’autobus, che aveva visto arrivare. Saltò su e scese al capolinea, prese la metropolitana e si avviò a casa della nonna, attenta a nascondere la mano insanguinata dentro il maglione. Qualche adulto la guardava un po’ più a lungo del solito, ma poi prevaleva il disinteresse e la paura di cacciarsi in qualche bega. Arrivò dalla nonna che era già buio. Sgattaiolò nel capanno degli attrezzi e aspettò che la nonna accendesse la luce della camera da letto. Solo allora si arrischiò a bussare tre volte contro il vetro. Era il loro segnale. La nonna sapeva che in quel modo bussava solo Roxana al vetro della finestra. Infatti si precipitò ad aprire la porta sul retro. Roxana entrò. Da principio la nonna non si accorse del sangue, non ci vedeva molto bene e la luce dell’abat jour era fioca. Era anche un po’ sorda, così Roxana dovette urlare per farsi comprendere.

 

Un vicino che era ancora in giardino a tagliare le piante nonostante il buio sentì tutto. Sentì come la bambina raccontò dell’attacco col coltello alla baby sitter e come chiese alla nonna di nasconderla.

Fu la sua testimonianza in tribunale che la inchiodò. Per l’omicidio della baby sitter fu condannata a sette anni di carcere. La nonna morì di crepacuore poco dopo la sentenza.

“Ti puoi rifare una vita” le dicevano le suore che venivano a trovarla in cella una volta alla settimana.

 

Quando riuscirono a spegnere l’incendio della villa di Sean Diddy Combs a Los Angeles fu trovato un cadavere carbonizzato. Sulla base dell’esame del DNA, gli esperti forensi determinarono che il corpo corrispondeva a un individuo di razza caucasica, di sesso femminile, di circa quindici anni, in stato avanzato di gravidanza.

L’uomo dei cavoli

In un paese del Sudeuropa dove gli abitanti vivevano ancora del lavoro dei campi e l’olio scorreva a fiumi abitava una giovane coppia di sposi.
Il marito aveva mani grandi con cui manovrava sapientemente sia l’aratro che la cazzuola. Nel corso degli anni, tra la nascita dei figli e l’acquisto degli armenti, riuscì a edificare una casa per sé e per la sua famiglia.

La moglie era dedita alla casa e all’educazione dei figli, si occupava di preparare pasti nutrienti con i prodotti che dava la terra, curava che le figlie imparassero a ricamare per preparare la propria dote e che il ragazzo andasse bene a scuola. Nei giorni di festa madre e figlie indossavano l’abito tradizionale, costituito da una camicetta e da una gonna scura che si raccoglieva a pieghe. Tutti insieme si recavano allora in piazza, dove si svolgeva la vita della comunità: i suonatori intonavano le canzoni antiche con i tamburelli, le note incalzanti spingevano i piedi dei ballerini, le mani si alzavano al pari delle fiamme, gli sguardi tra i giovani si incrociavano furtivi.
Entrambi i coniugi si dedicavano all’educazione dei figli dando il buon esempio. Le scelte generose cementavano la vita della comunità, il tempo intrecciava una fitta tela di favori tra gli abitanti; al pari di un arazzo in via di tessitura, la tela mostrava il suo disegno generazione dopo generazione.

Le tre figlie avevano ereditato dalla nonna materna delle abilità particolari. Alla nascita del fratellino, ognuna gli aveva fatto dono di una qualità speciale: la più grande gli aveva donato occhi belli, la mediana un’energia inesauribile, la più piccola un cuore buono.

Una a una le figlie si sposarono e andarono a vivere in altre case, dove fondarono le rispettive famiglie. Durante le feste si ritrovavano tutti nella casa dei genitori in cui si celebrava in pompa magna: le figlie aiutavano a preparare i dolci tradizionali, attorno al desco ci si scambiavano le notizie sugli ultimi avvenimenti, nel pomeriggio si giocava a tombola, dopo cena si suonava e si ballavano le danze popolari con grande diletto di adulti e bambini.

Il figlio maschio però tardava ad accasarsi. Nonostante ne avesse grande desiderio, il suo sogno segreto di avere una famiglia tutta sua non si era realizzato. Il suo cuore si gonfiava di tenerezza alla vista dei nipoti, per i quali d’inverno aveva sempre un posto speciale sulla slitta che trascinava nella neve, carica del raccolto del suo orto. L’uomo aveva una predilezione per i cavoli. Aveva trovato, infatti, che i cavoli erano l’ortaggio che più si addiceva al suo appezzamento di terreno, dove crescevano, rinvigoriti da buon letame maturo, come per magia. Ogni mattina, prima di nutrire le galline e recarsi al lavoro, l’uomo ispezionava il suo orto e ne constatava il buono stato di accrescimento. Un giorno, controllando alcune foglie secche da rimuovere da sotto alcune piante di cavolo, ne trovò una grande di una forma inusuale che non si staccava: tirò allora un po’ più forte e ne uscì un vagito. Stupito, scostò le foglie vicine fino a scoprire un piccolo fagotto che si muoveva leggermente: una bambina. Grande fu la sua meraviglia e ancora più grande il suo sollievo nel constatare che la piccola era sana e vigorosa. La portò svelto in casa e la adagiò in una scatola di cartone foderata di lana morbida. Di lì a poco informò la famiglia, che fece festa grande e organizzò una cerimonia in cui la piccola venne battezzata Cavolina.

Da quel momento la vita dell’uomo dei cavoli fu dedicata alla figlia. Cavolina crebbe lieta e leggiadra, aiutando il padre nei lavori dell’orto e imparando da lui i segreti delle erbe selvatiche commestibili e medicamentose, oltre a studiare diligentemente a scuola. Quando arrivò alla pubertà scoprì di possedere anch’ella dei poteri particolari. Per l’amore che portava al padre, Cavolina desiderava ardentemente donargli ciò che nella loro casa mancava di più. Fu così che, una notte, dopo molte preghiere, Cavolina si addormentò sognando la madre mai conosciuta. La madre era una fata e nel sogno le indicò un bosco dove mandare l’uomo a fare legna. Il giorno dopo, su indicazione di Cavolina, il padre andò nel bosco e incontrò una giovane donna; i due si piacquero, si innamorarono e poco tempo dopo si sposarono. La loro gioia fu allora completa e vissero insieme felici e contenti per molti anni a venire.