“Ave Maria gratia plena Dominus tecum…”
Cominciava così il mio avvicinamento alle castagne bollite che ogni anno, il giorno di Ognissanti, si cuocevano nella mia famiglia.
Centocinquanta avemarie per poter mangiare quella prelibatezza ai miei occhi di bambina.
Io mi lamentavo per l’attesa, loro, gli adulti, invece erano molto convinti di quello che stavano facendo.
Intorno alla tavola sedevano otto persone, due famiglie: la mia e quella dei miei zii. Vivevamo insieme.
Io, bambina di circa cinque anni, seduta tra mia mamma e mia zia Anna, incominciavo a rispondere alle avemarie in latino, non so nemmeno come, ripetendo quello che sentivo dire dai grandi.
Nessuno di loro lo aveva studiato, lo avevano imparato in chiesa.
In cucina intanto, in una pentola enorme, cuocevano le castagne e il loro profumo si spargeva per tutta la casa.
Nessuno andava a controllare la pentola: la quantità di acqua e l’intensità del fuoco garantivano, insieme all’esperienza, che tutto sarebbe filato via liscio fino alla fine dei tre rosari.
Nel frattempo io, non so esattamente in quale punto, ma, da quello che ricordo, dopo circa una ventina di avemarie, crollavo sulle ginocchia di mia mamma o di mia zia e venivo risvegliata solo alla fine dell’ultimo requiem aeternam .
Allora cominciava la festa: col cucchiaino scavavo la polpa della metà castagna che mi veniva data e, assaggiandola, mi sembrava la cosa più buona del mondo: più era alta la montagnetta di gusci nel mio piatto e più ero contenta.
Da quella giornata le castagne sparivano dalla nostra tavola e non sarebbero più ricomparse fino all’anno successivo: è così che nascono gli eventi.
Gabriella
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