La finestra sul giardino mostrava i colori, cupi e sgargianti al tempo stesso, di un prato carico di fiori sovrastato da un cielo gonfio di temporale.
Le nuvole correvano sospinte dal vento che, come impazzito, frustava le fronde del grande tiglio posto al limitare della staccionata che contornava la villa.
«Buona questa tisana», dissi alla mia amica che accarezzava distrattamente il suo gatto.
Lei si girò verso di me. Per qualche ragione, quando posava il suo sguardo nei miei occhi, percepivo le sue iridi chiare, poi mi stupivo di quanto, invece, fossero scure. Forse perché inizialmente guardava distrattamente oppure perché era ancora persa nel suo mondo, dentro di sé, ma poi, poi, scrutava con attenzione le mie espressioni, come per vedere cosa diceva la mia anima.
«È di fiori di tiglio. Li ho colti io stessa da quell’albero», disse indicando con il mento fuori dalla finestra.
«E di cicoria, camomilla e menta. Ne trovo un sacco nei campi di fronte casa», aveva aggiunto. Il suo tono era sereno, non compiaciuto, ma tutte le volte, io mi sentivo in difetto perché, al contrario, a malapena riuscivo a riconoscere una margherita da una calendula.
Un tuono spezzò il silenzio che era caduto su di noi come una soffice coperta. Non ci serviva parlare troppo. Soprattutto, a nessuna delle due piaceva parlare del più o del meno. Di libri sì, su quello avevamo gusti in comune. Sulla musica si discuteva, ma rischiavamo di litigare perché eravamo agli opposti.
Il gatto fece un balzo, e un altro tuono lo fece scappare sotto il divano. Nella corsa, aveva fatto cadere un acquerello. Lo aveva fatto lei. Raffigurava un airone in volo.
La mia amica approfittò di avere le mani libere per tagliare una fetta di torta che mi porse sopra un piattino di fine ceramica tedesca.
«Crostata di prugne. Il mio albero ne era stracolmo».
Io, in tutta onestà, era da un po’ che adocchiavo la crostata, così non riuscì a rispondere subito perché ne avevo già un bel pezzo in bocca.
«Buona, buonissima. Beata te che sei brava a fare i dolci. Io no. Lo sai», le avevo poi detto.
«È questione di come si è fatti», mi aveva risposto.
«In che senso?».
«Per fare i dolci devi essere una persona rigorosa, attenta a rispettare le dosi, il procedimento, seguirlo nei minimi dettagli. Non si può improvvisare».
«Già, io, se proprio mi viene voglia di fare una torta, non guardo nessuna ricetta. Vado a caso. Qualche volta riesce, ma la maggior parte delle volte il risultato è deludente. Ma sì, hai ragione, io non sopporto tanto seguire le procedure. Però mi vengono bene altre cose, tipo le lasagne o le tagliatelle al ragù».
Per quanto possibile, i suoi occhi diventarono ancora più scuri: «Sai che non mangio carne».
Lo sapevo, certo, e mi sarei morsa la lingua. Avrei potuto dire che facevo bene che ne so, il purè o la pasta e zucchine. Invece, qualcosa dentro di me suggeriva che, se eravamo amiche, non era per via delle similitudini, ma dei contrasti.
«E so anche fare l’anatra imbottita e pure il coniglio arrosto», le dissi guardandola in segno di sfida, come per farla arrabbiare, ma sul mio viso, un accenno di sorriso dispettoso tradiva l’intenzione di porre tutto sul piano di una satira un po’ cinica.
In un primo momento, lei era rimasta impassibile. Un altro tuono aveva scosso il silenzio che si era creato. Poi si era alzata, aveva percorso la sala e si era seduta al suo strumento preferito. Ne provò l’accordatura, poi mi disse: «Ti suono ‘Heal the world’».

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