Archivia 17 Settembre 2023

Io ti ho sognato

Non so come ci siamo incontrati, so solo che ti conosco.

Abbiamo passato del tempo come conoscenti, e ci siamo visti tutti i giorni da settimane. Ma adesso sento il peso della tua prossima partenza. La fuori, una guerra assurda che potrebbe non farti tornare.

Ti guardo, il tuo viso dalla carnagione abbronzata, illuminato da un sorriso bianco e contornato da un pizzetto scuro. Ho voglia di baciarti, ma ho paura che tu possa non contraccambiare.

Sei qui davanti a me, la tua voce profonda mi accarezza la pelle, le tue parole scivolano sulla mia schiena. Un calore mi assale. Penso ai giorni che mancano alla nostra separazione e poi forse non ci vedremo più. Non ho niente da perdere. Ho deciso.

Mi avvicino a te, riducendo la distanza dei nostri corpi, tu smetti di parlare e il tuo sorriso scompare, ma i tuoi grandi occhi castani fissano i miei. Il mio cuore accelera i battiti. Le tue mani afferrano le mie braccia attirandomi a te. Ora i nostri corpi sono cosi vicini che sento anche i battiti del tuo cuore. In un attimo le nostre labbra calde si sfiorano. Solo un attimo, solo un assaggio. I nostri sguardi si incrociano, il respiro affannoso. E allora ci baciamo stringendoci l’uno all’altra, le tue mani afferrano il mio volto e mi baci come se volessi mangiarmi. I vestiti cadono, le nostre mani e le nostre labbra sfiorano la nostra pelle. Facciamo l’amore. Dolce passionale come due persone che si prendono tutto il tempo che gli resta.

Poi tra le lenzuola, mentre la mia testa si appoggia al tuo petto e tu mi accarezzi i capelli, ti dico che non voglio che tu parta. Tu afferri il mio viso e sorridendo mi dici che devi partire per forza. Io chiudo gli occhi per cacciare via quel pensiero. Li riapro. Intorno a me solo il buio della mia stanza. Allungo la mano per cercarti dall’altra parte del letto. Il vuoto. Il silenzio. Ecco la parte più brutta, sospiro forte,  per calmare il mio cuore da tutta la passione ricevuta e silenziosamente parlo al mio cervello: “ Era solo un sogno!”

Dopo un ora non riesco ancora a prendere sonno. Il sogno era così vero. E allora mi chiedo, ma se io ti ho ti ho sognato ed eri così reale, non può essere che dall’altra parte del mondo ci sia lui che abbia sognato me?

La voglia di…

La voglia di
fare l’amore con te
è salita
dal fondo delle gambe,
sincera, inattesa,
forte e seducente,
con fitte improvvise,
nel corpo un tremore
invadente,
il pulsare del sangue,
un martello nella mente

Ho chiuso gli occhi
senza pensare,
le mani aperte
entrambe sul ventre
per lasciarmi cullare
Poi ho capito
che stavo per mancare…
Dalla caduta
mi ha salvato un niente!

(So già  che riderai
quando te lo raccontero’
Sai, stavo al piano ammezzato
Sì, proprio alla “Rinascente”!)

Al mare – fine anni sessanta – prima parte

Mamma e papà davanti, seduti sulla FIAT 850 color caffelatte. Io e mia sorella maggiore dietro. A tenerci ben salde sui sedili non c’erano né seggiolini né cinture di sicurezza, ma una serie di valigie che non appena ti muovevi s’infilavano con gli angoli nel costato.

Io non so se avete presente una FIAT 850. Di fatto, aveva quasi la forma di supposta. Nel nostro caso, anche il colore delle supposte di allora.

Ebbene, la nostra Fiat 850 pronta per partire per il mare perdeva le sembianze di auto e assumeva quelle di piramide. Sul tettuccio, stavano impilate un sacco di cose. Tavolini, sdraio, ombrelloni e altro che non saprei dire. Tutto sommato, eravamo una famiglia che si portava dietro dolo il necessario. Capitava di vedere macchine sovrastate da materassi, credenze, cucine a gas. Credo di aver visto anche una bara. Spero fosse vuota.

Il viaggio iniziava a un’ora imprecisata della notte, quando il mattino deve ancora farsi strada nell’orizzonte viola. Eppure dovevamo percorrere duecento, massimo trecento chilometri. Si andava il Liguria.

La prima tappa, il casello autostradale, pareva un mare grigio coperto di sardine. C’erano così tante macchine in coda che si scendeva e si faceva amicizia. Penso siano nate storie d’amore, faide e scazzottate. Poi si saliva e si riprendeva il viaggio come niente fosse.

All’epoca soffrivo il mal d’auto. Gli ammortizzatori della macchina erano quello che erano, ma sicuramente incideva il fatto che, a un certo punto del viaggio, io e mia sorella ce ne stavamo in ginocchio a fare le linguacce alle macchine dietro. Mio padre ha rischiato il linciaggio.

Generalmente, si alloggiava in qualche pensione. Le pensioni, erano proprio pensioni. Mica come adesso che anche la più sgarruppata c’ha la piscina. No. Allora sembrava di stare in uno di quei condomini dell’hinterland milanese, senza ascensore e con le porte in laminato finto legno.

Il mare, io lo odiavo. Almeno al mattino, perché mia mamma ci costringeva ad alzarci all’alba per andare sul molo a respirare lo iodio. Ioodio, io odio. Camminavamo con la salsedine che ci induriva i capelli. Al pari nostro, si vedevano altri figli emaciati di città che vagavano trascinati come gli ignavi nel limbo.

Quando finalmente il sole lambiva la spiaggia, ci sistemavamo con tanto di ombrellone. Per il bagno, bisognava aspettare, che avevamo appena fatto colazione. Tre ore. Le tre ore più lunghe della mia vita. Allora me ne stavo accoccolata a guardare la gente. Vi dico subito che le donne avevano i peli sotto le ascelle. Tutte, indistintamente. C’erano anche quelle che li avevano sulle gambe e sulla faccia. Non ricordo come si gestisse la questione inguine. Forse i costumi erano talmente alti da nascondere tre quarti del corpo.

Gli uomini, invece, avevano il riportino per nascondere la calvizie. Il riporto era un problema quando tirava vento. Svolazzava come una bandiera.

Mio papà no. Lui era magro come un’acciuga. Non era un cappellone, certo, ma i pochi ricci facevano il loro dovere.

Mia mamma era sempre la più bella della spiaggia. Almeno secondo mio papà. Poteva pure passare Brigitte Bardot, ma mio padre avrebbe detto: «Mica c’ha le gambe belle come le tue».

Noi bambini avevamo i costumi di una strana stoffa, forse un misto tra lycra e flanella. Di fatto, quando si bagnavano diventavano pesanti come tute di palombari.

I bambini si dividevano in due schiere: quelli con le spalle bianche di crema solare, e quelli con le spalle rosse bruciate dal sole.

La crema solare aveva una protezione duecento (mila). Praticamente era malta da applicare con la cazzuola.

Io e mia sorella eravamo nel secondo gruppo. Ci venivano le bolle, poi ci divertivamo a toglierci lembi di pelle che si staccavano docili.

Per fare il bagno, o sapevi nuotare, o avevi il salvagente. Mica i braccioli, credo non esistessero, perlomeno nella nostra famiglia. Noi avevamo un salvagente che se non lo tenevi fermo con le mani, finivi nel buco e andavi in fondo al mare. Una volta papà aveva portato un materassino, di quelli rossi e blu. Puzzava di gomma e s’imbeveva d’acqua. In ogni caso lo usava mamma, così io e mia sorella giocavamo a riva, a farci trasportare dalla risacca. Quanto tornavamo all’ombrellone, il costume penzolava carico di sassolini e macchiato di catrame. Non chiedetemi perché, ma tutte le volte ci si macchiava di catrame.

La merenda era: o pane burro e marmellata, o pane e marmellata. Eravamo una famiglia del nord.

I bambini figli delle famiglie del sud, potevano spaziare dalle fette di pane imbevute di pomodoro alla parmigiana con le polpette.

I giochi da spiaggia erano praticamente tre: pallone gonfiabile colorato, secchiello con paletta, rastrello e un’altra cosa che non ho mai capito a cosa servisse, tipo piccone. Nemmeno fossimo sulle dolomiti. Che poi, io e mia sorella manco ci potevamo fare i castelli di sabbia, perché la spiaggia era di sassi. Al limite potevamo costruire trincee come al fronte. Infine, c’erano le biglie di plastica trasparente, con le foto di Eddy Merx e compagnia bella. Quello era un gioco destinato ai maschi. Io schiumavo perché con le biglie di vetro ero una campionessa del rione.

La percentuale di papà che giocavano con i figli a costruire castelli (non di sabbia, almeno sulla nostra spiaggia), era intorno all’uno per mille. Pochi, pochissimi. La maggior parte se ne stava sotto l’ombrellone a fumare. All’epoca, tutti fumavano dappertutto. Forse solo in chiesa non si poteva. Per il resto, nel cinema, nei ristoranti, negli ospedali, aleggiava una nebbia di nicotina. Soprattutto nei reparti maternità. Lì era praticamente d’obbligo. Anche se un papà non fumava, lì, nella sala d’attesa, si accendeva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Perché i papà mica partecipavano al parto. No, aspettavano fuori in attesa che arrivasse l’infermiera col verdetto: «È maschio!», «È femmina!», «Sono due!». Questo è capitato a mio zio. Credo sia svenuto, ma nessuno se n’è accorto per via della nebbia di nicotina.

Già, perché non esisteva l’ecografia. Il sesso si poteva prevedere con il pendaglio, oppure osservando la pancia, se era a punta o no.

L’orizzonte del mare era punteggiato da pedalò e canotti. Qualche barca di pescatori della domenica. Certo, non c’erano moto d’acqua e nemmeno gonfiabili sfarzosi come Regge di Versailles.

Talvolta potevamo comprare il gelato. Già, il gelato. Adesso puoi scegliere tra un migliaio (alla sesta) di gusti. Allora erano quattro: panna, cioccolata, fragola e limone. Talvolta fior di latte. La vera rivoluzione fu l’avvento della stracciatella

FINE PARTE UNO

Babu e l’infinito

«Nonna, tu non vieni con me e mamma?»

«No, piccola scimmia, nonna è vecchia, rimane al villaggio con Didi».

Didi, il cane, se era messo a scodinzolare, sollevando la terra dello spiazzo. La siccità aveva reso tutto friabile, impalpabile. La stagione delle piogge si era fatta sempre più breve e violenta. L’ultima volta, quasi tutte le capanne del villaggio erano state rovinate da una tromba d’aria. Dell’acqua caduta dal cielo, la terra ne aveva rifiutato la maggior parte. Troppo dura per immagazzinarne.

La nonna alzò lo sguardo dal piccolo Babu. Per un momento lasciò quegli occhi grandi pieni di meraviglia, pieni di futuro. Sospirò guardando il cielo offuscato dalla polvere che s’alzava ad ogni alito di vento, avanzando dentro le case, coprendo le poche verdure che crescevano nell’orto.

«Ma così rimani da sola», insistette Babu.

«Che dici, piccolo cerbiatto, sai che verranno a farmi compagnia il nonno e il papà».

«Ma loro sono in cielo!».

«Oh, certo, ma la loro anima può viaggiare e venire da me. Li chiamerò mentre sono a guardare le stelle. Mi racconteranno tutto, veglieranno sul vostro viaggio, e sarà come essere insieme a voi».

«Nonna, mi racconti ancora dove andremo io e mamma?»

«Sì, dolce gazzella. Camminerete molto, dovrai essere bravo, non lamentarti e stare sempre vicino a mamma. Poi arriverete al mare. Tu non hai mai visto il mare. Nemmeno io. Ma so che è fatto d’acqua, tanta acqua azzurra e splendente, senza confini».

«Bello, vero nonna?».

«Bellissimo, piccolo struzzo. Non avrai abbastanza occhi per guardarlo».

«E dopo?».

«Dopo ci saranno delle grandi barche, non come quelle che vedi quando andiamo al fiume, più grandi, per attraversare il mare e arrivare in Italia».

«Italia, bella questa parola, vero nonna? Italia. Mamma dice che è una cosa grande, come il respiro di Dio».

«Grande come il respiro di Dio», ripeté la nonna guardando seriamente il nipotino.

«Mamma dice che in Italia ci sono orti dappertutto, giardini e frutteti. L’acqua nelle fontane è fresca e trasparente. Ci sono cose da mangiare che si possono cogliere dagli alberi, polli arrosto e tacchini. Dice che non ci sono animali pericolosi. Che è il posto più simile a quello dove stanno ora il nonno e papà».

«Certo, piccolo camaleonte, ci sono persone gentili, eleganti con le macchine lucide come specchi. Poi ci sono tante medicine che fanno passare tutti i mali. E gli aerei nel cielo che lasciano strisce che paiono sorrisi. Con gli aerei si va molto lontano».

«Allora, appena arrivo in Italia, prendo un aereo e torno qui, così potrai salire e venire con noi».

«Mi sembra una buona idea, Babu, molto buona. Aspetterò di vedere il sorriso del tuo aereo per volare insieme».

«Nonna…».

«Sshh, piccola lucertola, è ora di dormire. Domani, dovrei metterti in viaggio molto presto, prima che sorga il sole. Mi raccomando, non dimenticare questo».

Nonna allungò una mano sul petto del bambino, dove aveva cucito una tasca. Dentro, oltre a un amuleto, aveva messo la pergamena che aveva vinto Babu durante una gara di corsa campestre, pochi mesi prima, a soli sette anni.

Era stata l’ultima volta che erano andati in città, con il papà di Babu. Poi la guerra se lo era portato via. Erano rimaste la fame e la polvere, al villaggio. Pochi anziani che faticavano a percorrere le quattro miglia per prendere l’acqua al fiume, sempre più secco. Babu meritava di meglio che vedere il fiume inaridirsi e la terra diventare polvere. E poi c’era la guerra. Quella è peggio di qualsiasi carestia. Fa morire le persone, anche quelle rimaste vive.

«Così vedranno che sei un bravo bambino e molto forte, per giunta. Tutti ti vorranno».

«Bene, ma io vorrò stare solo con mamma e con te. In un giardino di fiori e frutta, con le galline che beccano Didi».

«Certo, anch’io, mio amatissimo. Ma ora dormi».

Nonna rimase tutto il tempo a vegliare il sonno del piccolo. Era magro, ma sveglio, intelligente, buono. La nonna si chiese se fosse troppo buono. Pregò gli spiriti e Dio.

Non era ancora sorto il sole. Il cielo nero serbava la cupola di stelle, quando al villaggio arrivò un autocarro.

Sopra, alcune persone insonnolite. C’era anche una ragazza, aveva il pancione protetto dalle mani. Babu aiutò sua madre a salire, tenendole la mano. Si stava issando a bordo, quando volle dare un ultimo abbraccio alla nonna. Corse per il breve tratto con il pianto negli occhi, poi rintanò la faccia nel suo grembo. Si asciugò le lacrime sulla veste, mentre la vecchia gli accarezzava la testa.

«Ora vai Babu, e ricorda di essere sempre una brava persona», disse la nonna con la disperazione nella voce.

Babu salì a bordo. Il carro partì. Destinazione infinito.