Archivia 1 Ottobre 2023

Le tre amiche

Le onde si infrangevano contro la scogliera nera creando spruzzi di bianco che tornavano al mare, striando il verde profondo delle acque inquiete.

Il cielo era carico di nuvole, ma alcuni raggi di sole trapelavano regalando squarci di blu. Presto il tempo sarebbe migliorato.

Dall’alto della scogliera, si poteva vedere la brughiera correre piatta, bruna di arbusti e rosata d’erica.

In lontananza, vi era la fattoria dei Fincher, una casa bianca e bassa le cui finestre erano ingentilite da imposte colorate di verde oliva. Intorno, cespugli di lavanda delimitavano il frutteto e l’orto. Poco distante, l’essiccatoio per il pesce, il pollaio e l’ovile che in quel momento era vuoto. Se si allungava lo sguardo, si potevano vedere le macchie bianche delle pecore cariche di lana.

La casa dei Fincher era composta da grandi vani, una cucina molto attrezzata, camere luminose dal soffitto rigato di travi, e soprattutto il salotto, la stanza meno frequentata dai Fincher, ma dove risiedevano le nostre tre amiche. Nessuno avrebbe potuto dire né il perché e nemmeno da quanto fossero lì. Di fatto stavano tutto il tempo a chiacchierare amabilmente.

A guardarle da lontano, erano simili e diverse al tempo stesso. Rotondette tutte e tre, davano l’impressione di querule sorelle, ma mentre una aveva la pelle rossa come un’irlandese scottata dal sole africano, le altre due erano piuttosto chiare. Miss Golden aveva quasi il colore del miele, forse grazie alla lunga permanenza all’aria aperta, giacché quell’estate era stata assai clemente rispetto al solito. Miss Smith, invece, era la più bruttina, per via del profilo incerto e della pelle tendente al verde, come soffrisse di quella malattia chiamata clorosi. Era anche la più anziana e  si dava delle arie da gran regina, tant’è che le altre due, di nascosto, la chiamavano Granny[1].

A un artista, potevano sembrare un quadro di Caravaggio.

Come già detto, le tre passavano buona parte del tempo a conversare di ogni futilità, raggiungendo considerazioni profonde sul tempo, sulle fioriture o sulle vicissitudini della famiglia Fincher, formata da papà Fincher, mamma Fincher, piccolo Fincher, gatto Fincher e cane Fincher.

Quel giorno, però, anziché la solita cordiale atmosfera, tra le tre aleggiava una sorta di nervosismo.

«Oh! Cielo! Si può sapere cosa le è successo?», chiese Miss Smith all’amica vicina che se ne stava adagiata in una strana posizione, un po’ di sghimbescio.

«È che ieri sono caduta, e ora guardi…», rispose ella mostrando il fianco acciaccato.

«Oh! Mio Dio, che ematoma! Si sta facendo marrone», disse con voce preoccupata Miss Golden, che stava dall’altra parte, di fianco della dolorante amica.

«Già, colpa del piccolo Fincher. Stava giocando con cane Fincher, proprio qui davanti, e accidentalmente mi ha colpito. Io sono stata presa alla sprovvista e sono caduta rotolando come un sasso sul pavimento».

Le due amiche guardarono Miss Stark quasi con orrore, lei non se ne accorse e continuò: «Sì, mamma Fincher lo ha sgridato. Io non sapevo che dire. Mi hanno subito aiutato, adagiato come adesso, ma il dolore, quello, non passa. Continua a pungere ed è come se si allargasse di minuto in minuto. Sto impazzendo, credetemi», sospirò con la voce che andava via via strozzandosi.

«Le credo eccome», rispose Miss Golden, «a guardare bene, sembra che quel morello, quel livido, s’ingrandisca a vista d’occhio. È duro?».

«Macchè,  a tastarlo, se non mi facesse così male, è tutto molle. Forse mi sono rotta qualcosa», rispose Miss Stark con la voce tremolante.

Le altre si guardarono di sbieco, cercando di non farsi notare dalla poverina, che ora stava piangendo. Nei loro sospiri trapelava una certa ansietà e preoccupazione. Più inquietudine che apprensione: in verità il fianco era davvero brutto a vedersi e starne vicino causava una certa angoscia. In ogni caso, decisero di troncare la conversazione per un po’, così da lasciare che l’amica potesse riprendersi.

Il sole avanzava nella stanza, come strusciando sul pavimento. Il cielo si era definitivamente aperto e dalle finestre spalancate alcune mosche erano entrate infastidendo i presenti. Soprattutto le tre amiche.

Faceva ancora caldo, malgrado fosse settembre inoltrato. L’odore dei fiori d’erica invadeva le stanze della grande casa, talvolta mischiandosi a zaffate di salsedine e di pesce seccato al sole .

Miss Smith ruppe il silenzio chiedendo: «Sta meglio ora, cara?».

«Non molto, anzi, per niente, ma non voglio passare il pomeriggio a piangermi addosso. Voi, piuttosto, come state?»

«Io ho un leggero bruciore dentro. È da due giorni… ma non ho voluto tediarvi con questa cosa. Magari vi sareste preoccupate», rispose Miss Smith.

Le altre due parvero sobbalzare. Miss Golden chiese con un filo di voce teso, il tono di chi è a un passo dallo scatto d’ira: «Scusi? Sta male da due giorni e non ci ha detto niente?»

«L’ho detto, non volevo preoccuparvi. non sarà nulla, che dite?», chiese alle amiche con una vena d’ansia nella voce.

Miss Golden cercò di recuperare la calma e disse: «Si sa che certi disturbi non vanno mai sottovalutati. Conoscevo una vicina… anche lei aveva iniziato a soffrire di bruciori. Ebbene, da un giorno all’altro non l’ho più vista. Mai più vista. Chissà che fine avrà fatto, la poverina».

«Ne ho sentito parlare, di questo fatto. Anche i Fincher ne discutevano. Sembrava quasi un problema nazionale. Si trattava di Miss Red, vero?», disse Miss Stark la cui voce non aveva perso il tono di sofferenza.

«Miss Red, certo. Me la ricordo. Non è accaduto molto tempo fa, no?», aggiunse Miss Smith con la voce incerta per via del suo strano malessere.

«Sì, sarà un paio di settimane. Eppure a vederla, non avreste mai detto che la sua malattia fosse a uno stadio così avanzato», sospirò Miss Golden.

Dopo essersi scambiata una lunga occhiata con Miss Golden, Miss Stark disse: «Ho sentito papà Fincher dire che era una cosa contagiosa. Quella di Miss Red, intendo. Era davvero preoccupato».

Le tre amiche rabbrividirono,  stettero in silenzio per qualche istante, poi Miss Smith prese la parola: «Certo, il mio non è che un leggero bruciore, non ne farei un caso nazionale. Miss Red, invece, aveva qualcosa di molto grave. Credo di aver sentito parlare di Dracunculosi ».

Tra le tre, in verità, la più malmessa era proprio Miss Golden, che cercava di nascondere le rughe che solcavano la sua pelle ormai vizza. Fu proprio Miss Golden a cambiare discorso: «Che cosa avreste voglia di fare, oggi, care?». Tutti i giorni poneva quella domanda e la risposta era sempre la stessa: arrivare sino alla scogliera e fare un bel bagno in mare.

Improvvisamente le amiche ebbero un moto di spavento, tacquero perché era entrata mamma Fincher. Raramente varcava quella soglia, solo per spolverare o cacciare via gatto Fincher, che grattava il divano in damascato rosso.

Mamma Fincher si diresse verso il tavolo Chippendale che impreziosiva la stanza e controllò il vassoio della frutta. Sospirò nel vedere le tre mele.

Uscì per buttarle, ma anziché andare verso il pollaio,si diresse verso la scogliera, attraversando la brughiera. Non avrebbe saputo dire perché. Forse le era spiaciuto vedere quelle belle mele avvizzire.

Forse si era figurata che la vita fosse un po’ così.

Di fatto, le lanciò al vento mormorando: «Addio».

 

 

 

 

[1] Nonna

Io ti ho sognato

Non so come ci siamo incontrati, so solo che ti conosco.

Abbiamo passato del tempo come conoscenti, e ci siamo visti tutti i giorni da settimane. Ma adesso sento il peso della tua prossima partenza. La fuori, una guerra assurda che potrebbe non farti tornare.

Ti guardo, il tuo viso dalla carnagione abbronzata, illuminato da un sorriso bianco e contornato da un pizzetto scuro. Ho voglia di baciarti, ma ho paura che tu possa non contraccambiare.

Sei qui davanti a me, la tua voce profonda mi accarezza la pelle, le tue parole scivolano sulla mia schiena. Un calore mi assale. Penso ai giorni che mancano alla nostra separazione e poi forse non ci vedremo più. Non ho niente da perdere. Ho deciso.

Mi avvicino a te, riducendo la distanza dei nostri corpi, tu smetti di parlare e il tuo sorriso scompare, ma i tuoi grandi occhi castani fissano i miei. Il mio cuore accelera i battiti. Le tue mani afferrano le mie braccia attirandomi a te. Ora i nostri corpi sono cosi vicini che sento anche i battiti del tuo cuore. In un attimo le nostre labbra calde si sfiorano. Solo un attimo, solo un assaggio. I nostri sguardi si incrociano, il respiro affannoso. E allora ci baciamo stringendoci l’uno all’altra, le tue mani afferrano il mio volto e mi baci come se volessi mangiarmi. I vestiti cadono, le nostre mani e le nostre labbra sfiorano la nostra pelle. Facciamo l’amore. Dolce passionale come due persone che si prendono tutto il tempo che gli resta.

Poi tra le lenzuola, mentre la mia testa si appoggia al tuo petto e tu mi accarezzi i capelli, ti dico che non voglio che tu parta. Tu afferri il mio viso e sorridendo mi dici che devi partire per forza. Io chiudo gli occhi per cacciare via quel pensiero. Li riapro. Intorno a me solo il buio della mia stanza. Allungo la mano per cercarti dall’altra parte del letto. Il vuoto. Il silenzio. Ecco la parte più brutta, sospiro forte,  per calmare il mio cuore da tutta la passione ricevuta e silenziosamente parlo al mio cervello: “ Era solo un sogno!”

Dopo un ora non riesco ancora a prendere sonno. Il sogno era così vero. E allora mi chiedo, ma se io ti ho ti ho sognato ed eri così reale, non può essere che dall’altra parte del mondo ci sia lui che abbia sognato me?

La voglia di…

La voglia di
fare l’amore con te
è salita
dal fondo delle gambe,
sincera, inattesa,
forte e seducente,
con fitte improvvise,
nel corpo un tremore
invadente,
il pulsare del sangue,
un martello nella mente

Ho chiuso gli occhi
senza pensare,
le mani aperte
entrambe sul ventre
per lasciarmi cullare
Poi ho capito
che stavo per mancare…
Dalla caduta
mi ha salvato un niente!

(So già  che riderai
quando te lo raccontero’
Sai, stavo al piano ammezzato
Sì, proprio alla “Rinascente”!)

Al mare – fine anni sessanta – prima parte

Mamma e papà davanti, seduti sulla FIAT 850 color caffelatte. Io e mia sorella maggiore dietro. A tenerci ben salde sui sedili non c’erano né seggiolini né cinture di sicurezza, ma una serie di valigie che non appena ti muovevi s’infilavano con gli angoli nel costato.

Io non so se avete presente una FIAT 850. Di fatto, aveva quasi la forma di supposta. Nel nostro caso, anche il colore delle supposte di allora.

Ebbene, la nostra Fiat 850 pronta per partire per il mare perdeva le sembianze di auto e assumeva quelle di piramide. Sul tettuccio, stavano impilate un sacco di cose. Tavolini, sdraio, ombrelloni e altro che non saprei dire. Tutto sommato, eravamo una famiglia che si portava dietro dolo il necessario. Capitava di vedere macchine sovrastate da materassi, credenze, cucine a gas. Credo di aver visto anche una bara. Spero fosse vuota.

Il viaggio iniziava a un’ora imprecisata della notte, quando il mattino deve ancora farsi strada nell’orizzonte viola. Eppure dovevamo percorrere duecento, massimo trecento chilometri. Si andava il Liguria.

La prima tappa, il casello autostradale, pareva un mare grigio coperto di sardine. C’erano così tante macchine in coda che si scendeva e si faceva amicizia. Penso siano nate storie d’amore, faide e scazzottate. Poi si saliva e si riprendeva il viaggio come niente fosse.

All’epoca soffrivo il mal d’auto. Gli ammortizzatori della macchina erano quello che erano, ma sicuramente incideva il fatto che, a un certo punto del viaggio, io e mia sorella ce ne stavamo in ginocchio a fare le linguacce alle macchine dietro. Mio padre ha rischiato il linciaggio.

Generalmente, si alloggiava in qualche pensione. Le pensioni, erano proprio pensioni. Mica come adesso che anche la più sgarruppata c’ha la piscina. No. Allora sembrava di stare in uno di quei condomini dell’hinterland milanese, senza ascensore e con le porte in laminato finto legno.

Il mare, io lo odiavo. Almeno al mattino, perché mia mamma ci costringeva ad alzarci all’alba per andare sul molo a respirare lo iodio. Ioodio, io odio. Camminavamo con la salsedine che ci induriva i capelli. Al pari nostro, si vedevano altri figli emaciati di città che vagavano trascinati come gli ignavi nel limbo.

Quando finalmente il sole lambiva la spiaggia, ci sistemavamo con tanto di ombrellone. Per il bagno, bisognava aspettare, che avevamo appena fatto colazione. Tre ore. Le tre ore più lunghe della mia vita. Allora me ne stavo accoccolata a guardare la gente. Vi dico subito che le donne avevano i peli sotto le ascelle. Tutte, indistintamente. C’erano anche quelle che li avevano sulle gambe e sulla faccia. Non ricordo come si gestisse la questione inguine. Forse i costumi erano talmente alti da nascondere tre quarti del corpo.

Gli uomini, invece, avevano il riportino per nascondere la calvizie. Il riporto era un problema quando tirava vento. Svolazzava come una bandiera.

Mio papà no. Lui era magro come un’acciuga. Non era un cappellone, certo, ma i pochi ricci facevano il loro dovere.

Mia mamma era sempre la più bella della spiaggia. Almeno secondo mio papà. Poteva pure passare Brigitte Bardot, ma mio padre avrebbe detto: «Mica c’ha le gambe belle come le tue».

Noi bambini avevamo i costumi di una strana stoffa, forse un misto tra lycra e flanella. Di fatto, quando si bagnavano diventavano pesanti come tute di palombari.

I bambini si dividevano in due schiere: quelli con le spalle bianche di crema solare, e quelli con le spalle rosse bruciate dal sole.

La crema solare aveva una protezione duecento (mila). Praticamente era malta da applicare con la cazzuola.

Io e mia sorella eravamo nel secondo gruppo. Ci venivano le bolle, poi ci divertivamo a toglierci lembi di pelle che si staccavano docili.

Per fare il bagno, o sapevi nuotare, o avevi il salvagente. Mica i braccioli, credo non esistessero, perlomeno nella nostra famiglia. Noi avevamo un salvagente che se non lo tenevi fermo con le mani, finivi nel buco e andavi in fondo al mare. Una volta papà aveva portato un materassino, di quelli rossi e blu. Puzzava di gomma e s’imbeveva d’acqua. In ogni caso lo usava mamma, così io e mia sorella giocavamo a riva, a farci trasportare dalla risacca. Quanto tornavamo all’ombrellone, il costume penzolava carico di sassolini e macchiato di catrame. Non chiedetemi perché, ma tutte le volte ci si macchiava di catrame.

La merenda era: o pane burro e marmellata, o pane e marmellata. Eravamo una famiglia del nord.

I bambini figli delle famiglie del sud, potevano spaziare dalle fette di pane imbevute di pomodoro alla parmigiana con le polpette.

I giochi da spiaggia erano praticamente tre: pallone gonfiabile colorato, secchiello con paletta, rastrello e un’altra cosa che non ho mai capito a cosa servisse, tipo piccone. Nemmeno fossimo sulle dolomiti. Che poi, io e mia sorella manco ci potevamo fare i castelli di sabbia, perché la spiaggia era di sassi. Al limite potevamo costruire trincee come al fronte. Infine, c’erano le biglie di plastica trasparente, con le foto di Eddy Merx e compagnia bella. Quello era un gioco destinato ai maschi. Io schiumavo perché con le biglie di vetro ero una campionessa del rione.

La percentuale di papà che giocavano con i figli a costruire castelli (non di sabbia, almeno sulla nostra spiaggia), era intorno all’uno per mille. Pochi, pochissimi. La maggior parte se ne stava sotto l’ombrellone a fumare. All’epoca, tutti fumavano dappertutto. Forse solo in chiesa non si poteva. Per il resto, nel cinema, nei ristoranti, negli ospedali, aleggiava una nebbia di nicotina. Soprattutto nei reparti maternità. Lì era praticamente d’obbligo. Anche se un papà non fumava, lì, nella sala d’attesa, si accendeva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Perché i papà mica partecipavano al parto. No, aspettavano fuori in attesa che arrivasse l’infermiera col verdetto: «È maschio!», «È femmina!», «Sono due!». Questo è capitato a mio zio. Credo sia svenuto, ma nessuno se n’è accorto per via della nebbia di nicotina.

Già, perché non esisteva l’ecografia. Il sesso si poteva prevedere con il pendaglio, oppure osservando la pancia, se era a punta o no.

L’orizzonte del mare era punteggiato da pedalò e canotti. Qualche barca di pescatori della domenica. Certo, non c’erano moto d’acqua e nemmeno gonfiabili sfarzosi come Regge di Versailles.

Talvolta potevamo comprare il gelato. Già, il gelato. Adesso puoi scegliere tra un migliaio (alla sesta) di gusti. Allora erano quattro: panna, cioccolata, fragola e limone. Talvolta fior di latte. La vera rivoluzione fu l’avvento della stracciatella

FINE PARTE UNO

Babu e l’infinito

«Nonna, tu non vieni con me e mamma?»

«No, piccola scimmia, nonna è vecchia, rimane al villaggio con Didi».

Didi, il cane, se era messo a scodinzolare, sollevando la terra dello spiazzo. La siccità aveva reso tutto friabile, impalpabile. La stagione delle piogge si era fatta sempre più breve e violenta. L’ultima volta, quasi tutte le capanne del villaggio erano state rovinate da una tromba d’aria. Dell’acqua caduta dal cielo, la terra ne aveva rifiutato la maggior parte. Troppo dura per immagazzinarne.

La nonna alzò lo sguardo dal piccolo Babu. Per un momento lasciò quegli occhi grandi pieni di meraviglia, pieni di futuro. Sospirò guardando il cielo offuscato dalla polvere che s’alzava ad ogni alito di vento, avanzando dentro le case, coprendo le poche verdure che crescevano nell’orto.

«Ma così rimani da sola», insistette Babu.

«Che dici, piccolo cerbiatto, sai che verranno a farmi compagnia il nonno e il papà».

«Ma loro sono in cielo!».

«Oh, certo, ma la loro anima può viaggiare e venire da me. Li chiamerò mentre sono a guardare le stelle. Mi racconteranno tutto, veglieranno sul vostro viaggio, e sarà come essere insieme a voi».

«Nonna, mi racconti ancora dove andremo io e mamma?»

«Sì, dolce gazzella. Camminerete molto, dovrai essere bravo, non lamentarti e stare sempre vicino a mamma. Poi arriverete al mare. Tu non hai mai visto il mare. Nemmeno io. Ma so che è fatto d’acqua, tanta acqua azzurra e splendente, senza confini».

«Bello, vero nonna?».

«Bellissimo, piccolo struzzo. Non avrai abbastanza occhi per guardarlo».

«E dopo?».

«Dopo ci saranno delle grandi barche, non come quelle che vedi quando andiamo al fiume, più grandi, per attraversare il mare e arrivare in Italia».

«Italia, bella questa parola, vero nonna? Italia. Mamma dice che è una cosa grande, come il respiro di Dio».

«Grande come il respiro di Dio», ripeté la nonna guardando seriamente il nipotino.

«Mamma dice che in Italia ci sono orti dappertutto, giardini e frutteti. L’acqua nelle fontane è fresca e trasparente. Ci sono cose da mangiare che si possono cogliere dagli alberi, polli arrosto e tacchini. Dice che non ci sono animali pericolosi. Che è il posto più simile a quello dove stanno ora il nonno e papà».

«Certo, piccolo camaleonte, ci sono persone gentili, eleganti con le macchine lucide come specchi. Poi ci sono tante medicine che fanno passare tutti i mali. E gli aerei nel cielo che lasciano strisce che paiono sorrisi. Con gli aerei si va molto lontano».

«Allora, appena arrivo in Italia, prendo un aereo e torno qui, così potrai salire e venire con noi».

«Mi sembra una buona idea, Babu, molto buona. Aspetterò di vedere il sorriso del tuo aereo per volare insieme».

«Nonna…».

«Sshh, piccola lucertola, è ora di dormire. Domani, dovrei metterti in viaggio molto presto, prima che sorga il sole. Mi raccomando, non dimenticare questo».

Nonna allungò una mano sul petto del bambino, dove aveva cucito una tasca. Dentro, oltre a un amuleto, aveva messo la pergamena che aveva vinto Babu durante una gara di corsa campestre, pochi mesi prima, a soli sette anni.

Era stata l’ultima volta che erano andati in città, con il papà di Babu. Poi la guerra se lo era portato via. Erano rimaste la fame e la polvere, al villaggio. Pochi anziani che faticavano a percorrere le quattro miglia per prendere l’acqua al fiume, sempre più secco. Babu meritava di meglio che vedere il fiume inaridirsi e la terra diventare polvere. E poi c’era la guerra. Quella è peggio di qualsiasi carestia. Fa morire le persone, anche quelle rimaste vive.

«Così vedranno che sei un bravo bambino e molto forte, per giunta. Tutti ti vorranno».

«Bene, ma io vorrò stare solo con mamma e con te. In un giardino di fiori e frutta, con le galline che beccano Didi».

«Certo, anch’io, mio amatissimo. Ma ora dormi».

Nonna rimase tutto il tempo a vegliare il sonno del piccolo. Era magro, ma sveglio, intelligente, buono. La nonna si chiese se fosse troppo buono. Pregò gli spiriti e Dio.

Non era ancora sorto il sole. Il cielo nero serbava la cupola di stelle, quando al villaggio arrivò un autocarro.

Sopra, alcune persone insonnolite. C’era anche una ragazza, aveva il pancione protetto dalle mani. Babu aiutò sua madre a salire, tenendole la mano. Si stava issando a bordo, quando volle dare un ultimo abbraccio alla nonna. Corse per il breve tratto con il pianto negli occhi, poi rintanò la faccia nel suo grembo. Si asciugò le lacrime sulla veste, mentre la vecchia gli accarezzava la testa.

«Ora vai Babu, e ricorda di essere sempre una brava persona», disse la nonna con la disperazione nella voce.

Babu salì a bordo. Il carro partì. Destinazione infinito.

Narcisista Patologico

Rido. La mia risata non è una di quelle fragorose e aperte, di quelle che chiunque ti senta si volti e che diventa subito contagiosa. La mia risata si nota appena con un piccolo cenno delle mie labbra, che si incurvano all’insù. Ma rido piena di soddisfazione. Mi fa ridere un uomo di 55 anni che si comporta come un bambino. Un bambino che crea video per accrescere la stima per se stesso.

Fai tutto da solo. Al mio paese si dice: ”Tu te la suoni, tu te la canti”

Parli di vipere, e chi sarebbero le vipere? Le tue vittime sono le vipere?

Non hai la capacità di guardarti allo specchio, perché non vedresti niente. Tu non hai una tua immagine propria. Tu riesci a vedere soltanto il riflesso che costruisci negli occhi delle tue vittime.

Nei tuoi profili ti definisci generoso e altruista.

Perché non racconti la verità alla tua vittima di turno? Perché non racconti che il tuo matrimonio è naufragato perché sei stato tu a tradire?

Perché racconti che il tuo successivo rapporto è durato solo due anni, quando la verità è che è durato più di dieci anni. Perché non racconti che questa donna, che non ha mai avuto figli suoi, ti ha aiutato a crescere tuo figlio e che il vostro rapporto è finito perché hai tradito anche lei.

La tua vita è costellata di bugie e di tradimenti, complici i tuoi parenti. Una madre che all’apparenza sembra una donna irreprensibile e magari anche devota ad una chiesa cattolica, ma che alla fine si rivela la peggiore delle donne, complice di un figlio che oltre a fare male ad altre donne cresce un figlio passandolo da una situazione ad un’altra con la stessa facilità con cui si cambiano le mutande ogni giorno.

E ora ti spiego perché rido. Tu crei questi video perché sei convinto che le tue vittime li guardino e provino invidia per la tua vita amorosa, pensi che le tue vittime si struggono perché un’altra in quel momento vive con te quegli attimi finti. Eh si! Finti! Non hai ancora capito che le tue vittime adesso ti conoscono e adesso sanno quanto tu sia finto. L’unica sensazione che possono provare è pena. Pena per la tua vittima di turno. E rido. Perché adesso io ti vedo per quello che sei. Un pagliaccio che si dimena per cercare di creare uno spettacolo,  per noi che siamo gli spettatori in un’arena dove sei solo tu l’interprete della tua vita vuota.

 

 

Elsa

-“Ho pagato io i nostri caffè”-  mi dice Elsa mentre raccogliamo zainetti, bastoni e felpe

Di solito veniamo qui a piedi, sono solo un paio di chilometri su un comodo sentiero nel bosco; solo gli ultimi metri li  percorriamo a bordo strada e il bastone serve a tenere lontane le auto, qui corrono tutti!

Anche oggi ci siamo trovate al bar del laghetto e domattina pagherò io il caffè ad Elsa.

Ci siamo conosciute venti anni fa quando, a distanza di pochi mesi una dall’altra, abbiamo preso casa qui in valle

Ci siamo trovate subito simpatiche, a nostro agio, come se ci conoscessimo da anni.

Nei primi anni aspettavamo quindici giorni per rivederci e raccontarci le novità, ora approfittiamo dei fine settimana lunghi e della stagione estiva per trascorrere tanto tempo insieme.

Con quattro chilometri dello stesso sentiero arriviamo a piedi in paese e qui troviamo  chiesa, biblioteca, banca e i pochi negozi che ci servono; di solito ci andiamo a piedi, con calma, ascoltando il forte rumore che fa il fiume tra i massi.

-“Ci vediamo verso le ventuno?”-  mi chiede Elsa quando ci salutiamo ai piedi della scala che porta a casa mia

-” Come sempre vengo io , Renzo guarderà le partite”- aggiunge parlando del marito.

Elsa ha avuto un’infanzia molto diversa dalla mia che è stata tranquilla e serena; lei da piccola  è stata messa in collegio dalle suore in Liguria, dopo che era rimasta orfana di padre e, nonostante la lontananza dalla mamma, ha un buon ricordo di quegli anni, anche se vivevano di elemosine

Forse il suo carattere si è formato in quel periodo, Elsa è socievole, positiva, forte, sa tenere i contatti con le persone vicine e lontane, è sempre attiva, ama gli animali.

E’ di altezza media, gambe snelle e petto forte, capelli corti e bianchi, occhiali azzurri, indossa sempre pantaloni e scarpe basse, bigiotteria “sberluscente”

Difetti? Non è portata per l’economia e se vai per negozi con lei sfori sempre le previsioni di spesa; alla sera ama andare a letto molto tardi e io mi vendico alla domenica mattina dandole gomitate quando la vedo appisolarsi durante le omelie di don Michele!

Spesso ci piace incontrarci in centro a Milano, io arrivo dal sud e lei dal nord della provincia: una caffè, un panino e qualche ora di svago insieme.

Elsa c’è da tempo nella mia vita, sia nei momenti felici che in quelli tristi. Una vera amica.

Lettera a mia figlia

Così finalmente sei qui con me, ecco come ci si sente. Ho avuto 9 mesi di tempo per fare le prove ma nulla avrebbe mai potuto prepararmi a questo momento così perfetto, dove tutto è amore e marca la differenza fra prima di te e ora che tu ci sei.

Quanto dolore figlia per partorirti, quanto dolore. Dicevano che nel momento in cui ti avrei avuta fra le mie braccia avrei dimenticato tutto ma non è stato così, ricordo esattamente ogni momento del travaglio che sembrava non dover finire mai. Ora però che ci sei, che assaporo il tuo innocente calore, sento che tutto ha avuto senso. Le mie battaglie, le mie gioie e i miei dolori, la fatica di vivere, l’amore dato e ricevuto, i desideri realizzati e anche gli insuccessi, la mia vita intera non è stata altro che una lunga preparazione per arrivare a te e solo ora tutto è perfetto.

Vorrei poterti promettere che il mondo con te sarà buono, che conoscerai solo cose belle e amore infinito. Mentirti sarebbe facile, non sai ancora nulla. Forse potrei tenerti nascosta per sempre, lontana dalle sofferenze e dalla cattiveria, ma so di non poterlo fare perché la vita va sempre avanti come un fiume in piena e non possiamo che seguirne la corrente.

Posso però giurarti che sarò ogni giorno al tuo fianco, ad affrontare insieme a te qualsiasi momento con il coraggio e la forza di una tigre. Giocherò con te e ti farò ridere anche quando i miei occhi si chiuderanno dal sonno. Ti curerò quando ti ammalerai e renderò più dolce ogni tua attesa. Raccoglierò le tue prime lacrime d’amore, ti spiegherò le cose della vita mettendoci tutta la mia anima e la mia esperienza. Farò tutto, tutto quanto in mio potere per proteggerti sempre dal male del mondo e consolarti quando farai fatica.

Ascolto il tuo respiro mentre osservo il tuo piccolo petto sollevarsi ritmicamente nel sonno.  Chissà cosa stai sognando in questo preciso momento, forse i ricordi di quando eri dentro di me e tutto era ovattato, rassicurante. Il tuo mondo era piccolo e aveva i contorni tondi della mia pancia. Quante carezze su quel pancione che ogni giorno cresceva pieno di promesse.

Ti muovi piano e fai delle deliziose smorfiette toccandoti la bocca con le manine paffute. Una, due, tre… conto le tue piccole dita così tenere, così perfette da farmi commuovere. Tutto in te è perfetto e sa di noi, perché oggi è iniziata la nostra avventura.

Per te ci sarò sempre. Ci sarò anche quando sbaglierai, perché purtroppo ogni tanto è destino che accada, e se persino il mondo intero ti abbandonasse io sarò ancora lì, accanto a te, a difenderti da tutto e tutti perché sono la tua mamma. Amore mio infinito, vita mia, sarò la tua mamma per sempre.

L’ultimo concerto

Amo il colore azzurro. Lo trovo rassicurante, come quando alzo gli occhi e osservo il cielo che sembra esistere solo per me, che mi osserva dall’alto e mi convince che va tutto bene.
Sdraiata sull’erba fresca e soffice, concentro per un attimo l’attenzione sull’operoso frinire delle cicale.
TriTriTriTri… il loro canto un po’ stridulo suona alle mie orecchie assetate di natura come un vero e proprio concerto e lo assaporo mentre mi faccio cullare dal venticello che stempera il calore del sole.
Sarà l’ultimo concerto di questa estate. Domani tornerò in quella piccola ordinata scatola di piastrelle e mattoni che mi ostino a chiamare casa mia.

Ora però non voglio pensare a nient’altro, sono qui e sono felice. E questo basta.

Fiori freschi in dono

Oggi sono stata a portarti dei fiori freschi. Un mazzo bellissimo, il più bello di tutto il cimitero. Dovevi vedere con che sguardi di compassione mi guardavano tutti. Da quando te ne sei andato gli amici sono stati encomiabili, mi si sono stretti attorno e mi riempiono di attenzioni.

Questa casa mi lascia troppi ricordi dolorosi, ho deciso di venderla e quindi sto cominciando a impacchettare. Certo, mi hai reso questo compito particolarmente facile: ogni tua cosa tu l’avevi catalogata, organizzata, ordinata e riposta con un ordine perfetto. So esattamente cosa c’è, dove e perché.

Eh già, tu eri così: metodico, preciso e un po’ pedante. Con te le sorprese di certo non esistevano. Se posso permettermi, eri troppo metodico, preciso e un po’ pedante. Vivere con te era di una noia mortale. Io te lo ripetevo sempre: «Sorprendimi, fa’ qualcosa di diverso, esci dai binari!».
Ma tu niente. Mi spiace davvero per ciò che è successo, ma se fossi stato capace di venirmi incontro almeno un pochino di certo non ti avrei fatto mangiare quei funghi velenosi per cena!

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