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Nandini

Ginevra scese dal treno regionale e venne investita da una folata di vento tiepido: Nizza le dava il benvenuto con un turbinio di odori; c’era l’odore del mare d’estate, naturalmente, l’odore di stazione, costituito da acciaio e fuliggine, l’odore di cibo fritto in olio scadente.

Si incamminò verso l’indirizzo sul foglietto. Suonò il campanello e venne ad aprire Nandini, torreggiante nel suo pareo colorato incorniciato dai lunghi capelli biondo fragola. Si abbracciarono e Nandini cominciò subito a raccontare di Sokholov, il suo pianista preferito, per il quale le due amiche erano venute in Riviera. Nandini lo seguiva da molti anni e ne era innamorata; ovunque tenesse un concerto in Europa, acquistava il biglietto e andava ad ascoltarlo, rapita dalla sua bravura, meticolosità e inavvicinabilità. Le raccontò che più volte era riuscita ad andare nel suo camerino, aveva tentato di baciarlo, lui si era fin spaventato. Ginevra sussultò.

Dopo essersi cambiate, andarono a esplorare la città, la ricerca di cibo il loro obiettivo implicito.

Nandini era vegana da anni, da quando aveva vissuto in India come seguace di un monaco induista, al fianco del quale aveva approfondito le questioni fondamentali: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Cosa ci faccio qui? Cosa scelgo di mangiare? Lì aveva anche scelto il suo nuovo nome, con il quale firmava le sue traduzioni.

Ginevra aveva riportato i libriccini di Krishnamurti che l’amica sudafricana le aveva prestato: Nandini le disse di tenerli. Cadevano a pezzi e, in ogni caso, ormai quegli insegnamenti facevano parte di lei.

Non era propriamente bella, ma un guizzo di infantile pazzia e la risata improvvisa la rendevano affascinante, con un corpo ancora attraente a 64 anni, merito dei geni e dell’alimentazione.

Comprarono della frutta al mercato, si fecero dei panini con pane e formaggio che mangiarono sul muretto del lungomare e parlarono degli ultimi articoli di Valdo Vaccaro, l’igienista grazie al quale si erano conosciute, traducendo entrambe come volontarie per la causa.

Il concerto si teneva in un grande anfiteatro vicino alla spiaggia. Presero posto indossando i loro più abiti estivi più belli e si immersero nella musica. Alla fine del secondo movimento, Ginevra notò come un’ombra rossastra che si avvicinava al famoso pianista e lo avvolgeva in larghe vòlute che lo circondarono lungamente e poi lentamente si dissolsero. Era stata così rapita da quello spettacolo talmente inusuale che si accorse solo allora che la sua amica si era alzata ed era andata a sedersi sugli spalti più alti dove c’erano parecchi posti ancora vuoti. Sedeva statuaria nel suo abito rosso di organza, appoggiata alla ringhiera. Ginevra la chiamò, ma non ottenne risposta. Uno strano atteggiamento di quel corpo le mandò una scossa di preoccupazione istantanea giù per la colonna. In un attimo fu a fianco a lei cercando di rianimarla, inutilmente.

Il Carnevale

Ogni anno mi prende una grande eccitazione per il Carnevale. L’emozione di vivere per qualche ora nella pelle di un altro personaggio si impadronisce di me e mi mette una specie di frenesia addosso. Purtroppo non riesco mai a preparare per tempo il costume che vorrei.

Ogni anno, al termine dei festeggiamenti, faccio elaborati piani per farmi trovare pronta alla scadenza successiva, ma quasi mai ci riesco.

Non tralascio però di travestirmi, seppure con poco.

Quest’anno ho percorso a piedi mascherata da angolana il tragitto da casa mia al paese vicino, dove la ricorrenza viene festeggiata più in grande stile da grandi e piccini. Era una bella giornata mite benedetta da un sole caldo. Sono partita a piedi col volto coperto da una maschera e con una gran voglia di fare una passeggiata. Lungo il percorso ciclo-pedonale ho mietuto sorrisi benevoli da coppie di mezza età, sguardi sorpresi da automobilisti di passaggio, occhi sgranati da bambini in bicicletta, increduli che anche gli adulti potessero vivere così profondamente questa festa. Già il percorso di avvicinamento al luogo dei festeggiamenti è stato un divertimento. Ogni tanto si incrociava lo sguardo con altre maschere e subito era intesa, sorrisi abbozzati o addirittura uno scambio di battute.

Una volta sul posto, la musica ad alto volume, i carri allegorici, la quantità di maschere mi hanno travolto e alleggerito. Insieme a molte dozzine di persone abbiamo sfilato per le vie del paese. Ho chiesto a numerosi gruppi e singoli il permesso di fotografarli, alcuni costumi erano davvero originali.

Il tema proposto quest’anno dalla ProLoco del paese era il riciclo, dunque abbondavano ampi abiti femminili realizzati con cucchiai di plastica, con carta di giornale, con materiali vari di recupero. Alcuni uomini erano vestiti da rifiuto, con una tuta bianca e una grande R sulla schiena. Ho addirittura scorto un uomo vestito con un abito realizzato in Pluriball!

Dopo l’esibizione danzereccia, la distribuzione di “chiacchiere” e la premiazione delle maschere più originali, il mio tragitto verso casa è stato allietato dalla dolcezza del tramonto sulle campagne circostanti, questi paesaggi rurali costellati da vecchie cascine tranquille, non degne di nota, ma comunque a me care.

L’anno prossimo voglio vestirmi da Marianna (Maid Marian), l’arciera di Robin Hood.

Colazione letteraria

Io soffro di insonnia. Da quando è morto mio padre vivo nel terrore di una grande disgrazia che si abbatterà su di me, non avrò il denaro sufficiente per mantenere questa grande casa in cui vivo, finirò sotto i ponti sola e derelitta, dunque dormo poco e in modo disordinato.

Generalmente però mi faccio forza e quando mi sveglio, solitamente tra le 4 e le 6 a seconda se è un periodo buono o meno buono, mi alzo e comincio a fare quel che c’è da fare.

L’unico giorno che mi sono riaddormentata a letto con le mie bambine mi sono svegliata alle 10.15. Il giorno della colazione letteraria!

Mi ero tanto rallegrata alla notizia di questo evento, me l’ero segnato sul calendario, mi ero immaginata come sarebbe stata e poi arrivo in ritardo!

Dunque ho sfamato in fretta e furia le creature, sono uscita e mi sono precipitata alla biblioteca indicata. Chiusa.

Ho controllato: l’evento era programmato per il giorno dopo.

In fondo non era un male.

In macchina, decido di dirigermi a cercare il detersivo per la lavatrice che mi manca da giorni, intanto telefono alla mia amica Laura, notoriamente non avara di parole. Mi fermo da lei e le racconto della colazione, lei è subito entusiasta e promette di venire l’indomani.

Scrivo alle organizzatrici per avvisare che saremo forse in due. In realtà poi si aggrega anche la figlia di Laura.

Il giorno dopo infilo una tazza in vetro sottile, la mia preferita, in borsa (si sa mai che ci vogliano far bere da dei bicchieri di plastica… orrore!) e mi presento nel luogo indicato.

Mentre scendo dall’auto mi accolgono Laura e sua figlia. Entriamo in una piccola biblioteca di paese, linda, luminosa e moderna.

Ci sono tre tavoli doppi apparecchiati con cura: tovagliette di pizzo, piatti di ceramica, tazze multicolori e bicchieri uno diverso dall’altro.

Su un grande tavolo sotto la finestra sono allineate le pietanze del buffet, dolci, salate e indefinibili, le caraffe, il pane tostato, tutte cose un po’ particolari.

Su una graziosissima panchina in legno con un romantico cuscino sono ammonticchiati i libri della parte letteraria della colazione: Estasi, Colazione da Tiffany, Il grande Gatsby, Persuasione di Jane Austen e altri che non conosco.

Una giovane donna in una corta gonna di velluto nero a coste e una maglia a righe rosse e nere sta già leggendo. Porta un rossetto dello stesso colore della maglia e ha due occhi azzurri molto belli e luminosi. Qualcuno mi sussurra che è la figlia del primo bibliotecario del mio paese. Buon sangue non mente.

Niente castagne per me

Rovisto coi piedi tra le foglie secche del Parco Forlanini. Ho circa 8 anni, è domenica e i miei genitori, per una volta, mi hanno portato a fare una passeggiata nel parco anche se è inverno e fa freddo. Le castagne, con la loro forma arrotondata e il bel colore caldo e lucente, mi chiamano a sè. Le faccio scorrere tra le mani, me ne riempio le tasche del cappotto, le faccio suonare, le tiro raso terra a mio fratello, ma mi fanno smettere subito; mi piacerebbe usarle ma… a me le castagne non piacciono da mangiare. Dunque per me non sono utili. Sono belle però, questo sì. Un giorno ho provato a infilare una collana di castagne, con trapano e tutto. Alla fine però l’ho buttata via, il risultato non era molto… estetico.

Oggi delle castagne apprezzo l’odore. Le caldarroste di novembre in piazza del Duomo a Milano per me sono il simbolo dell’inverno arrivato.

Forse la mia mancata simpatia per le castagne è dovuta al fatto che nella mia famiglia non c’è mai stata la cultura delle castagne. In Germania credo che non si consumino, ad ogni modo mia mamma non ne ha mai fatto cenno. Mio papà ormai era lontano dalla cultura contadina, forse anche dal ricordo della povertà che le castagne simboleggiano.

Sono riuscita a mangiarle a mia insaputa settimana scorsa a casa della Vanda che, da buona emiliana, aveva organizzato una tagliatellata a casa sua in occasione della Befana. Solo dopo ho scoperto che quelle tagliatelle un po’ scure, dal sapore vagamente dolce, erano fatte con farina di castagne. Non erano poi così male, grazie soprattutto al saporito sugo di funghi porcini.

Tenendoci per mano: I MELONI DI MIO PADRE

Sono nata in un piccolo paesino della Lombardia, dove gli inverni sono freddi e umidi e le estati calde e afose. Il vento non sapevo neanche cosa fosse. Io l’ottava di nove tra fratelli e sorelle, mio padre un padre-padrone. Quando avevo dodici anni mia madre morì, mio padre si risposò praticamente subito ed io, quasi la più piccola, imparai a fare da schiava ai miei fratelli più grandi. Fu così che appresi la gerarchia tra uomini e donne.

Mio padre commerciava in meloni. Avevamo campi e campi a perdita d’occhio, mio padre assumeva lavoranti per l’estate, che governava con pugno di ferro. Più tardi arrivarono le serre e più avanti ancora gli immigrati che lavoravano in nero per un tozzo di pane. I meloni si vendevano bene. Nella mia famiglia, nonostante fossimo in tanti, non abbiamo mai sofferto la fame.

Il giovedì e la domenica mio padre li caricava su un carretto trainato da due cavalli e li portava sulla piazza del mercato del paese vicino, a venti minuti di cammino. Là, sotto il sole, le massaie tastavano, annusavano, se li rigiravano tra le mani fino a scegliere il migliore, poi lo infilavano nella sporta a rete, a volte due, tre, quattro alla volta, e li portavano alle loro famiglie.

Io da bambina qualche volta aiutavo: mi arrampicavo in cima al carretto e sceglievo quelli che mi venivano indicati, ritiravo il denaro, quando fui in grado di contare davo anche il resto.

All’una, dopo aver ripulito lo spiazzo a noi assegnato, caricavamo l’invenduto e tornavamo a casa leggeri, dove la mia aveva preparato tre marmittone fumanti di pastasciutta al pomodoro, o la polenta. I miei fratelli ed io mangiavamo avidamente e in men che dica era tutto finito. A me toccava aiutare a rigovernare, poi si faceva il bucato e verso sera ci si ritrovava attorno al camino e alla stufa a legna a raccontare storie e a commentare i fatti della giornata mentre mia madre, le mie sorelle ed io ricamavamo. Le donne non dovevano mai essere inoperose, nemmeno nei momenti di riposo. Fu così che iniziai a preparare il mio corredo da sposa.

Poi non lo usai mai. Mi sposai presto, che il corredo non era ancora pronto, per sfuggire a quella vita di solo lavoro.

Conobbi mio marito in una calda sera d’estate profumata di fieno appena tagliato.

Siccome ero la ribelle di famiglia – ed essendo la penultima di acqua sotto i ponti ne era passata – decisi di saltare la cerimonia in chiesa e mi sposai solo in Comune, a Palazzo Reale a Milano. Per la mia famiglia fu uno scandalo e mi predissero morte e sventura. Fortunatamente non andò così male: con mio marito regalammo la vita a tre figli, che studiarono e ci diedero grandi soddisfazioni, vivemmo insieme fino a tarda età, in discreta salute e in buona armonia.

Quando morì mio padre, l’azienda fu rilevata da uno dei suoi fratelli più giovani, che aveva una nidiata di figli. Ogni tanto vedevo una delle sue figlie arrampicarsi sul pianale del furgone nella piazza del mercato e gestire le richieste di meloni delle massaie che, come nella mia infanzia, non mancavano. Le terre della mia famiglia sono ricche e i meloni ci crescono bene. Sono sodi, colorati, zuccherini. Ogni tanto ne sparisce qualcuno, dice mio zio, ma è nell’ordine delle cose. Una delle mie nipoti prenderà in mano le redini dell’azienda, lo vedo già, lei molto più capace e intraprendente dei suoi fratelli: ci sa fare con le signore, è gentile, complice, fa qualche euro di sconto e loro si sentono speciali, sentono di avere un’alleata, perché è donna, sta dalla loro parte. Mio zio è inflessibile e burbero, un gran lavoratore, ma con le persone non ci sa fare. Sua moglie lo assiste defilata, quasi spaventata e grata di quella figlia tardiva che le evita certe incombenze, questo regalo di Dio che sta tirando su le sorti della famiglia, con i suoi doni di diplomazia e il suo fidanzato instancabile lavoratore dalle mani d’oro, che ha rimesso a nuovo l’impianto elettrico di tutta la casa.

I miei fratelli sono tutti sposati, in chiesa naturalmente, e ognuno ha la propria famiglia. Non ci siamo spostati di molto, ci incontriamo ancora spesso per un motivo o per l’altro nei paesini intorno a quello dove siamo nati, spesso ci incrociamo al mercato o a qualche festa di famiglia. Io sono rimasta la pecora nera, ma nessuno mi deride più. La maggior parte di loro ha tresche o vive di apparenze, io amo mio marito: per strada ci teniamo per mano e aspettiamo la pensione mia per poter realizzare il nostro sogno di viaggiare. Nel frattempo mio marito si tiene impegnato, anzi, non ha un minuto libero e dice che non gli basta il tempo! Da pensionato!!

Appena è andato in pensione si è iscritto a un progetto di apicoltura alternativa, top-bar credo che si chiami, nel quale le api non vengono sfruttate come col sistema tradizionale. Nel giro di un anno ha fatto installare sul tetto della nostra casa pannelli fotovoltaici e un sistema di recupero dell’acqua piovana che ci fa risparmiare 600 metri cubi di acqua all’anno.

Le domeniche d’autunno traffica con i telai per gli alveari, le domeniche di primavera va alla ricerca di nuovi pascoli per le famiglie di api ormai cresciute, durante la settimana sforna pane e focacce che regaliamo ai figli e agli amici, poi si è aggregato a un progetto per far partire una comunità energetica nei paesi vicini, che purtroppo non si è realizzato. Mi sento fortunata quando riusciamo a fare qualcosa insieme!

La città in cui vivo

Alle 16 inforco la bicicletta, pedalo per circa venti minuti costeggiando corsi d’acqua e campi coltivati, mi fermo a raccogliere qualche verdura a pagamento che sistemo nelle tasche laterali della bici e sono a casa. Ravvivo la stufa a legna che Lars ha acceso la mattina, dò da mangiare alle ragazze e mi butto sul divano. La mia giornata lavorativa è finita. Accendo una candela e mi godo la quiete della pioggia che comincia a cadere, le ragazze pian piano vengono a farmi compagnia sul divano, prima una, poi due, poi tre. Siamo tutte vicine, pelose e capellute, sprofondate nella morbida pelliccia del copridivano che fa sparire almeno due di loro, perfettamente mimetizzate.

 

Le giornate scorrono lievi, qui. C’è un’alternanza armoniosa di lavoro manuale e intellettuale, propaggini dell’uno si inseriscono nell’altro senza soluzione di continuità ed io mi sento completa.

 

Sull’isola dove vivo non sono ammesse auto. Ci si sposta in bicicletta, in barca, a piedi. Siamo in 1500 e si conoscono tutti. Io no perché sono arrivata sei mesi fa. Non parlo ancora la lingua, anche se la sto studiando, mi arrangio con l’inglese, qui tutti parlano un inglese eccellente, anche se con accento.

 

La mia casa è costruita in paglia e argilla, ha il tetto di alghe impregnate di sale e i muri spessi 50 cm. E’ costruita con tecniche tradizionali che la rendono perfettamente coibentata e traspirante, oltre che ignifuga. Mi colpisce il fatto che quando entro non sento altro odore se non quello delle erbe della cucina e degli oli essenziali che uso per pulire.

 

Decisi di trasferirmi qui una sera di gennaio mentre guardavo un programma di viaggi alla televisione tedesca quando vivevo in Italia. Fu una folgorazione: mi erano sempre piaciuti i Paesi dell’area scandinava, vuoi per la loro oggettiva superiorità di vita, vuoi per l’affinità estetico-emotiva che ho con i Paesi del nordeuropa per via delle mie origini tedesche.

 

Da tempo ero preoccupata per il mio futuro: per il costo della vita, per la mancanza di prospettive lavorative nel mio Paese alla soglia dei cinquant’anni, per  le nuove normative che l’Unione Europea sfornava a ogni piè sospinto e che stavolta rischiavano di azzerare il valore dell’immobile ereditato dai miei genitori in cui vivevo.

 

In quattro e quattr’otto ho deciso: mi sono candidata per gestire un negozietto di seconda mano specializzato in abiti d’epoca femminili e accessori tessili, ho cercato una camera in affitto nella stessa località, ho caricato in macchina le ragazze e il minimo necessario per vivere felice con le mie piccole comodità e sono partita per la Danimarca.

 

Della mia vecchia casa, troppo grande per me, si occupa una mia amica d’infanzia, l’unica di cui mi fidi veramente per queste cose, occasionalmente mio fratello. Le bollette finiscono direttamente sul mio conto bancario.

 

Col mio lavoro guadagno appena il necessario per sopravvivere, ma è una sfida che tutto sommato non mi pesa. Fortunatamente non ho grandi vizi, i beni accumulati nella mia vita precedente bastano fino alla fine dei miei giorni e oltre.

Tra sei mesi deciderò se vendere la mia vecchia casa con tutto il suo contenuto.

La mia città preferita

Questa volta il nero non mi ha portato fortuna: ho perso subito i pezzi più importanti, accecata da una furia di conquista che mi ha fatto dimenticare di tener d’occhio i pedoni dell’avversario. Una volta cadute le due torri, la partita era praticamente conclusa.

Mi resta la soddisfazione del tavolino da scacchi trovato stamattina con Jens al mercatino del municipio di Schoeneberg, quello del famoso discorso di JFK del 1964; un tavolino così era un mio sogno da diversi anni.

Spero che tra poco, dopo un pranzo ristoratore, ci scappi un piccolo concertino alla chitarra con canzoni che conosco anch’io.

 

Vivo a Berlino da sei mesi, dopo aver fatto avanti e indietro per 10 anni. E’ stata una storia d’amore fin dall’inizio, una città dove mi sono subito sentita a casa.

Tutto iniziò con la conferenza Servas tedesca a cui fui invitata perché parlavo la lingua. Dovendo decidere presso quali soci pernottare, decisi di chiedere ospitalità a Petra e Uri (“Petra non è una complicata” mi aveva detto Connie, la Segretaria Nazionale, ed era vero) ; poche ore dopo aver conosciuto Petra avevo deciso che era stato il mio angelo custode, mia mamma, a farmi incontrare quella donna straordinaria.

 

Per età poteva essermi madre, ma aveva l’entusiasmo e l’agilità di una ragazzina. Quando cerca qualcosa negli armadietti della cucina, ancora oggi si siede per terra a gambe larghe, tipo Pippi Calzelunghe, e comincia a rovistare, mi fa morire dal ridere.

E’ molto attenta ad ogni cosa che dici, ascolta assorta, partecipa con tutto il suo essere e fa domande acute e pertinenti. Usa la lingua in modo giocoso e arguto, piegandola ai suoi capricci e facendole fare volteggi acrobatici, una specie di Oscar Wilde in gonnella. E’ una donna colta e brillante, stranamente dotata di un complesso di non-essere-mai-abbastanza.

 

Abito poco lontano da lei, nella via più lunga di Berlino nel quartiere di Charlottenburg, in un grande appartamento al pianterreno di un palazzo azzurro e bianco di quattro piani sotto la protezione del Dipartimento delle Belle Arti. Ho avuto fortuna perché una ricca vedova sempre in giro per il mondo aveva bisogno di qualcuno che le curasse la casa e le bagnasse le piante, in cambio posso abitare qui a costo zero.

Sulla facciata c’è un bovindo schermato da tende leggere che dà sul doppio soggiorno, un tempo il locale destinato agli uomini, poi quello meno luminoso destinato alle donne, quindi un lungo corridoio di 9 metri con porte sui lati conduce rispettivamente a una camera-ripostiglio, a una cucina, al bagno e alla camera da letto. Io mi sono sistemata sul divano-letto in soggiorno, accanto al Ficus Benjamin, alla Kenzia e alla Sansevieria che curo come delle figlie.

 

Il palazzo ha un androne molto signorile, anche se manca di ascensore e questo per gli altri inquilini è un problema. Per me no, anzi, io sono ben contenta di abitare al pianterreno perché così le mie bambine hanno accesso al giardino sul retro. Il giardino è in condivisione, ma va bene lo stesso. E’ chiuso e così non rischiano di venire investite dalle auto.

 

Ogni mercoledì ci incontriamo a turno a casa dei membri della Società Teosofica. Quando ospito io indirizziamo i nostri sforzi verso un volontario allontanamento della famiglia Thamm al pianterreno, in modo che liberi gli altri condomini dal suo opprimente ostruzionismo in sede di assemblea condominiale. Se riesco nell’intento, il premio è un viaggio un Provenza, mi ha assicurato la proprietaria dell’appartamento.

 

Il palazzo è tranquillo, popolato prevalentemente da anziani professionisti. Con due appartamenti per piano, raramente si incontra qualcuno. Il luogo di aggregazione principale è il locale smaltimento rifiuti, dove ho fatto la conoscenza della maggior parte dei condòmini, che tra un bidone troppo pieno o un rifiuto mal riposto si lasciano andare a qualche confidenza che apre la porta alla conversazione. Durante uno di questi ameni incontri ho fatto la conoscenza di un distinto signore del terzo piano, che studia da anni l’italiano ed è appassionato di cucina. Sembra che il suo piatto forte sia la salsa di pomodoro all’aglio che non vede l’ora di farmi provare ed io non ho cuore di rivelargli che da noi, insomma, non è tenuta in grande considerazione. Sì, perché qui bisogna stare attenti: basta una piccola critica e subito ti guardano storto.

A me non piacciono parecchie spezie qui molto usate, ora passo per una persona difficile. E sì che sono solo:

– anice

– cumino

– coriandolo

– curry (non la curcuma, proprio il misto di spezie per il curry)

– aneto fetido (beh, già il nome…)

– liquirizia

– cannella

– assenzio

– senape

– semi di finocchio

 

 

La neve

Racconto al femminile

 

L’anziana sarta si privava spesso della gioia, in nome delle convenzioni, in nome del risparmio, in nome della mancanza di prospettive.

Anche quel giorno, per esempio, a metà mattina aveva abbassato le tapparelle del soggiorno, finestra e porta-finestra, per ricreare la penombra che non avrebbe intaccato i delicati tessuti di seta con cui aveva cucito i cuscini multicolori che adornavano il suo divano. Non solo, c’era anche la raccomandazione del governo tedesco, che si appellava al senso di responsabilità dei propri cittadini per risparmiare energia, in particolare sul riscaldamento.

Poco importava che la sua giovane ospite, arrivata dall’Italia il giorno prima, appollaiata sul divano-letto, fosse rapita dallo spettacolo della neve che, leggera e silenziosa, cadeva fino a ricoprire la cappella tardo-gotica e il suo campanile a cipolla di uno strato bianco, avvolgendoli in una morbida coltre.

Le due donne si guardarono negli occhi: per un momento i due opposti si toccarono; la giovane votata a raccogliere frammenti di piacere a piene mani, l’anziana quasi spaventata dalle occasioni di bellezza alla sua portata.

La tapparella si avvolse verso l’alto con un rombo, il candore della neve inondò il soggiorno e avvolse di bianco ogni cosa.